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(foto di Petra Cosentino)
(foto di Petra Cosentino)

[Ipercorpo 2025] prima giornata – Dissonanti bagliori di vicinanza

di Francesco Brusa, Petra Cosentino Spadoni

Racconti e visioni dalla 21esima edizione di Ipercorpo, festival internazionale delle arti dal vivo che si svolge negli spazi di ex-Atr (Forlì)

Lucciole wireless

Compie cinquant’anni quest’anno il famoso articolo di Pier Paolo Pasolini sulla scomparsa delle lucciole, citato e stracitato, simbolo e metafora a turno di un’Italia che non esiste più, delle contraddizioni del progresso e del consumismo, della radicalità, vera o auspicata, di un pensiero ecologico che vuole essere anche disvelamento dell’(eterno?) ritorno del fascismo sotto diverse spoglie. Viene da pensarci mentre, durante una delle prime performance della ventunesima edizione del festival Ipercorpo – Audiowalk Forlì (focus Exatr) a cura di Invasioni Creative –, un gruppuscolo di spettatori si ritrova in piedi nel buio del vecchio piazzale delle corriere cittadino. Gli unici scarni bagliori che arrivano alla vista sono quelli dell’illuminazione elettrica che filtra dalle finestre. Uno schermo cinematografico manda in loop immagini di danza, ora più brillanti ora avvolte da una parziale oscurità, flebili rumori del traffico e sparuti schiamazzi scavalcano qua e là il muro che cinge il cortile.

A emettere un timido biancore però sono anche le cuffie auricolari indossate dal pubblico, per partecipare allo spettacolo e ascoltare la traccia sonora che lo guiderà nella camminata. Se lucciole e insetti notturni sono in effetti in costante diminuzione, per via (fra le altre cose) della crescente antropizzazione degli ecosistemi, con Audiowalk Forlì le persone, raccolte a nugolo, sembrano farsi esse stesse lucciole, nel tentativo di recuperare (paradossalmente, perché attraverso mezzi tecnologici di “realtà aumentata”) quella prossimità col paesaggio e con l’ambiente circostante di cui Pasolini lamentava la scomparsa. La performance è appunto un piccolo “viaggio” che si snoda fra gli spazi dell’ex-deposito dei Trasporti Romagnoli (sede storica del festival Ipercorpo) e il vicino quartiere sorto nei luoghi della vecchia fabbrica tessile Mangelli. Ci si incammina lenti, sostando spesso in vicinanza degli scorci più significativi e lasciandosi condurre, oltre che dai discorsi in cuffia, dal proprio istinto percettivo. Il piazzale, “abitato” solo da strutture temporanee, introduce al contesto generale; l’ex-Atr, coi suoi antri dismessi e l’estetica “d’altri tempi”, pare una sorta di museo con memorabilia da ammirare e approcciare con cautela; i vialoni squadrati della Mangelli, con la loro architettura “metafisica” che risalta nel deserto di un mercoledì sera, inducono alla circospezione e allo spaesamento; infine, il transito in mezzo ad alcune aree verdi che invece pullulano di passanti e giochi di bambini, crea una condizione intermedia fra l’immersione nell’ascolto e interazione col reale.

(foto di Gianluca Camporesi)

Invasioni Creative ha costruito la traccia sonora dello spettacolo in collaborazione con l’associazione Spazi Indecisi, che si occupa di rigenerazione urbana e culturale degli spazi abbandonati (e che presente anche una propria mostra all’interno del festival), e con studenti della scuola secondaria di primo grado “Caterina Sforza” di Forlì. Le voci raccolte e utilizzate per intrecciare il percorso sono di diversa natura: ricordi e testimonianze personali si alternano a discorsi più strutturati, di carattere storico e di commento architettonico-urbanistico. L’immagine della città, con una sorta di “elenco a cascata”, viene messa in un contesto di lunga durata storica: dai fasti rinascimentali ai tempi della signoria dell’appena citata Caterina Sforza al risorgimento che diede i natali ad Aurelio Saffi, fino all’importanza acquisita sotto il fascismo e ai tragici accadimenti della Seconda Guerra Mondiale. Forlì, si dice, nel corso di varie vicende ha avuto una centralità che “spesso eccedeva le sue dimensioni fisiche”. In un certo senso, la logica drammaturgica di Audiowalk Forlì è tesa a dare concretezza a una tale affermazione: le voci e il sonoro aumentano la profondità del paesaggio, lo caricano di sfaccettature, più che descriverlo o raccontarlo con dovizia di informazioni, cercano di, appunto, eccederne il carattere singolare ricreando nel presente la simultaneità di ricordi passati (memorie di lavoratori dell’Atr oppure di dipendenti della Mangelli che parteciparono allo sciopero del 1949, in cui venne ferita Jolanda Bertaccini, e successivi…) e di intuizioni future (appunti sulla mutata composizione dei quartieri, ipotesi su come sta cambiando e come potrebbe cambiare la socialità, playlist di canzoni “vecchie e nuove” a immagine e somiglianza della città…).

Ma il vero protagonista dello spettacolo è, forse, la pluralità di soggetti che hanno fornito il proprio contributo ricostruendo storie, sensazioni e contesto, soprattutto evocando la propria, irriducibile, individualità attraverso timbri e cadenze. Voci squillanti oppure più ruvide, tentennanti nelle frasi al limite del bofonchio o perfettamente scandite, screziate dalla fatica degli anni oppure in bilico su un’instabilità acerba. Il contrasto che si crea è infatti fra l’inamovibile e a tratti perturbante fissità del panorama, nella sua natura prettamente artificiale e industriale o para-industriale (il deposito, l’ex-fabbrica, e strutture temporanee in metallo che popolano il festival), e la calma vitalità dei suoni in cuffia, che lo spettatore è portato a “scrutare” nel dettaglio, a visualizzare, forse, nella loro corporeità assente, o comunque ad aggrapparvicisi per far fronte all’inevitabile mutismo inerte degli ambienti e dei palazzi. Si forma così un abbozzo di ritratto dissonante della città – ben esemplificato dal momento che chiude la passeggiata: Romagna mia cantata dagli studenti della “Caterina Sforza”, la più classica e prevedibile delle scelte musicali, ma disarticolata nelle evidenti stonature –, un viaggio in andirivieni nello spazio e nel tempo, sì collettivo ma non necessariamente corale. D’altronde, la “nostalgia delle lucciole” non è tanto l’anelito verso l’oggetto in sé, o la denuncia di catastrofi ecologiche, ma metafora della scomparsa di un tessuto di senso che agisca nei luoghi, e fra i luoghi e i loro abitanti (o fugaci spettatori). Allora, anche il baluginio hi-tech di cuffie wireless nel buio può valere da recupero di segnali, di sintomi, di uno spunto percettivo.

Movimento e costrizione

Lo spazio dell’ex-Atr, ricordato con accenti spesso dolci e trasognati in Audiowalk Forlì, assume un registro drasticamente diverso nel momento in cui viene attraversato da Pezzi, progetto coreografico diretto da Paola Bianchi, che osserva i pieni e i vuoti del vecchio deposito di corriere a partire dai racconti di dissidenti internati per mano di guardie fasciste in seguito a uno sciopero nel marzo del 1944. Il lavoro stratifica il precedente solo della coreografa e danzatrice, KZ, moltiplicandone i silenzi e ampliandone gli spazi. I movimenti di quattro danzatrici (Valentina Bravetti, Barbara Carulli, Sara Cavalieri, Valentina Foschi) si inseriscono sulla scrittura sonora di Stefano Murgia, che indaga quella sospensione del pensiero tra le parole che assume la forma di uno scricchiolio sul nastro magnetico di vecchie audiocassette, amplificata e distorta fino a diventare rumore assordante, urlo.

Raccolti sulla soglia della vasta area del capannone, ascoltiamo in penombra le voci delle registrazioni, finché le testimonianze non si interrompono e rimane il buio. Una luce distante chiama il pubblico a raggiungere la vetrata frontale di una vecchia rimessa interna allo spazio del deposito, soglia che avvicina e separa interno ed esterno, osservato e osservatore. Dal confine trasparente si intravedono mani, scarpe, si incontrano sguardi, cupi o assenti, in un grigio che pare assorbire ogni sfumatura di colore; la possibilità di camminare lungo il perimetro della parete permette di cambiare prospettiva, e quindi scegliere autonomamente la qualità del proprio atto di guardare, generando al tempo stesso un senso di disagio e paradossale impossibilità di contatto. Il gesto si contrae, lento e rigido; gli arti sembrano agire indipendenti rispetto ai corpi che li muovono. La dimensione di costrizione che abita la scena si riflette nelle indicazioni eterodirette fornite alle danzatrici in tempo reale attraverso auricolari. Da pezzi sembrano comporsi a tutti gli effetti le figure che al di là del vetro cercano o rifiutano gli occhi esterni, percorrono il perimetro della stanza, sulle pareti o sul pavimento, ora in torsione ora in stasi; ora le mani a uncino spalancano le bocche in un urlo decelerato e privo di voce.

(foto di Gianluca Camporesi)

Il lavoro si struttura in brevi sequenze (Pezzi #3, #4, #5, #6, #7) scandite da momenti di buio e improvviso silenzio che permettono rapidi spostamenti di angolazione e relazione con il dilatarsi o il restringersi del campo d’azione. Nel fuoriuscire dalle pareti anguste della reclusione, infatti, il movimento pare distendersi, e gradualmente svincolarsi e farsi più ampio, fino a rischiare un senso di dispersione sull’ampia area centrale del deposito, per ricongiungersi internato in una contrazione corale in cui la dimensione umana diventa sfocata, trasformando e deformando le quattro figure.

Le voci delle registrazioni iniziali permettono di tracciare delle coordinate che guidino il pubblico a partire da strutture di violenza purtroppo fortemente connotate nella memoria storica. La scrittura scenica non esplicita immagini brutali o crudeli, o contestualizzazioni specifiche, focalizzandosi piuttosto sul senso della limitazione coercitiva, nel punto in cui il corpo sembra diventare involucro e la persona deumanizzarsi. Il “dispositivo” di osservazione permette di creare un senso di disagio dello sguardo, chiamato a partecipare impotente attraverso uno schermo che consente una prospettiva al tempo stesso di distanza e vicinanza; una “cornice” in cui le immagini di ieri possano riecheggiare nelle immagini di oggi, solo apparentemente lontane dalle forme riconoscibili e già riconosciute nell’immaginario collettivo.

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