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(foto di Gianluca Camporesi)
(foto di Gianluca Camporesi)

[Ipercorpo 2025] intervista ad Alice Rende – Il duplice lato della contorsione

di Francesco Brusa, Petra Cosentino Spadoni

Racconti e visioni dalla 21esima edizione di Ipercorpo, festival internazionale delle arti dal vivo che si svolge negli spazi di ex-Atr (Forlì)

Con Passages e Fora, due soli in programmazione nelle ultime due giornate di Ipercorpo, l’artista brasiliana e di stanza a Marsiglia Alice Rende costruisce una sorta di drammaturgia della contorsione. Sono due tappe di una ricerca che si muove sulle intersezioni tra teatro e circo contemporaneo, con uno sguardo attento e profondo sulla condizione di marginalità e limitazione evocata dalla lunga teca che sul palco limita e trasforma il movimento della performer. Ne abbiamo parlato con l’artista.

La teca che utilizzi dà una forte connotazione ai tuoi spettacoli. Come sei arrivata alla scelta di questo oggetto e alla forma del parallelepipedo?

Quando ho iniziato a creare il mio primo solo, Passages, volevo creare un solo basato sulla contorsione che non fosse semplicemente un atto di esibizione virtuosistica. Volevo ripensare la contorsione, che ho imparato nel circo: avevo un vocabolario di figure abbastanza spettacolari che non volevo però utilizzare per impressionare le persone, come se fossero superpoteri del corpo, ma come figure che mi servivano per raccontare una situazione estrema.

Perciò sono partita da temi che mi erano artisticamente cari, vale a dire la sensazione di inadeguatezza, di doversi distorcere per riuscire a entrare in un criterio, un insieme di norme, la pressione che spesso proviamo di doverci inquadrare: credo che la contorsione possa rappresentare una metafora di tutto ciò e possa inoltre costituire un linguaggio che aiuta a parlare di questo. D’altra parte, a volte anche per essere amati, ci “contorciamo”, ci inquadriamo in un sistema di norme.

Nelle fasi iniziali pensavo alla contorsione da eseguire a corpo libero, ma poi ho capito che poteva essere utile ragionare sulla questione dello spazio: una persona rinchiusa in una teca, in un parallelepipedo stretto in mancanza di spazio, è portata naturalmente a contorcersi e la contorsione diventa così un gesto necessario a sopravvivere. Questo elimina qualsiasi sostrato di spettacolarità ed esibizionismo – spesso intrinseci all’arte circense.

La forma di Fora presenta dunque intuizioni ed elementi circensi, nelle figure corporee che esegui e nella scelta della teca come attrezzo, ma assume poi una dimensione teatrale nel lavoro di drammaturgia, sull’immagine e sulla metaforizzazione dell’agire in scena. In questa prospettiva, come vedi nel tuo percorso questo dialogo tra arte circense e teatro – quali possono considerarsi le differenze, i limiti, le intersezioni fra i due linguaggi?

Per rispondere provo a raccontare il mio percorso con il circo. Il circo tradizionale mi attirava in quanto forma culturale, ma non in quanto forma artistica legata a una drammaturgia composta da numeri che si imparano a maneggiare e su cui poi ci si esibisce. Nel mio percorso ho dunque studiato storia culturale e mi sono avvicinata alla danza contemporanea, dove però sentivo la mancanza di un lato acrobatico che mi è sempre piaciuto, fin da bambina.

Sono andata così in una scuola di circo per ritrovare questa pratica e per scrivere la mia tesi di laurea di primo livello, mi sono appassionata e ho iniziato a seguire un percorso molto tradizionale a Rio de Janeiro. Durante la formazione ho scoperto il circo francese, che di fatto si configura come base per la nascita del circo contemporaneo, storicamente proposto da persone provenienti da percorsi di psicologia, di teatro, di arti plastiche, che hanno visto nel circo un potenziale – come nel teatro post drammatico contemporaneo, il circo crea delle situazioni molto fisiche – a cui portare elementi tradizionalmente legati al teatro, come il testo.

In questo modo si è andato a creare una sorta di strano parallelismo per cui, da una parte, il circo contemporaneo a volte cerca di essere più drammatico, mentre dall’altra, il teatro contemporaneo cerca di essere più fisico. Dopo questa scoperta sono dunque rimasta in Francia, per lavorare con diverse compagnie e per la grande circolazione e innovazione circense promossa sul territorio, in quanto pratica ormai istituzionalizzata. In Francia si può infatti “fare circo contemporaneo” perché esiste e ha già un posto in festival o in altre situazioni, non è una forma strana, difficile da proporre. Al contrario, in Brasile è una sorta di novità assoluta e là mi sono proposta come un’illusionista in stile Houdinì.

(foto di Gianluca Camporesi)

Noti reazioni differenti a seconda del fatto che l’ambiente in cui ti trovi sia maggiormente legato al teatro o al circo, o magari a seconda del paese in cui ti esibisci?

Di solito alle persone piace lo spettacolo. E ho l’impressione che venga accolto come una proposta interessante anche dal circo contemporaneo. Forse in ambiti specificamente legati al circo ci si potrebbe aspettare più energia o più movimento, ma di solito le persone sono contente che ci sia posto per la teatralità, per il corpo che sta lì senza eseguire dei numeri ma riuscendo comunque a raccontare qualcosa.

Una capacità e un’attitudine non scontate, soprattutto da parte di chi ha una preparazione circense, perché quando si entra in scena si ha il desiderio di mostrare i trucchi e le figure per cui ci si è allenati tanto tempo ed è difficile decidere di non inserire in una performance alcuni movimenti; ed è anche una maschera, un modo per giustificare la propria presenza in scena, più semplice dello stare senza fare niente perché quella staticità ha una logica, ha una ragione di essere e di esprimere qualcosa. Ma la presenza racconta.

Molti movimenti nei miei spettacoli sono esercizi di base da un punto di vista circense, ma poi nel contesto dello spettacolo diventano qualcos’altro. E lo stesso accade nella parte finale di Fora– quando mi chiudo completamente in una scatola – dove viene proposto un numero molto tradizionale, oggi molto difficile da trovare proprio perché si esaurisce istantaneamente e non nel circo non viene più reputato di grande interesse: inserito nello sviluppo della performance, il numero della scatola assume un significato più specifico e connotato e non rimane un semplice esercizio.

Questo equilibrio a volte crea due livelli di percezione dello spettacolo: le persone adulte ne percepiscono immediatamente la cupezza, la tragicità, mentre i bambini mi chiedono come riesco a entrare nella scatola. In questo modo la ricezione può avvenire attraverso la dimensione teatrale tanto quanto attraverso quella circense: ci sono numeri non usuali e una ricerca che non si vede spesso, per cui credo di riuscire a portare delle novità in entrambi i posti, che sono un po’ la forza del teatro nel circo e la forza del circo nel teatro.

La tua ricerca scenica si stratifica anche attraverso in contesti di “vulnerabilità sociale”, come carceri o percorsi psichiatrici. Come entrano queste esperienze nella tua poetica?

In tanti modi. Per prima cosa, credo comunque si tratti di contesti e condizioni di cui è necessario parlare e su cui è necessario riflettere. Il primo spettacolo in cui utilizzo la forma del parallelepipedo, Passages, era pensato come un progetto da presentare in un contesto come quello carcerario, anche se poi questo non si è verificato per la difficoltà tecnica di portare la strumentazione all’interno di una prigione. Sono riuscita a presentarlo presso un’associazione che riceve e aiuta persone in attesa di permesso di soggiorno, quindi in una situazione molto precaria.

Lo spettacolo, insomma, è pensato per essere presentato in contesti complessi, e parla di un’apertura. Le persone rimangono in prossimità e ci sono pochi artifici, non ci sono luci né suoni – al contrario di Fora, che è pensato proprio per il teatro – e consente una lettura interpretativa molto aperta: di base vediamo una figura umane che cerca di andare verso il cielo. Non è molto claustrofobico, e questo lo rende adatto a un pubblico di bambini, che di solito ne raccontano a voce alta il susseguirsi dei movimenti.

Ma questa apertura permette soprattutto alle persone di raccontarsi delle storie; molte volte mi hanno chiesto se lo avessi scritto pensando a una situazione a loro vicina. Questo è proprio quello che mi interessa: dare degli elementi affinché le persone possano proiettarvi una storia personale. Lo spettacolo mostra qualcuno che prova a superare una sfida e aprirsi, e quindi tutte le sfide possono essere proiettate lì. Quello che spesso riempie e cambia il significato della storia è il contesto. Ho presentato il lavoro in un festival per un gruppo di bambini appena arrivati dall’Ucraina e la presenza di questo gruppo ha subito dato una lettura fortemente connotata allo spettacolo. Talvolta, proposto in un museo, si configura anche come uno spettacolo estetico e astratto, che può parlare di memoria e di che cosa rimane del passato.

Per questo si chiama Passages, non tanto come spettacolo ma come progetto, che passa per contesti diversi si riempie di diverse storie. Mentre Fora significa “fuori”, fuori dalla norma, dalla struttura, e si configura come uno spettacolo su una pressione tra interno ed esterno: un desiderio di entrare nel sistema per essere accettati, ma anche una necessità di rimanerne fuori, o di accettare di esserne fuori. Per creare questo secondo lavoro, proseguendo nella ricerca di trasformazione rispetto alla contorsione che nel primo spettacolo mi ha portata a trovare la teca, una ispirazione ulteriore è arrivata dalle fotografie di donne cosiddette isteriche, che sono fotografie di donne in contorsione.

(foto di Gianluca Camporesi)

Le ho trovate interessanti perché oggi l’isteria non è più considerata una malattia, ma storicamente le donne venivano considerate isteriche per qualsiasi ragione e anche per via di sintomi contraddittori: per la presenza di desiderio sessuale così come per la mancanza, perché magre, grasse, perché molto o poco socievoli, magari perché epilettiche. Ne L’invenzione dell’isteria, Didi-Huberman racconta come la crisi isterica fosse stata costruita per trovare un sintomo comune a cui ricollegare tutte le donne non inquadrate nella società dell’epoca. Le fotografie delle pose contorte assunte dalle pazienti si sono contestualmente affermate come “prove” della sintomatologia isterica.

Inoltre ho compito anche delle visite presso un ospedale a Rio de Janeiro che porta avanti un lavoro molto interessante che si inscrive nella corrente dell’antipsichiatria, partecipando alle attività di gruppo guidate da un collettivo di clown. Questo mi ha permesso di osservare persone e gesti e trarre ispirazione dal punto di vista pratico.

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