Racconti e visioni dalla 21esima edizione di Ipercorpo, festival internazionale delle arti dal vivo che si svolge negli spazi di ex-Atr (Forlì)
Un’incessante grazia mimetica
Se le tre grazie di Canova potessero scendere dal loro piedistallo, o se le figure che abitano il prato e il cielo della danza dipinta da Matisse potessero uscire dalla tela che le congela idealmente eterne, non potrebbero sfuggire allo sguardo minaccioso della morte che incombe inevitabile sul flusso vitale. La coreografia diretta da Abbondanza/Bertoni disegna una “danza della morte” che sulla scena prende la forma letterale della partitura del quartetto in re minore di Schubert, La Morte e la Fanciulla, animando le sagome indefinite di tre danzatrici dai lunghi capelli che ne nascondono i volti (Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas, Ludovica Messina Poerio). Il brano musicale, diviso in quattro movimenti, riprende a sua volta il Lied omonimo di Matthias Claudius, trasponendo in musica la resistenza di una fanciulla di fronte alla morte che le si avvicina. Il fondale registra in video le presenze sulla scena, trasformate in immagini eterne, accompagnate da fasci luminosi che le proiettano su uno schermo come su una dimensione ultraterrena, o virtuale.
Il lavoro prende forma a partire da una intenzione mimetica di aderenza quasi totale con l’andamento della partitura, spogliando le figure di abiti e di connotazioni così come di una qualsiasi spinta vitale che non sia mossa dalla composizione sonora, che sembra “danzare” i corpi nella penombra della scena. Le sagome delle fanciulle si muovono fredde, spogliate e spoglie; i lunghi capelli ne sottolineano la caratterizzazione uniforme, quasi si trattasse di tre proiezioni sì isolate ma indistinte: come isolata e indistinta pare essere la generica condizione umana di fronte all’ineluttabilità dell’incontro con la morte.
Dammi la tua mano, bella creatura delicata.
Sulla scena, comunque, una danza leggera e gioiosa restituisce il senso del vitale tentativo di sfuggire alla morte, attraverso un’interazione sinuosa tra le figure che improvvisamente si alterna a movimenti in cui i corpi, appesantiti e contorti, si allontano e si irrigidiscono lungo linee sgraziate da un dimenarsi che assume quasi tratti grotteschi. La grazia svanisce di fronte all’abbandono. Le tre figure, tre comuni esistenze femminili, si illuminano nel buio da fasci di luce che sembrano chiamarle a una dimensione altra. Il gesto risponde con precisione alle note musicali, come a tracciare sulla scena un disegno coreografico della partitura che trascina e di fatto informa la corporeità delle danzatrici.
Sono un’amica, non vengo per punirti.
Se la morte prende la vita con sé, questa non può fare altro che abbandonarsi, in un solo di macabra liberazione dalla resistenza davanti alla fine che incombe. Non più grazia, non più fanciulla, l’afflato esistenziale si svuota di respiro e scatta, salta, vibra nel buio, che attraversa guidato e accompagnato dall’andamento musicale, fino a sparire. Il trio iniziale viene segnato da un vuoto, mentre il flusso della danza prosegue infine etereo e immutabile nel riflesso della videoproiezione, dove i movimenti delle figure seguono come ombre ciò che accade sulla scena, ma dentro una dimensione quantitativamente sfasata. In questo modo fra schermo e palco – in un contrasto visivo che è però il riflesso di un possibile ribaltamento, chissà di una salvezza – continua incessante il movimento della vita, pur mutilata, inevitabile quanto la propria fine.

Industrial inferno
La nebbia, che verso la fine di La morte e la fanciulla avvolge palco e performer ed è di natura prettamente visiva e fisica, in Canto primo di gruppo nanou assume invece una caratterizzazione sonora, un impasto rumoroso. Ad accogliere lo spettatore negli spazi dell’ex-deposito di corriere ci sono infatti gli OvO, duo musicale composto da Stefania Pedretti (voce e chitarra) e Bruno Dorella (batteria) che da sempre si pone all’incrocio di diversi generi fra heavy metal, noise e punk con venature industrial. Si trovano in prima fila di fronte al pubblico, ai due lati della pedana di legno posta al centro dell’ampio spazio ex-Atr come fossero, in un certo senso, “guardiani della scena” che si sviluppa in penombra alle loro spalle. Infatti lì sostano per tutta la durata della performance, con posa solida e vigorosa, illuminati da una luce calda che fa risaltare curve e spigoli.
Ma, appunto, con strumenti e amplificatori muovono l’aria tutt’attorno. Il graffio costante della chitarra si espande in modo quasi granulare, mentre la voce di Pedretti, anch’essa distorta e grattata, vi si aggiunge come un rombo, come il lavorio industrial-infernale che viene spontaneo associare ai macchinari e agli antri dismessi che abitano lo spazio dello spettacolo. I colpi di bacchetta di Dorella, più nerbati che scanditi, impregnano il ritmo di energia tellurica, quasi a voler “scaricare a terra” la caligine sonora prodotta dai colpi di plettro e dai riff impastati di elettricità. Sullo sfondo, un lungo telo rosso che ha una parte poggiata al suolo e un’altra a salire in verticale. È qui che, durante l’esibizione musicale, appare e scompare la danzatrice Rhuena Braucci, il corpo interamente coperto col viso e il capo avvolti in una maschera integrale di tulle (telo e vestito sono gli stessi che ritrovavamo in un precedente lavoro di gruppo nanou, Conversazione per Arsura, da cui infatti prende le mosse anche Canto primo).
Lo fa articolando i gesti in maniera estremamente sinuosa, ma non suadente, precisa e algoritmica, ma non virtuosistica o meccanica. La coreografia, complice anche il vestito che occulta praticamente ogni dettaglio della figura umana, sembra voler prescindere dal corpo, o comunque sembra volerlo trascendere per esprimere una sorta di “funzione dinamica” pura, autonoma, che viva di energia propria. E infatti, i movimenti di Rhuena Braucci si sviluppano in maniera indipendente della colonna sonora, è come se penetrassero dentro quest’ultima senza seguirla o senza assecondarne l’andamento. I momenti di danza durante Canto primo sono, in effetti, incursioni, intarsi, improvvisi lampi immaginifici che intravvediamo scorrere dietro al gruppo musicale. O, per meglio dire, sono un diverso livello scenico, una lastra semi-riflettente e semi-distorcente frapposta fra gli ambienti della ex-fabbrica e i musicisti, che “traduce”, nella maniera meno letterale possibile (e anzi, per certi versi, con accenti antifrastici), il rumore in moto, le vibrazioni sonore in guizzanti curve cinetiche.
In modo in un certo senso analogo al precedente spettacolo di Abbondanza/Bertoni, anche qui si evoca la morte, con i testi di OvO che tratteggiano atmosfere di mistica apocalissi e catabasi emotive. Similmente, sembra come aggirarsi la ricerca di una provocatoria e crudele seduzione che, se nella rielaborazione dell’opera di Schubert assume toni lirici e classicheggianti, in Canto primo ha invece l’aspetto torvo di un cancello spalancato sull’abisso, al di là del quale però vediamo e non vediamo, fermi su una soglia di elettrica foschia, e di accenni coreografici che perturbano le tinte ferro e fuoco dell’orizzonte.

Gli autori
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.
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