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"Mulinobianco" di Babilonia Teatri al festival FU ME di Cesena (foto di Chiara Pavolucci)

Il teatro nella crisi climatica: pratiche, estetiche e spettacoli ecologisti

di Alex Giuzio

Siamo giunti all’apice di una catastrofe ambientale in corso da decenni. Dopo la pandemia del covid-19 che è stata una conseguenza diretta dell’antropizzazione del pianeta, il 2023 è stato caratterizzato anche in Italia da alluvioni, caldo estremo, incendi, siccità e downburst, ripetuti e violenti schiaffi che la natura ci ha dato in risposta alle alterazioni del clima provocate dall’uomo. In questo scenario di disastri sempre più gravi e frequenti – che continuerà a peggiorare nei prossimi anni, anche se dovessimo immediatamente interrompere ogni emissione inquinante nell’atmosfera, e che colpirà soprattutto gli individui più deboli, poveri ed emarginati – la crisi climatica non è una delle urgenze, bensì l’urgenza di cui occuparsi, poiché riguarda il futuro di tutti gli esseri viventi del pianeta. Una questione che tocca anche le arti sceniche, oggi più che mai chiamate a immaginare e costruire il mondo del dopo. Ciò significa iniziare a praticare e diffondere un pensiero ecologista che, citando Timothy Morton, «è un virus che infetta tutte le altre aree di pensiero» e «un processo del divenire pienamente consapevoli di come gli esseri umani siano connessi con altri esseri, animali, vegetali o minerali» (The Ecological Thought, 2010), aiutandoci ad avviare il cammino verso un futuro in cui “progresso” e “sviluppo” non significhino più inquinare l’atmosfera e uccidere altre specie, bensì vivere in armonia col resto del pianeta. Si tratta di qualcosa di concreto che però dobbiamo innanzitutto immaginare, e l’arte può aiutarci a farlo. Il teatro italiano contemporaneo ha iniziato a praticare questo esercizio in vari modi, che ripercorriamo attraverso alcune visioni e discussioni avvenute in questa torrida estate.

Darsi dei limiti

Per contrastare il riscaldamento globale ognuno deve fare la sua parte, si dice, e anche nell’ambito del teatro si è iniziato a discutere di pratiche per ridurre l’impatto ambientale (lo propongono per esempio le linee guida di Trovafestival). Un’attenzione diffusa soprattutto tra i festival estivi, come il Bonsai di Ferrara che ha organizzato un seminario sull’ecosostenibilità degli eventi culturali, o quello di Santarcangelo dove si è tenuto un talk dal titolo “Tra crisi climatica e pratiche artistiche”. Non solo un tema di cui parlare, ma anche da mettere in pratica: entrambi gli eventi hanno fatto scelte come l’ospitare solo spettacoli con scenografie piccole e poco costose o il riciclo del merchandising delle edizioni precedenti, affinché la sostenibilità non sia solo un concetto con cui riempirsi la bocca. Tuttavia, per parlare di vera riduzione dell’impatto ambientale, questi piccoli e isolati casi non bastano. La crisi climatica sta chiamando l’umanità intera a uno sforzo collettivo, enorme e concreto, che deve partire innanzitutto dai principali responsabili della catastrofe in corso (le grandi fabbriche, gli estrattori di idrocarburi, i mezzi di trasporto alimentati con fonti fossili) e che in seconda battuta, arrivando a guardare anche al settore culturale, deve comunque riguardare prima i grandi eventi come i Jova Beach Party che gli spettacoli teatrali, i quali hanno un impatto infinitamente minimo sull’ambiente.

Ciò non toglie che anche in questo ambito sia giusto sollevare questioni etiche su temi come l’utilizzo dei voli aerei per ospitare una singola replica di un artista internazionale o le mastodontiche e costose scenografie che hanno una o due stagioni di vita. Dal momento che la crisi climatica comporterà presto dei cambiamenti radicali nelle nostre vite, impedendoci per esempio di fare viaggi a lunga distanza o di acquistare merci ritenute di non prima necessità (a questo proposito il lockdown del 2020 potrebbe avere rappresentato solo un assaggio di ciò che ci aspetta), è vitale che ogni artista, operatore, festival ed ente teatrale avvii una riflessione sull’opportunità del ritorno a una dimensione scenica più piccola, essenziale, intima, primitiva e di prossimità, in questi tempi di crisi ecologica che ci impongono anche di evitare gli sperperi delle grandi produzioni e distribuire meglio le risorse. Le borracce in alluminio, il cibo biologico e i taccuini riciclati – nonostante siano dei principi giusti e ormai parti integranti dei festival teatrali – non possono essere sufficienti per sentirsi a posto con la propria coscienza; anzi rischiano di essere armi di distrazione di massa perfettamente inscritte nella logica del consumismo capitalista che è parte del problema (la stessa logica che sostituisce i bicchieri di plastica con quelli biodegradabili, i quali richiedono comunque di essere prodotti inquinando, anziché mettere in discussione il concetto stesso di “usa e getta”, dal momento che un bicchiere di vetro non genererebbe gli stessi profitti). Invece, autoimporsi dei limiti di budget e di materiali per le scenografie può diventare una questione collettiva di cui dibattere, affinché non riguardi più solo gli artisti più giovani o meno finanziati (e non per scelta ecologica). Portando all’estremo questo ragionamento, si potrebbe arrivare ad affermare che allora anche i musicisti devono iniziare a fare concerti senza amplificazione, il cinema smettere di allestire set posticci e il teatro fare solo racconti intorno al fuoco: ma proprio a circoscrivere dei ragionevoli punti in comune serve la riflessione collettiva su quanti e quali limiti di sostenibilità darsi nelle arti – tenendo presente che, come in passato quando non esistevano gli stessi strumenti tecnici e tecnologici oggi a disposizione, il talento dell’artista non aveva bisogno di molto altro per riempire lo spazio e la storia.

Diffondere pensieri

In ogni caso, lo ribadiamo, l’impatto ambientale della cultura resta molto ridotto e per questo, il ruolo ecologista più incisivo che il teatro può avere non è tanto nelle pratiche di cui sopra, bensì nei contenuti: per aiutarci a immaginare come superare o sopravvivere all’apocalisse ormai inevitabile, le arti sceniche contemporanee hanno cioè soprattutto la responsabilità di diffondere il pensiero ecologista e di farci stare tutti «a contatto con il problema» (Donna Haraway, Staying with the Trouble, 2016). Ciò significa che il teatro, oggi più che mai, debba aprire e aprirsi a uno stato di contemplazione e interrogazione della realtà che ponga ogni individuo davanti a una percezione diversa del mondo così com’è. In questo senso, afferma Morton, «l’arte ci può aiutare perché è un posto nella nostra cultura che ha a che fare con l’intensità, la vergogna, l’abiezione e la perdita». E «il pensiero ecologico deve interrogare sia l’atteggiamento delle scienze, la loro freddezza autoritaria e distaccata, sia le argomentazioni nichiliste e ingiustificatamente antropocentriche degli studi umanistici, così come il rifiuto umanista di guardare l’immagine d’insieme. […] Il pensiero ecologico è calore e stranezza, infinito e prossimità, un “altrove” stuzzicante e un’ampiezza deflagrante, senza parole». In sostanza: «L’arte ecologica, o l’ecologic-ità di tutta l’arte, non è su qualcosa (alberi, montagne, animali, inquinamento e via dicendo). L’arte ecologica è qualcosa, o forse fa qualcosa. L’arte è ecologica nella misura in cui è costituita da materiali ed esiste nel mondo. […] Ma la sua essenza ecologica va oltre. […] L’ecologia permea tutte le forme. Oggi siamo abituati a chiederci che cosa una poesia dica riguardo a questioni etniche o di genere, anche se non fa esplicita menzione né di etnia né di genere. Presto ci abitueremo a chiederci che cosa dica dell’ambiente un qualsiasi testo, anche se non vi compaiono animali, alberi o montagne».

Davanti all’enormità della crisi climatica che stiamo attraversando, questo approccio dovrebbe permeare tutte le arti sceniche che vogliono occuparsi del reale. Non si tratta di pretendere di influenzarne le estetiche o le tematiche, ovvero il cosa si pensa, bensì solo di ritenere importante che si muti la forma del come lo si pensa, in modo da arrivare a un teatro che, per dirla con Carl Lavery, abbia «la capacità di alterare il nostro modo di esistere nel mondo mettendo in crisi le convenzioni del pensiero e della percezione antropocentrici» (Performance and ecology: what can theatre do?, 2018). Si tratta di ruolo politico e concreto che può riguardare tutti i livelli del sistema, da chi crea a chi produce, fino a chi organizza e dirige e che dunque ha il potere di scegliere cosa programmare. Gli esempi a livello artistico sono diversi, sia dentro il teatro che fuori, e ne facciamo qualcuno.

Dentro il teatro

In Mulinobianco di Babilonia Teatri (visto il 21 luglio al festival FU ME di Cesena) la crisi climatica è il tema stesso della drammaturgia. Per la natura ostica di questo argomento, gli spettacoli che parlano direttamente dell’emergenza ambientale talvolta sfociano in una retorica respingente (ne vedremo un esempio fra poco), mentre Enrico Castellani e Valeria Raimondi riescono a evitare questo rischio grazie alla scelta di far recitare il testo ai loro figli, Ettore e Orlando: dato che saranno i bambini di oggi ad affrontare i problemi che le generazioni precedenti hanno provocato, è giusto che siano i bambini di oggi a parlarne davanti agli adulti. Con una presa di coscienza non comune nel paese dei vecchi e dei conservatori, Castellani e Raimondi scelgono di passare il testimone ai loro eredi (non solo in senso figurato: in una scena, il padre porta il microfono ai figli) e di metterci così davanti allo specchio delle nostre responsabilità. Mentre giocano come qualsiasi bambino della loro età, facendo la lotta o le costruzioni con i Lego, Ettore e Orlando ci raccontano le orride alterazioni dell’uomo sulla natura, i deliri di onnipotenza della nostra specie, i disastri climatici che abbiamo generato e tutte le stupide abitudini consumistiche di cui potremmo fare a meno. I fiumi di parole taglienti, cifra stilistica di Babilonia Teatri, ci colpiscono in modo ancora più violento perché non esondano da due adulti arrabbiati che recitano, bensì da due bambini che non possono essere spensierati, a causa dell’imminente destino che loro stessi ci tratteggiano. La brillante drammaturgia va poi anche oltre, proiettando i due bambini nel futuro e facendoli rimpiangere ricordi della loro infanzia che non ci sono più (Netflix, il Cornetto Algida, Maxizoo), fino a far loro citare alcuni passaggi della Bibbia, riflettere sulla morte e sulla decomposizione del corpo, ridicolizzare le retoriche del consumismo “green” e porre al pubblico domande sulle disuguaglianze sociali ed economiche che si accentueranno a causa del riscaldamento globale. Uno spettacolo che ci incalza e ci commuove, poiché il problema stesso di cui si parla è incarnato nel corpo della vittima, in quello che appare come uno dei modi più autentici e sinceri per affrontare ed elaborare teatralmente il tema della crisi climatica.

Un analogo tentativo lo abbiamo già visto ne Le vacanze di Alessandro Berti (21 marzo-2 aprile, Teatro Arena del Sole di Bologna), altro testo che, attraverso il dialogo fra due adolescenti in un futuro prossimo e surriscaldato, riesce a farci riflettere in modi non ideologici né negativisti sulle conseguenze dell’antropizzazione del pianeta, sulla necessità di immaginare modi diversi di abitare la natura e sulla consapevolezza di costruire un futuro di coesistenza amorosa tra specie. Come quello di Babilonia, anche lo spettacolo di Berti ha il merito di affrontare il tema della crisi climatica con misurata delicatezza e al contempo trattandolo nella sua complessità, riuscendo a trasmettere un incisivo turbamento al cuore del pubblico senza ricorrere agli escamotage apocalittici. Proprio il contrario di ciò che invece fa Gaia di ErosAntEros (10-11 giugno, Ravenna Festival), che analogamente ha voluto occuparsi del tema in modo diretto. Il testo in questo caso si limita a mettere in fila generiche questioni senza creare connessioni («Il problema non è il clima; il problema sono il capitalismo, il denaro, il potere, il profitto, l’uomo, l’avidità, il consumismo, l’indifferenza, l’individualismo, la classe politica, le multinazionali, la subsidenza…», e così via) e a replicare i più banali e inutili discorsi politici e ambientalisti («È in corso la sesta estinzione di massa e se non prendiamo un’iniziativa immediata, andremo incontro alla catastrofe», «I governi ci devono ascoltare», «Passare all’azione radicale è inevitabile»), con qualche spruzzata di complottismo («Le lobby non lo dicono!») e scelte più consone a una manifestazione di piazza che a un palcoscenico («We need a better future and we need to start right now» cantata sulle note di Bella ciao o «Rompere il sistema per l’ecosistema» pronunciata col pugno alzato), oltretutto facendo un gran minestrone fra i cataclismi di causa antropica e quelli naturali, come i terremoti e le eruzioni che nulla c’entrano con la crisi climatica, dando in definitiva l’idea di non voler capire né interpretare e tantomeno traumatizzare. In Gaia ritroviamo quella modalità di discorso ambientalista che Morton definisce «discarica di informazione», ovvero una serie di «fattoidi» che probabilmente sono veri e sicuramente ci impressionano, ma che hanno l’effetto di ripararci dallo shock anziché provocarcelo: limitarsi a dire che questa specie «si sta estinguendo» o che quella area naturalistica «sta per scomparire» può spaventarci nell’immediato, ma in realtà crea un’autorevole e godibile bolla che ci porta a pensare che il problema più grande debba ancora arrivare e non ci riguardi. Lo spettacolo della compagnia ravennate, insomma, ambisce a essere agit-prop ma utilizza una retorica che – nel teatro come nella politica e nell’ambientalismo – rischia di generare assuefazione, disimpegno, passività e impotenza; oltretutto autoproclamandosi dalla parte dei “buoni” e dei “giusti” senza mettersi in discussione.

Non affronta invece il problema ecologico in modo diretto, bensì ne fa un tema di cui decostruire la retorica per farci riflettere, Spafrica di Julian Hetzel e Ntando Cele, visto l’8 luglio a Santarcangelo Festival. Lo spettacolo inizia come un posticcio ma realistico talk post-replica, durante il quale un uomo dalla faccia inquietante, con la voce distorta e gli occhi simili a quelli di un cieco, ci parla di un’acqua speciale ottenuta dalle lacrime degli europei che piangono per l’Africa, grazie alla quale si riesce al contempo a generare la pioggia in Sudafrica e a imbottigliare dei brick venduti in Occidente. «Si tratta della prima bevanda empatica al mondo», afferma l’uomo, che si abbandona a discorsi provocatori sulle merci che possono attraversare i confini più facilmente delle persone, sull’Europa che si è sviluppata sfruttando le risorse del sud del mondo, sulla privatizzazione dei beni comuni. Il suo intento è mettere in buona luce la sua acqua, utilizzando retoriche simili a quelle del greenwashing, ma nei suoi discorsi c’è qualcosa che non torna: e quando la conduttrice del talk gli fa notare di avere creato l’ennesima merce per criticare il capitalismo, utilizzando peraltro una pratica estrattivista, l’uomo va in crisi e ammette che, da bianco cis occidentale, prova un profondo senso di colpa, fino a scoppiare in un pianto disperato, dispiaciuto per non essere «gay, donna, africano e disabile». Dopo questo cortocircuito il performer si toglie quella che scopriamo essere una maschera ultra realistica: sotto c’è Ntando Cele, che ora con la sua voce naturale, ammette di averla indossata per apparire più credibile. «Senza di quella, sarei sembrata l’ennesimo corpo nero che si lamenta», ci dice rivendicando la maschera come uno strumento di «libertà di espressione artistica» che le ha permesso di ribaltare la situazione: «Come posso essere autentica, se vengo vista come uno stereotipo?». Lo spettacolo prosegue fra momenti di danza africana, deliri stroboscopici e interazioni col pubblico, invitato sul palco a piangere per donare le proprie lacrime, e sia il meccanismo retorico di Spafrica che il corpo della performer si pongono come strumento per farci comprendere in modo provocatorio le contraddizioni dell’occidente colonialista, gli inganni del capitalismo dipinto di verde e la necessità di considerare alla pari ogni diversità.

Ecologista nel creare relazioni, manifestare le connessioni nella storia dell’umanità e farci sentire parti di un tutto iper-complesso, contribuendo ad alimentare le prospettive non antropocentriche da cui dovremmo iniziare a guardare il mondo, è infine L’angelo della storia di Sotterraneo (visto il 27 aprile al Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno). Lo spettacolo è sviluppato attraverso una serie di quadri in cui cinque performer (Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini), con la raffinata regia di Daniele Villa, mettono in scena vari episodi reali o fittizi, intrecciandoli tra loro: il soldato giapponese Hiroo Onoda che continua a combattere in un’isola deserta senza sapere che la seconda guerra mondiale è finita, la regina Eleonora d’Inghilterra che partorisce sedici figli prima di avere l’erede maschio, la partigiana Carla Capponi che suona Chopin per coprire le riunioni segrete dei compagni, il filosofo Ippaso ucciso dai pitagorici di cui ha messo in discussione le idee, lo scrittore William Burroughs che spara accidentalmente in testa alla moglie mentre gioca ubriaco al Guglielmo Tell. Vicende storiche su cui la scrittura di Sotterraneo proietta la propria immaginazione utilizzando le sue sapienti e consolidate armi dell’ironia e del paradosso, per manifestarci la complessità della storia e del pianeta in cui viviamo, che non è composto solo da noi esseri umani: fra i vari quadri, infatti, Sotterraneo fa anche esercizi di terolinguistica quando inscena i pensieri di una balena in via di estinzione, di un coniglio colorato di verde per uno stupido esperimento umano o di un gatto che eredita il patrimonio della sua ricca padrona. Intrecci di storie e alterità, di vincitori e vinti, in cui prevalgono la prepotenza e la follia dell’uomo, specie intrusa ma dominante nel pianeta. Eppure quella in cui viviamo è una società complessa e come tale dovremmo trattarla, allo stesso modo in cui fa L’angelo della storia con l’arcipelago di vicende, domande e prospettive che ci sottopone. Non è un caso che questo approccio ecologista provenga da un collettivo, unica dimensione artistica possibile e da perseguire, secondo Amitav Ghosh, per affrontare certe complessità del mondo in cui viviamo (La grande cecità, Beat edizioni 2017).

Fuori dal teatro

Un altro modo possibile per praticare un teatro ecologista è quello che abita la natura come spazio scenico, al fine di mostrarcene la bellezza e di riflesso la necessità di preservarla. Si tratta di un sistema quasi parallelo al teatro canonico, che esiste dagli anni ’80 e che ha fra i suoi esiti le passeggiate teatrali e le performance site specific, nelle quali la natura è parte della drammaturgia stessa e quindi dell’esperienza immersiva e sensoriale. Un esempio recente e luminoso in questo senso è Porpora che cammina di DOM- (Leonardo Delogu e Valerio Sirna), esperienza articolata in cinque ore e quindici chilometri di cammino, presentata dal 15 al 17 giugno a Bologna nell’ambito del progetto BOD/Y-Z a cura di Danza Urbana (per una descrizione più dettagliata si rimanda all’articolo scritto per Doppiozero con Lorenzo Donati, dal quale sono state rielaborate alcune delle seguenti considerazioni). Un gruppo di venti persone segue la scrittrice e attivista trans Porpora Marcasciano che attraversa la città dal centro alla periferia, la osserva e riflette ad alta voce, e nel farlo ci immergiamo nella sua realtà e nella sua visione delle cose, in una particolarissima condizione di trasmissione e condivisione del reale tra performer e pubblico. Porpora attraversa il centro della città come una persona qualunque, ma da ogni suo piccolo gesto comprendiamo un pezzo del suo carattere e del suo portato biografico, finché man mano il particolare si fa universale: protagonisti della performance sono i luoghi che attraversiamo fra quartieri popolari e terzi paesaggi, ovvero quelle zone verdi abbandonate o non curate dall’uomo definite da Gilles Clément, spesso piccole e invisibili, dove l’assenza di attività antropica genera dei rifugi per la conservazione della biodiversità, e che DOM- arricchisce di ulteriore significato grazie a svariate incursioni drammaturgiche di performer che danzano vestiti da apicoltori o ci fanno ascoltare canzoni di Nada o dei Radiohead. Si tratta di territori liminali, né pubblici né privati, poco calpestati, ignorati e inesistenti per la maggior parte delle persone, che eppure esistono e fanno parte del nostro ambiente, così come Porpora nel suo essere «non solo uomo e non solo donna», nella sua condizione marginale e da sempre censurata e rinnegata dalla società moderna. In questo senso, c’è una profonda connessione fra la tipologia di certi luoghi che attraversiamo durante la camminata e quella della protagonista che ci accompagna: Porpora che cammina ci mostra la biodiversità dell’ambiente, composto non solo dalla parte addomesticata – ovvero città e parchi – bensì anche da terzi paesaggi, e non solo da persone lavoratrici normodotate quali siamo noi stessi spettatori e i cittadini che incrociamo nel centro città, ma anche da individui ai margini, poveri come quelli dei quartieri popolari o queer come i performer che ci accompagnano. Qui sta l’ecologismo di questa esperienza teatrale, che nelle sue cinque ore di cammino genera un effetto sovversivo per illuminarci sulla complessità dell’ambiente in cui viviamo, sia urbano che naturale, e per farcene riappropriare nella sua interezza e libertà anziché solo secondo i canoni previsti da qualcun altro. Lo straniamento acquisito dopo questa esperienza totalizzante è proprio la necessaria consapevolezza della “questione ecologista” di cui abbiamo bisogno in questi tempi: Porpora che cammina ci turba nel darci la libertà di posare il nostro sguardo e la nostra mente su ogni dettaglio che ci sfiora mentre passeggiamo, per darci occasione di “immaginarlo altro”, ma anche nell’innestare nel paesaggio che attraversiamo certe questioni identitarie legate al genere, all’inclusione, all’ecologia. Un cerchio che si chiude al termine della performance, quando approdiamo sulle rive fangose di un fiume dove sono ancora freschi i segni delle recenti esondazioni alluvionali di maggio, e non c’è altro modo migliore per invitarci a «stare a contatto col problema».

Bibliografia

G. Clément, Manifeste du Tiers paysage, Éditions Sujet/Objet, 2004 (ed. it. Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, 2005)
A. Ghosh, The Great Derangement, University of Chicago Press, 2016 (ed. it. La grande cecità, Beat, 2017)
D. Haraway, Staying with the Trouble, Duke University Press, 2016 (ed. it. Chthulucene, Nero, 2019)
C. Lavery, Performance and ecology: what can theatre do?, Routledge, 2018
M. Meschiari, La grande estinzione. Immaginare ai tempi del collasso, Armillaria, 2019
T. Morton, Hyperobjects, University of Minnesota Press, 2013 (ed. it. Iperoggetti, Nero, 2018)
T. Morton, The Ecological Thought, Harvard University Press 2010 (ed. it. Come un’ombra dal futuro, Aboca, 2019)
D. Quammen, The Tangled Tree, Simon & Schuster 2018 (ed. it. L’albero intricato, Adelphi, 2020)

L'autore

  • Alex Giuzio

    Giornalista, si occupa di teatro e di economia ed ecologia legate alle coste e al turismo. Fa parte del gruppo Altre Velocità dal 2012 e collabora con le riviste Gli Asini e Il Mulino. Ha curato e tradotto un'antologia di Antonin Artaud per Edizioni E/O e ha diretto la rassegna biennale di teatro "Drammi collaterali" a Cervia. È autore de "La linea fragile", un'inchiesta sui problemi ambientali dei litorali italiani (Edizioni dell'Asino 2022), e di "Critica del turismo" (Edizioni Grifo 2023).

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