Racconti e visioni dalla 21esima edizione di Ipercorpo, festival internazionale delle arti dal vivo che si svolge negli spazi di ex-Atr (Forlì)
“Make war, don’t make love”
Inversione, ribaltamento, détournement situazionista oppure un’inquietante linearità col contesto generale, con quella che – non senza un certo grado di altisonanza – può essere definita fase globale? Eppure, viene difficile non collegare, perlomeno a livello di suggestione, le incursioni performative e artistiche di Jacopo Benassi (che, nella programmazione del festival Ipercorpo fanno parte di una più ampia curatela di incontri e dialoghi su figure dell’arte contemporanea) con il flusso continuo di notizie e avvenimenti, la più parte terribili e dirompenti, che caratterizza questi ultimi mesi (e anni). Notizie di guerra, conflitti armati che non vedono la fine se non in esiti genocidiari, tensioni sociali che trovano sfoghi sempre più razzisti e autoritari…
D’altra parte, è il “trittico sovrapposto” di Benassi mostrato nelle sale dell’ex-Atr a suggerirlo col titolo: Io che guardo il mondo che brucia in tv. Il dettaglio quotidiano, visceralmente e insistitamente domestico (nelle immagini l’una incastonata nell’altra vengono ritratte principalmente delle pantofole) di fronte al clamore angosciante del mondo, in una giustapposizione che però non vuole esprimere escapismo (rifugio nel privato) o contrasto (denuncia dell’alienazione) ma, forse, messa in discussione, attraverso una feroce ironia, delle giustapposizione stessa – che è parte integrante e reale della vita di molti (di molti di “noi”, che a diverso titolo partecipano oggi a un festival di arti sceniche contemporanee).
Così, con linguaggi differenti ma stilemi piuttosto simili, anche con la performance che segue al dialogo col pubblico (condotto da Davide Ferri e Miral Rivalta) è come se, grazie a rotture e capovolgimenti di forme e significati, si assistesse a una paradossale riallineamento, a un “esorcismo semantico” che non ha nulla di provocatorio ma anzi, a ben pensarci, può sembrare nient’altro che una descrizione letterale (della situazione in cui ci troviamo). Nell’anfiteatro dismesso dell’arena forlivese, da cui si accede attraverso uno stretto passaggio ricoperto di fogliame, Benassi è steso prono per terra, spalle al pubblico, a fianco di una batteria.
Dietro e a lato di lui, luci, una macchina fotografica, amplificatori e un chitarrista che modula in continuazione le stesse note, timidamente distorte e strascicate. “Maaake war, nooot love”, intona il performer in una nenia giusto un filo grattata, mentre su questa base si affastellano altre frasi e sintagmi, ora urlati con secca decisione (“Dov’è il fiore?”) ora cantati (“This is the end”, a citare i Doors e a stabilire un’allusione diretta con scenari apocalittici). È il “negativo” di un happening di derivazione sessantottesca, con la riformulazione degli slogan pacifisti che però, nemmeno, possono tradursi in incitamento alla lotta politica, e con il portato potenzialmente lisergico della scena che è però attraversato da una luce oscura ma non esasperata e demoniaca, che lo avvicinerebbe altrimenti al sabba.
Piuttosto, appunto, un coerente e quasi spontaneo straniamento che non ha bisogno di reinventare e riformulare in toto lessico e modalità dei suoi oggetti parodistici per risultare vivido e perturbante, sinistramente aderente a una realtà percettiva che non è difficile riconoscere come tangibile ripercorrendo le proprie giornate. Nella progressione della performance, Benassi piano piano si anima e si agita, si spoglia dei vestiti fino a rimanere completamente nudo, sferra colpi di piatti e tamburo alla batteria che risuonano, o come rimbalzano, contro il tappeto elettrico ordito dalla chitarra. Poi, gradualmente, smembra lo strumento nei suoi pezzi e li distribuisce al pubblico che viene invitato a servirsene, colpendoli mentre sono le stesse sonorità a smembrarsi e a lacerarsi in un acuto e disordinato lamento.
Ma, soprattutto, qua e là inizia a scattare foto a distanza riavvicinata dagli spettatori, quasi accecandoli col bagliore del flash. È uno degli elementi più caratteristici della poetica dell’artista: la tensione a inserire in molte opere un principio, uno spunto sbilenco, di autoritratto, che però nella maggior parte delle volte avviene in assenza del soggetto, presente solo con dettagli secondari (le pantofole del trittico). Qui, è come se fotografando il pubblico lo costringesse di fatto a guardare chi lo fotografa, ma il riflesso degli sguardi è violentemente interrotto dalla luce troppo forte perché si possa tenere gli occhi aperti. Tuttavia: ci viene da serrare meccanicamente le palpebre per questo espediente formale o perché, nel disvelamento che la performance porta con sé, è il reale di tutti i giorni, finalmente colto nella sua meccanica ferocia e assurdità, che ci risulta insostenibile? “Maaake war, nooot love”: satira, provocazione, critica, motto di denuncia… forse, la semplice necessità di ribaltare il finto buonismo del senso comune in un tempo in cui tutti i significati – e, soprattutto, i linguaggi con cui veicolarli – sono già comunemente saltati.

Fra anelito di libertà e protezione
In disparte su un lato della scena, una luce soffusa illumina un parallelepipedo di plexiglass, le cui pareti sono ermeticamente tenute insieme da una struttura di aste e bulloni di ferro che ne contornano le angolature: come stretta in una teca, una figura esile si muove accovacciata in un perimetro claustrofobico, cercando una astratta via di fuga nel lieve bagliore dorato proveniente dall’esterno. Le ombre giocano con le mani distanti e diventano compagne magiche attraverso cui poter creare spazi di immaginazione, trasformandosi ora in sopracciglia corrucciate, ora in lacrime che rigano il volto, ora in un binocolo da cui poter sognare lontano.
Alice Rende attraversa una ricerca di libertà e respiro che prende le forme di una lotta contro la forza di gravità che la trattiene ancorata alla base del suo spazio di reclusione come attratta da una calamita. Lo spazio angusto assume i connotati di un acquario che soffoca aria e parole, evocato anche dal tintinnio musicale che segue ritmicamente l’andamento alterno di ira e rassegnazione nel dimenarsi della performer verso una via di fuga apparentemente irraggiungibile.
Fora esplora una condizione di limitazione fisica che diventa immersione nel profondo degli abissi interiori. Il chiarore stesso viene proiettato lungo una linea verticale che dalla base illumina la figura centrale così moltiplicata nell’opacità delle pareti circondate dal buio, mentre si osserva, si dimena, si colpisce sul confine trasparente e sottile che la ingabbia. Il ripiegamento dello sguardo recluso diventa ripiegamento del corpo, che si contorce e si aggroviglia su se stesso, quasi a sfidare la mancanza di uno spazio di movimento. La pelle prova a sfidare i levigati confini che lo circoscrivono, si aggrappa e scivola rumorosamente sfregandovi mani, piedi, schiena. Le linee si snodano tra curve e spigoli mentre il corpo cerca nuove strategie per occupare e ingannare lo spazio che lo costringe. Il volto perde ogni aura immaginifica e si deforma spiaccicato alla finestra-gabbia.
La lotta tra gli arti e gli angoli delle pareti si conclude in una liberazione verticale, oltre il soffitto, così che lo sguardo, le mani, le ombre possano ora finalmente incontrare un fascio di luce con cui interagire senza filtri, mentre le linee si aprono e in equilibrio abbracciano lo spazio aperto.
Nel buio della scena il gesto assume un andamento quasi ostile alla percezione di uno spazio illimitato, e mantiene il dialogo con la propria area di restrizione attraverso la scia di un bagliore che ne attraversa i confini trasparenti. Infine un cubo trasparente – di fatto un baule, una piccola scatola – emerge dal buio, abitato dal caldo scintillio di una lanterna, che la figura torna ad abbracciare, contorcendosi fino ad occupare ogni millimetro di uno spazio ridotto al limite, come una seconda pelle, un guscio in cui, in fondo, forse proteggersi.

Gli autori
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.


