altrevelocita-logo-nero
(foto di Gianluca Camporesi)
(foto di Gianluca Camporesi)

Speciale Ipercorpo 2025 – Il campo potenziale dello sguardo

di Francesco Brusa, Petra Cosentino Spadoni

Racconti e visioni dalla 21esima edizione di Ipercorpo, festival internazionale delle arti dal vivo che si svolge negli spazi di ex-Atr (Forlì)

Viene citata un’espressione di Vittorio Sereni durante l’incontro di apertura della sezione del festival Ipercorpo dedicata all’arte contemporanea, quegli immediati dintorni che danno il titolo alla raccolta di prose in cui il poeta lombardo si confrontava con le questioni più prossime alla scrittura in versi e all’ispirazione creativa. In cui ci si interrogava su quale fosse l’“angolo” giusto fra realtà del vissuto e testimonianza artistica, e di come questo angolo non potesse mai essere dato una volta per tutte ma andasse costantemente reinventato e rimodulato, anche, se così dovesse essere, attraverso la frustrazione provocata dal silenzio e dalla mancanza di convinzione.

Nello specifico degli appuntamenti presso l’ex-Atr di Forlì ci si riferiva a una breve passeggiata svolta attorno al perimetro della struttura, per ammirare le fotografie di Giovanna Silva (la prima artista ospitata nella sezione dedicata all’arte contemporanea) che erano state stampate e affisse su pannelli pubblici e che ritraevano i luoghi del festival nella loro identità indecisa del quotidiano. Ma appunto si sarebbe tentati di estendere l’espressione a tutte le cinque giornate della ventunesima edizione di Ipercorpo e alla tensione di fondo che sembra aver animato la curatela – a cavallo fra esposizione di arte contemporanea, danza, ipotesi performative, dispositivi relazionali, realtà aumentata e circo. Quella cioè di una diversità di forme e formati che non è però tanto ricerca di una pluralità di offerta o apertura a una molteplicità di pubblici quanto, parrebbe, l’esplorazione di immaginari – reali e potenziali – che stanno attorno all’arte dal vivo, che ne precedono o seguono le concrezioni spettacolari più definite e conchiuse.

Mara Serina, codirettrice del festival, racconta di come quest’anno sia stata introdotta qualche nuova sfumatura nella dialettica fra le diverse “sezioni” del festival: «Il lavoro di immaginazione e di progettazione del festival prende forma a partire da tre squadre. Io, Valentina Bravetti e Claudio Angelini ci occupiamo dell’ambito teatrale e performativo; Davide Fabbri e Elisa Gandini propongono interventi legati alla sezione musicale, mentre Davide Ferri e Miral Rivalta sono i curatori del programma di visione e di incontro con l’arte contemporanea. Rispetto a una modalità di lavoro per lo più autonoma per ciascuna sezione, come avvenuto negli anni passati, per questa edizione abbiamo provato a mettere in campo un ritmo di lavoro più serrato che ha permesso un maggiore contatto tra ciascun curatore: man mano che si trovava un assetto o si identificava un artista, lo si raccontava agli altri, condividendone i diversi materiali di lavoro». Risonanze, allusioni, che, tuttavia, non si esplicitano nella ricerca di un filo conduttore forte o schiacciato sui contenuti (per quanto, comunque, la ventunesima edizione del festival si intitoli “Agorà”) ma in una serie di “corrispondenze percettive” che attraversano i diversi momenti della rassegna. Prosegue Serina: «Questo processo ha portato, anche inconsciamente, ad accogliere delle suggestioni che accompagnassero successivamente la scelta di un artista piuttosto che un altro, grazie anche all’attivazione di connessioni tra le diverse proposte artistiche».

A voler individuare delle ricorrenze e dei collegamenti, si potrebbe pensare a una costante riflessione, variamente declinata, sullo spazio (e sugli spazi) come dimensione che contiene, nel senso proprio di delimitare e comprimere, il movimento ma al tempo stesso lo consente, ne esalta alcune delle qualità (quando proprio non imprime la qualità stessa del gesto – sia esso un gesto performativo, figurativo, coreografico, ecc.). Così, se Audiowalk Forlì (Invasioni Creative) esplora i dintorni urbani del festival cercando di mostrarli attraverso il sonoro come spazi di convivenza di una simultaneità temporale fra passato presente futuro, la maggior parte degli spettacoli di danza si confronta con le conseguenze sul corpo di contesti, fisici e simbolici, che circoscrivono l’azione: Pezzi (Paola Bianchi) prende spunto dai racconti degli internati dal regime fascista per costruire una coreografia giocata sulla rigidità muscolare e su decise linee di sviluppo, ambientata tra l’altro in una stanza del vecchio deposito delle corriere che può facilmente ricordare un carcere o un ospedale psichiatrico; La morte e la fanciulla e C’è vita su venere (Abbondanza/Bertoni) agiscono dentro le atmosfere diversamente liminali della prossimità con la morte, che rende la danza immediatamente pregna di gravità e portato figurativo-metaforico, e dell’esplorazione delle norme di genere, affrontate invece con piglio giocoso e surreale; Canto primo (gruppo nanou) nasconde quasi la coreografia sotto una coltre di rumore distorto prodotto dalla chitarra e dalla batteria del gruppo OvO, o per meglio dire la fa “urtare” contro le vibrazioni sonore; il circo contemporaneo di Fora e Passages (Alice Rende), molto esplicitamente, rinchiude il corpo che agisce in scena dentro una teca a forma di parallelepipedo che limita fortemente i movimenti, costringendo la performer a continue contorsioni, ma al tempo stesso libera il gesto dalla sua natura virtuosistica legata al circo, mentre Drop me if you dare (Joli Vyann) ritrova la dialettica fra costrizione ed esplosione in un duetto fra un uomo e una donna che si stringono e si respingono, in cui l’inerzia dinamica dell’uno è sempre e anche una reazione all’iniziativa dell’altro.

(foto di Gianluca Camporesi)

Similmente, anche gli incontri di arte contemporanea (oltre al lavoro della già citata Giovanna Silvia, si sono poi susseguiti Andrea Di Lorenzo, Jacopo Benassi e Patrick Tuttofuoco) rinegoziavano di volta in volta il proprio rapporto con lo spazio circostante: ritratto fotograficamente con un campo medio e poi replicato in un ribaltamento fra dentro e fuori (Silva), tenuemente commentato con leggere stampe su vetro o acetato che quasi “glossavano in levare” gli angoli e le pareti, dal carattere già pronunciato, del vecchio deposito (Di Lorenzo), provocato e sfidato con atti espositivi e performativi “al vetriolo” che lo facevano prolungare ed esplodere, fino a diventare ambientazione per un rito provocatorio e sabbatico (Benassi) o irretito e “domato” per far risaltare meglio l’opera, sbalzata dallo sfondo grazie alla sua natura luminosa e cromaticamente vivace (Tuttofuoco). È appunto la cifra di un’arte che – come afferma ancora Serina – «si contamina dell’elemento performativo; e di fronte a essa, anche il pubblico viene chiamato in causa. Le diverse istanze formali vengono destrutturate, disarticolate al proprio interno: dalla performance di Jacopo Benassi, in cui la batteria viene smembrata e i singoli oggetti perdono la loro connotazione di strumenti in senso proprio, al concerto finale, Sinfonico Spontaneo, in cui al contrario i musicisti hanno destrutturato le modalità classiche di pensare un concerto, attraverso, per esempio, una serie di oggetti che si sono trasformati e sono quindi divenuti strumenti musicali».

Anche episodi quali The History of Cuban Dance (Lucy Walker) e Risonanza nostalgica (a cura di Davide Fabbri ed Elisa Gandini – Città di Ebla) affrontano a modo loro la questione dello spazio, come profondità percettiva (esplorata grazie ai visori di realtà aumentata) e collegamento col contesto geografico il primo e come costruzione di una dimensione di intima convivialità e di propagazione musicale il secondo. Sono tessere di un mosaico che si va a comporre poco a poco ma che, appunto, non intende rivelare un disegno generale né ambisce a creare una verticalità di discorso, se non tramite una sorta di “spontanea gemmazione” che interseca elementi sparuti e disparati all’interno delle singole performance. Piuttosto, forse, c’è la fedeltà a un’idea della scena (e della danza) come istituzione di un campo potenziale in cui lo sguardo è invitato a cogliere connessioni, e pure contraddizioni, impreviste, a dispiegarsi in un contesto in cui l’indecisione pronunciata (degli spazi, degli esiti spettacolari, della pluralità dei linguaggi) diventa non tanto indefinita apertura formale ma, al contrario, stimolo per una maggiore concentrazione, per un costante lavorio ermeneutico che ha più a che fare con la facoltà percettiva che con l’interpretazione concettuale. Ed è chissà anche uno dei segni più “onesti” ed efficaci che le arti dal vivo oggi, in un tempo dalla disgregazione comunitaria e politico e dallo sfaldamento di tanti principi sociali, posso lasciare negli immediati dintorni dell’accadimento teatrale.

Di seguito i contributi che Francesco Brusa e Petra Cosentino Spadoni e che vanno, nel loro insieme, a formare lo Speciale Ipercorpo 2025 di Altre Velocità, per un totale di cinque articoli più uno:

[Ipercorpo 2025] intervista ad Alice Rende – Il duplice lato della contorsione

[Ipercorpo 2025] quarta giornata – Assurdità quotidiane sotto teca

[Ipercorpo 2025] terza giornata – Di fronte agli interrogativi della danza

[Ipercorpo 2025] seconda giornata – Partiture di gesti musica rumore

[Ipercorpo 2025] prima giornata – Dissonanti bagliori di vicinanza

Gli autori

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.