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(foto di Gianluca Camporesi)
(foto di Gianluca Camporesi)

[Ipercorpo 2025] terza giornata – Di fronte agli interrogativi della danza

di Francesco Brusa, Petra Cosentino Spadoni

Racconti e visioni dalla 21esima edizione di Ipercorpo, festival internazionale delle arti dal vivo che si svolge negli spazi di ex-Atr (Forlì)

Immaginari terrestri

«All’epoca la NASA aveva mandato su Marte un rover per cercare tracce di vita passata su Marte. E allora io sarei diventata un rover, come artista, che viene mandato su Venere per cercare tracce di vita su Venere, e da lì sono partita.»

(Antonella Bertoni)

Una poltrona al centro della scena in penombra sembra schiacciare un corpo di cui il pubblico intravede le gambe lucide da manichino. Una creatura longilinea dal volto di gallina danza trasognante e soave, in contrasto con lo sguardo esterrefatto e distante tendenzialmente associato all’animale in questione. Una volta accomodata sulla seduta e indossate le eccentriche scarpe fucsia dai tacchi a spillo, estratte lentamente dalla base del mobile, un momento di serena distensione precede la attesa ricerca su Venere. Un uovo cade dal cielo. Durante la cova, lo sfondo sonoro elettronico scandisce i ritrovamenti: un’asse da stiro, un rossetto, un libro, uno spolverino, una scopa, riemergono come piccoli oggetti smarriti e dimenticati tra le fessure di poltrone e divani; tutto è rigorosamente rosa, dal vestito, alle scarpe, alle pillole, al giornale. Le azioni dello stirare, della lettura, della scrittura, delineano un atteggiamento leggero, spensierato, generando uno sfalsamento percettivo in relazione al peso del ritmo musicale.

C’è vita su Venere è una danza divertita e sfacciata che osserva e gioca con reperti di archeologia quotidiana, si arresta infine di fronte a una liberazione stanca. La maschera può cadere e un intermezzo di silenzio accompagna il soffio di un ventaglio a scoprire il volto di Antonella Bertoni, sotto un velo bianco che la protegge dall’immediato sguardo del pubblico. Quegli arti inizialmente schiacciati dalla ricostruzione di uno specifico immaginario del femminile si trasformano in protesi sulle braccia della figura momentaneamente interprete di sé. Una creatura eretta su quattro gambe umane si muove imperturbata sullo spazio di rovine che la circonda, sconosciute o indifferenti.

Gli oggetti che esplodono sulla scena durante la performance creano un’atmosfera fortemente connotata, con rimandi simbolici spesso anche molto lineari ed evidenti. Allo stesso modo le maschere, nel loro progressivo velarsi e disvelarsi (da gallina a pezzo di stoffa bianca e infine volto scoperto), si configurano come qualcosa di strettamente legato, seppur in modalità differenti, all’universo umano e alle sue espressioni sociali e di genere. È a questo proposito che forse vale la pena domandarsi cosa farsene di un certo immaginario e di tutti i suoi rimandi, che storicamente ha costruito l’identità femminile attraverso uno sguardo a essa esterno, ma che nel trasognato campo di possibilità di un allunaggio coreografico possono essere abbandonati e osservati come rovine, oppure interrogati e risignificati al limite della rivendicazione.

(foto di Gianluca Camporesi)

Antonella Bertoni, confronto con la tradizione e necessità della ricerca

Ne La morte e la fanciulla di Abbondanza/Bertoni è davvero la musica, il vibrante quartetto in re minore di Schubert, a “danzare i corpi”, a dettare l’ordito coreografico intessuto sul palco da Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas e Ludovica Messina Poerio. Completamente nude, il volto coperto dai lunghi capelli, le tre performer abitano con grazia e intensità emotiva quella dimensione oscura di prossimità con l’ineluttabile esaurimento del proprio soffio vitale. A guidarle la coreografa della compagnia Antonella Bertoni, che abbiamo intervistato.

Con La morte e la fanciulla ingaggiate un confronto molto rigoroso e serrato con un’opera, diciamo, “classica” o comunque non-contemporanea. Come nasce il progetto e come avete sviluppato il vostro approccio verso la musica di Schubert e il testo del lead?

Lo spettacolo è parte del progetto “Poiesis”, un trittico di lavori di cui La morte e la fanciulla rappresenta il primo “atto”. Più o meno nel 2016 è nato il desiderio, per dirla in maniera ironica, di mettere in scena il nostro primo balletto, perché appunto la composizione coreografica è costruita a stretto contatto con l’andamento musicale. Il balletto infatti è quella forma d’arte in cui il corpo è dipendente della partitura sonora, non è contemplata l’autonomia delle danza che viene invece perorata con forza nel contemporaneo. Così, abbiamo deciso di attenerci a questo principio.

Il quartetto in re minore di Schubert era un disco presente nel cassetto dei sogni mio e di Michele (Abbondanza, ndr)già dagli anni ‘80, quando ci eravamo conosciuti a Parigi, ed era un pezzo per noi talmente bello da risultare quasi sacro: perciò si ha paura a toccarlo e a modificarlo, sarebbe una sorta di scandalo. Quindi in sala prove, che è la parte di lavoro che ho seguito io principalmente, l’elaborazione della composizione coreografica è stata orientata per fare in modo che le danzatrici fossero un “trillo musicale”, diventassero cioè la manifestazione visiva della partitura.

A ciò si aggiunge la questione del testo: come compagnia Abbondanza/Bertoni non siamo interessati a una danza declinata solo in senso estetico o virtuosistico, che anzi consideriamo due “malattie” del lavoro coreografico, ma ci deve essere sempre un filo che attraversa gli spettacoli e che lega il tutto. Non per forza un filo narrativo, ma comunque un “cuore drammaturgico”, anche astratto, che stabilisca il piano poetico su cui operare. Perciò, mettere in scena La morte e la fanciulla significa per noi anche aderire a un titolo molto importante e fare i conti con l’altrettanto significativo breve testo del lied.

Occorre stabilire un rapporto con le forme della “tradizione”…

Certo, è inevitabile un lavoro su vari livelli, dalla musica fino alla forma balletto di cui ho parlato prima. Noi spesso diciamo ironicamente che proveniamo dal Novecento, nel senso che comunque ci siamo formati e abbiamo mosso i nostri primi e secondi passi nel secolo scorso. Quindi, in un certo senso, non siamo pienamente “contemporanei”. Ma in realtà, dal nostro punto di vista, essere contemporanei significa vivere e creare nel presente, anche se magari si è portatori di una poetica o di un approccio che viene da più lontano.

Io sono figlia di un certo tipo di tradizione, e anche di un certo tipo di teatro, ma il mio essere contemporanea sta nel cercare di stare nel mondo di adesso, di capirlo e reinterpretarlo a partire dalle basi su cui mi sono formata. Quello che noto, però, è una generale contrazione dei tempi che è possibile dedicare alla ricerca. La nostra generazione era sicuramente abituata a una temporalità più dilatata e alla possibilità di stare in sala prove per cercare e ricercare molto più a lungo. E penso che sia fondamentale, soprattutto se lavori col corpo: ci si può preparare mentalmente, ma è poi nella pratica e nel tentativo che la ricerca accade veramente.

Come si è svolto dunque il processo di costruzione dello spettacolo, nello specifico del lavoro con le danzatrici in scena?

Il rapporto con i nostri interpreti è un rapporto di grande simbiosi. Quando affrontiamo un nuovo progetto, magari con del materiale già elaborato da noi che esula inizialmente dall’apporto di danzatori e danzatrici, poi non possiamo comunque prescindere da quanto accade in sala prove, è fondamentale avere a che fare con il materiale umano, che sono appunto gli interpreti.

In questo senso c’è davvero un forte rispetto da ambo le parti: loro si fidano molto di noi, si lasciano trascinare ovunque, anche magari in una condizione di totale nudità come ne La morte e la fanciulla, che non sempre è semplice per tutti. Quindi un rapporto fra professionisti che sanno di avere ruoli diversi, noi fuori nella direzione e loro dentro nell’interpretazione, ma tutti coscienti che quello che stiamo maneggiando rimane qualcosa di più grande. Perché l’opera d’arte è sempre qualcosa di più importante di noi e delle nostre piccole vite.

Il tempo che si passa insieme al lavoro, che è sempre un tempo bello e prezioso e che genera ricordi, è allora un tempo in cui la missione e la vocazione coincide con l’opera che si sta creando. Tutto è in funzione di quello.

(foto di Gianluca Camporesi)

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