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foto di Daniela Neri

“Le vacanze” di Alessandro Berti, il teatro che riflette sulla crisi climatica

di Alex Giuzio

Secondo il filosofo Timothy Morton, la crisi climatica è un tema difficile da affrontare perché si tratta di un iperoggetto, ovvero un fenomeno enorme e dilatato nel tempo e perciò complesso da comprendere e rielaborare. È forse per ovviare questo problema che uno dei modi più usati dall’ambientalismo politico per sensibilizzare la collettività sul riscaldamento globale è sempre stato quello del catastrofismo apocalittico: affermare che “il pianeta sta morendo”, rappresentare famose città sommerse e impaurire sull’imminente estinzione della specie umana sono state chiavi immediate ed efficaci per rendere l’idea del collasso, ma allo stesso tempo hanno purtroppo avuto l’effetto di spostare in avanti il problema, generando negli individui sentimenti di passività, disimpegno e impotenza.
Viene da pensare che, finché il discorso pubblico sulla crisi climatica è rimasto ancorato alle retoriche semplicistiche e alle ipotesi più o meno attendibili sulle future catastrofi, anche il teatro contemporaneo, in quanto arte che vive e si nutre di complessità, non ha avuto adeguati stimoli intellettuali per occuparsi del riscaldamento globale: nonostante si tratti di una questione centrale nel dibattito politico e sociale da almeno un decennio, quella ecologista non è stata infatti una materia molto affrontata dagli artisti della scena italiana (con solo alcune eccezioni di cui abbiamo parlato in precedenti articoli). Ma negli ultimi cinque anni, è finalmente avvenuta anche in Italia la pubblicazione di un nutrito filone di saggistica che ha affrontato il tema con analisi molto più articolate e propositive dal punto di vista culturale, dai primi e più noti La grande cecità di Amitav Ghosh (Neri Pozza 2017) e Chthulucene di Donna Haraway (Nero 2018), ai più recenti Il fungo alla fine del mondo di Anne Tsing (Keller 2021), Ecologia oscura di Timothy Morton e Cyclonopedia di Reza Negarestani (Luiss 2021), Clima, capitalismo verde e catastrofismo di Philippe Pelletier (Elèuthera 2021) e La maledizione della noce moscata di Amitav Ghosh (Neri Pozza 2022), senza dimenticarsi degli intellettuali e divulgatori ecologisti italiani più impegnati e interessanti, come Telmo Pievani, Gianfranco Bettin, Matteo Meschiari. Tutti questi approcci sono usciti dalla dicotomia “catastrofismo vs negazionismo”, facendoci riflettere in modi meno ideologici e negativisti sulle conseguenze dell’antropizzazione del pianeta, sulla necessità di immaginare modi diversi di abitare la natura e sulla consapevolezza di costruire un futuro di coesistenza amorosa tra specie. Di tali prospettive sembra essersi molto alimentato il regista Alessandro Berti, che ha debuttato il 21 marzo scorso all’Arena del Sole di Bologna con Le vacanze (produzione Emilia Romagna Teatro, in scena fino al 2 aprile): lo spettacolo ha infatti il merito di affrontare il tema del riscaldamento globale con misurata delicatezza e al contempo trattandolo nella sua complessità, riuscendo a trasmettere un incisivo turbamento al cuore del pubblico senza ricorrere agli escamotage apocalittici.

Le vacanze è ambientato in un futuro prossimo ma indefinito e si svolge in una suggestiva scenografia composta da una fitta cornice di floride canne verdi di bambù, che circondano un terreno arido illuminato da una luce calda e intensa. Due adolescenti in costume da bagno (Tom e Lao, interpretati da Francesco Bianchini e Sebastiano Bronzato) entrano in scena, si immergono in due buche piene d’acqua e, con dialoghi lenti e voci affaticate dall’afa, iniziano a ricordare il loro passato, quando c’erano le fontane che «adesso sono aiuole, con i fiori». Nel giro di poche battute capiamo che, nel presente dei due ragazzi, le temperature sono molto alte e l’acqua scarseggia. Per cercare di refrigerarsi Tom e Lao evocano il freddo, il ghiaccio e la neve che si trovavano in montagna; e subito i ricordi di «quando si andava in vacanza» si tramutano in nostalgia, anche se i genitori di Lao già «dicevano che era meglio non viaggiare, per non vedere quello che sarebbe scomparso». È una conversazione tra amici che passano il tempo di una lunga giornata estiva a casa di uno dei due, cercando di sconfiggere la canicola con la forza del pensiero in assenza della possibilità di rinfrescare il fisico, e tutti gli elementi dello spettacolo – dall’affascinante scenografia firmata da Gioacchino Gramolini alle luci ben disegnate da Théo Longuemare, fino all’ottima recitazione dei due giovanissimi attori e all’essenziale drammaturgia dello stesso Berti – sono costruiti in modo così perfetto da riuscire a far immergere lo spettatore nella stessa dimensione spaziotemporale di Tom e Lao, a sentire la stessa calura e i medesimi turbamenti, a immedesimarsi nelle battute che restano sospese nell’aria afosa.

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foto di Daniela Neri

A un certo punto Lao rivela a Tom che, per sconfiggere la noia, ha «affittato un performer» attraverso un’app. L’artista arriva in piena notte e si esibisce in una breve danza composta da lentissimi movimenti che lascia delusi gli adolescenti, rimasti per tutto il tempo a chiedersi se fosse maschio o femmina anziché abbandonarsi alla poetica dei gesti, costruiti da Giovanni Campo in una coreografia di movimenti androgini. A guardarlo in faccia mentre danza, l’artista sembra in uno stato di estrema rassegnazione, frustrazione e marginalità: d’altronde è relegato a un noleggio di venti minuti tramite app, che riduce la sua arte a un breve e superficiale intrattenimento estivo, forse l’unica possibilità rimastagli per sopravvivere nel mondo distopico ma non troppo lontano de Le vacanze. E al termine della performance, Tom e Lao pensano solo alla quantità – lamentandosi che «è durato poco» in relazione ai soldi spesi – anziché alla qualità di ciò che hanno visto. Ma nonostante i ragazzi non siano rimasti soddisfatti dall’esibizione, continuano a pensarci e a discuterne, finché Tom non viene disturbato da una zanzara e la uccide, stupito per la sua presenza. Dai dialoghi che proseguono tra i due, scopriamo che questi fastidiosi insetti sono stati fatti estinguere dall’uomo grazie a un’avanguardistica tecnica genetica, e poi che anche gli esseri umani sono stati oggetto di pratiche di editing per migliorare la propria salute e resistenza alle malattie. Questo argomento scatena la discussione finale fra i due ragazzi: Tom, originario di una famiglia umile, preferisce «bere a piccoli sorsi il passato», rimprovera la «troppa voracità e troppa foga della scienza» e rivendica il suo rifiuto alle tecniche di editing, mentre Lao, altoborghese figlio di ricchi scienziati che lo hanno educato al vegetarianesimo e alla meditazione, difende le conquiste del progresso senza vederci alcun problema. Ma Tom si infuria e arriva a evidenziare le contraddizioni di Lao: «La borghesia aggiornata, tecnologica, che si rilassa col performer primitivo. Lo studente di biologia molecolare che fa stretching e meditazione, non mangia carne, e poi maneggia l’intoccabile, il sacro». L’affitto del danzatore è secondo Tom l’emblema delle contraddizioni di Lao e della sua classe sociale; e così l’arte stessa, facendo da elemento di innesto per giungere al climax dello spettacolo, si pone in quello che dovrebbe essere il suo ruolo più nobile, ovvero scatenare discussioni, lacerare turbamenti e aprire riflessioni – proprio come fa con Tom e Lao. È forse per questo motivo che, nella drammaturgia de Le vacanze, è l’arte l’unico elemento a sopravvivere: alla fine dello spettacolo si alza infatti un forte vento di libeccio che aumenta il calore a dismisura, provocando l’apparente morte dei due ragazzi disperati, mentre il danzatore rientra in scena e termina la sua performance. Ma nonostante si salvi, l’arte resta comunque inerme davanti al collasso: il performer si accorge dei due ragazzi esanimi solo alla fine della sua esibizione, e non può fare altro che guardarli, impotente sia davanti alla fine individuale che alla catastrofe ambientale. In questo senso, la figura del performer a noleggio è la trovata più interessante dello spettacolo di Berti, in quanto sembra incarnare una raffinata autoriflessione dell’arte stessa sul suo ruolo nel mondo in piena crisi ecologica.

foto di Daniela Neri

Con questo finale, Le vacanze riesce a lasciarci un’artaudiana inquietudine rispetto alla percezione del mondo in cui viviamo e al futuro a cui stiamo andando incontro, e ciò è un risultato ammirevole per uno spettacolo composto da pochi ed essenziali elementi, senza scontati colpi di scena né facili trovate emotive (significativa, a questo proposito, è la totale assenza di musica e suoni, eccetto un ronzio finale quando si alza il libeccio). L’abile intuizione di Alessandro Berti che lo ha scritto e diretto (con Gaia Raffiotta assistente alla creazione) è di avere considerato il riscaldamento globale non come una catastrofica minaccia dell’avvenire, bensì come un dato di fatto del presente con cui convivere, e di avere sia utilizzato che rappresentato l’arte come mezzo possibile per raggiungere l’irrequietezza necessaria a immaginare nuove forme più armoniose di esistenza futura. Le vacanze si pone dunque come uno spettacolo esemplare di teatro ecologista, con l’ulteriore merito di riuscire a suscitare complesse sensazioni con estrema semplicità a chiunque, senza il bisogno di avere alcun background di riflessioni e letture sull’arte e l’ecologia, per mettere l’umanità davanti alle sue storture.

L'autore

  • Alex Giuzio

    Giornalista, si occupa di teatro e di economia ed ecologia legate alle coste e al turismo. Fa parte del gruppo Altre Velocità dal 2012 e collabora con le riviste Gli Asini e Il Mulino. Ha curato e tradotto un'antologia di Antonin Artaud per Edizioni E/O e ha diretto la rassegna biennale di teatro "Drammi collaterali" a Cervia. È autore de "La linea fragile", un'inchiesta sui problemi ambientali dei litorali italiani (Edizioni dell'Asino 2022), e di "Critica del turismo" (Edizioni Grifo 2023).

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