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Quattro sguardi su Ipercorpo 2022

di Francesco Cervellino, Alex Giuzio, Francesca Lombardi, Damiano Pellegrino

La redazione di Altre Velocità lo scorso maggio ha seguito tutti gli appuntamenti in calendario nell’ambito della diciottesima edizione del festival internazionale Ipercorpo a Forlì. Alle tantissime visioni in sala, si sono aggiunti sia momenti di dialogo e confronto con i singoli artisti o con i gruppi presenti nel programma sia una grossa mole di materiale scritto a metà tra la cronaca e il racconto delle singole giornate, raccolto attraverso la serie di otto cartoline all’interno del nostro sito.
Per chiudere questa esperienza e salutare il festival abbiamo realizzato quattro approfondimenti o focus di analisi, facendoci guidare in queste riflessioni da alcuni contenuti che più di altri hanno stimolato i nostri interessi o acceso la nostra curiosità durante i giorni della manifestazione. Quattro casi studio, assemblati a posteriori e non comunicanti l’uno con l’altro, discendono dall’esperienza sul campo compiuta a Forlì e si allontanano da quella città per dileguarsi e rintracciare una vita propria.

foto di Gianluca Camporesi

Fuori dal tempo e dall’esistenza. Sonora desert di Muta Imago

– di Alex Giuzio

Potremmo chiamarlo “viaggio multisensoriale”, “esperienza sinestetica” o “spettacolo immersivo”, ma nemmeno la somma di questi tre concetti basterebbe a sintetizzare Sonora desert di Muta Imago, ultimo lavoro della compagnia romana allestito a Ipercorpo, in cui siamo invitati ad abbandonarci stesi su un’amaca per lasciarci trasportare da vibrazioni sonore e luminose che per un tempo indefinito ci avvolgono il corpo e la mente in maniera totalizzante. Indossando sugli occhi una mascherina di plastica opaca che lascia filtrare solo alcune frequenze di luce, non dobbiamo fare altro che lasciarci andare alle onde provenienti dai fari e dalle casse: l’effetto potrebbe essere quello di giungere a uno stato di lucida alterazione della coscienza, oppure alla fase di pre-addormentamento in cui i pensieri vagano verso territori dell’assurdo, o ancora a una semplice indifferenza che però non può resistere davanti a certi apici, come nel climax della partitura in cui la violenza dei bassi e l’intensità delle luci rosse provocano sensazioni di inevitabile disagio o terrore. Ognuno può vivere l’esperienza di Sonora desert in modo diverso e personale; ciò che conta è che con questo lavoro Muta Imago sembra avere raggiunto un apice nella sua indagine sulla “sparizione” che ha attraversato negli ultimi anni del suo percorso artistico, con spettacoli come Senza quinte né scena (2019), Timeless (2018) e Antologia di S. (2016) e soprattutto con il podcast Sparizioni realizzato nel 2021 nell’ambito del progetto Radio India. Sparizione che qui non riguarda solo il corpo del performer, che in Sonora desert non esiste, ma anche quello dello spettatore, accompagnato dalle onde invisibili a dimenticarsi di se stesso e di ciò che lo circonda per entrare in una dimensione altra che supera quella del mero ascolto, in un lungo ed eterno presente senza tempo in cui si ha la possibilità di lasciarsi andare alle proprie introspezioni, come è possibile praticando la meditazione o assumendo psichedelici e come invece per la prima volta abbiamo visto accadere anche a teatro – perché nel campo del “teatro” e delle sue infinite possibilità pensiamo vada comunque iscritto un lavoro fuori dagli schemi come Sonora desert.

I riferimenti teorici e culturali di questa indagine di Muta Imago sono molteplici, e abbiamo modo all’inizio di coglierli sotto forma di suggestione e alla fine di conoscerli in maniera esplicita. Prima di stenderci sulle amache, attraversiamo infatti una stanza dove siamo invitati a soffermarci a leggere dei fogli di appunti scritti a mano che raccontano di un viaggio nel deserto dell’Arizona e della sensazione di annullamento dell’essere umano davanti a tale paesaggio immenso, ma che riportano anche citazioni e riflessioni su onde sonore e rifrazioni luminose, amnesie e perdite, droghe e sinapsi: questo ingresso fa da contestualizzazione dell’esperienza sensoriale che ci stiamo apprestando ad attraversare, e aiuta a mettere da parte certe rigidità che potrebbero sorgere aspettandosi un “classico spettacolo teatrale” per farci predisporre all’abbandono verso la pratica inusuale che ci attende. Dopo avere compiuto il viaggio sull’amaca, invece, veniamo accompagnati in una terza accogliente stanza da decompressione, dove siamo invitati a bere una tazza di tè seduti a terra sui cuscini circondati da decine di volumi: ci sono saggi sulle esperienze sintestetiche e interiori legate alla musica (Alla ricerca dell’oblio sonoro di Harry Sword, Ocean of sound di David Toop) e sugli effetti terapeutici degli psichedelici (Come cambiare la tua mente di Michael Pollan), c’è ovviamente tanta letteratura legata alla diffusione di queste esperienze negli anni sessanta (Brion Gysin, William Burroughs, Allen Ginsberg) e ci sono testi che parlano del perdersi e del dimenticare (A field guide for getting lost di Rebecca Solnit, America di Jean Baudrillard). Riferimenti letterari, scientifici e poetici che non sono solo il punto di partenza del lavoro di Muta Imago, ma anche di un possibile approfondimento dello spettatore, ora che grazie a Sonora desert ha potuto scoprire la meraviglia della sparizione e della perdita, la ricchezza dell’alterazione dei sensi e la necessità, talvolta, di prendersi un tempo diverso.

Sogno o son desto? Virtual Reality tra gaming e perfomance

– di Francesca Lombardi

Immaginiamo due situazioni distinte:

Siete in un grande centro commerciale pieno di tavolini e negozi, bambini urlanti corrono per gli ampi corridoi, qualcuno consuma un pasto, un caffè, un gelato. All’entrata – una vera e propria piazza – un’importante azienda tecnologica sta pubblicizzando i visori VR per un’esperienza di gioco immersiva. Incuriositi vi sedete e provate a giocare. L’operatore cala il visore sui vostri occhi e dopo una frazione di secondo vi ritrovate a bordo di una navicella spaziale in orbita intorno agli anelli di Saturno. Improvvisamente nel vostro campo visivo compaiono altre navicelle che iniziano a sparare senza riguardo, spaventati impugnate il joystick e iniziate a combattere. Ogni colpo risuona nel petto, l’atmosfera è totalizzante. Sapete che nulla è reale, sentite le vostre cosce a contatto con la poltrona da gamer, ma non importa: bisogna portare a casa la vittoria. 

Incuriositi da una brochure consultata in biblioteca decidete di andare a un festival di teatro vicino al posto in cui vi trovate, tra gli spettacoli programmati siete interessati a La mia battaglia di Elio Germano in versione VR. In una stanza angusta dalle pareti bianche, con una ventina di sedie disposte davanti a un muro, indossate il visore per la realtà aumentata. Vi guardate intorno, la platea è piena ma non riuscite a mettere a fuoco i visi degli altri spettatori, che chiacchierano animatamente tra di loro ma mai con voi. Fate scivolare lo sguardo in basso e rimanete sorpresi: il seggiolino della poltrona su cui siete seduti è vuoto. Le luci si abbassano e inizia lo spettacolo. Dopo un po’ di tempo vi siete dimenticati di essere seduti davanti a un muro, di non stare assistendo in presenza alla performance. La sala torna a illuminarsi, lo spettacolo è finito. Applaudite, ma il suono prodotto dal contatto dei vostri palmi è sordo e lontano. 

La fruizione in VR modifica radicalmente sia l’esperienza spettatoriale che i processi di costruzione artistica. Lo spettatore/utente subisce un drastico cambio di prospettiva: dallo sguardo del soggetto come punto di vista privilegiato alla frammentazione come condizione necessaria, in cui la libera esplorazione dello spazio viene inclusa all’interno di processi informatici. La creazione artistica digitale obbliga a processi aperti, non del tutto controllabili e prevedibili, in cui il fruitore diviene co-autore. Le situazioni illustrate in apertura individuano due tra i diversi usi del VR: il “gaming” e la performance frontale. Il primo esempio sfrutta la tecnologia per creare un ambiente immersivo in cui lasciarsi andare e immaginare, il secondo replica la visione frontale in presenza, senza sfruttare a pieno le potenzialità del mezzo, ma congelando l’hic et nunc dell’evento teatrale rendendolo riproducibile e consultabile. Tra questi due esempi si inserisce Re_FLOW della coreografa, danzatrice e visual artist greca Chrysanthi Badeka, visto a Ipercorpo 2022. Nel lavoro di Badeka lo spettatore, dotato di visore VR, viene immerso in un ambiente spoglio e desertico dove la terra si sfalda e l’acqua inghiotte tutto. Una performance che riflette sulla situazione presente, sui cambiamenti climatici che stiamo attraversando, domandandosi quali corpi possono sopravvivere in uno stato di emergenza. Lo spettatore in questo caso è libero di esplorare, anche se soltanto all’interno di una zona limitata, sentendosi a tutti gli effetti parte dell’ambiente artificiale. Emerge però un problema comune: la solitudine. Gli esempi trattati prevedono la partecipazione singola, lontana dalla ritualità comunitaria propria dell’evento teatrale. L’esperienza di vita contemporanea, tra ubiquità, simultaneità, distribuzione frammentata e in larga misura parallela, riverbera negli usi e nei modi aperti dall’utilizzo di tecnologie immersive in campo artistico. La solitudine, caratteristica dell’utente più che dello spettatore, negli esperimenti di realtà aumentata emerge come conditio-sine-qua-non propria dell’esperienza quotidiana della rete. Una solitudine che grazie alla mediazione tecnologica si fa moltitudine “cyborg”. Se la dicotomia tra soggetto e oggetto, macchina e umano, è decaduta, quali nuove prospettive mette in gioco la realtà virtuale in campo artistico? E come ripensare la partecipazione?

Da qualche parte tra il volo e la caduta

– di Francesco Cervellino

È il 1988. Inghilterra. La scena teatrale è dominata da grandi produzioni e da una linea conservatrice che predilige e finanzia un teatro di narrazione, figlio e presto orfano del grande Laurence Olivier. In questo contesto, tra le maestranze e la gavetta, tredici artisti decidono di uscire dall’industria per cercare qualcosa che va contro le aspettative di un pubblico imborghesito. Parliamo dei Reckless Sleepers, compagnia fondata dallo scenografo Mole Wetherell e da altri dodici artisti tra danzatori e attori. Attivi da più di trent’anni hanno accumulato centinaia di repliche in tutto il mondo portando avanti un’idea di teatro scarna, riportata alla pura azione performativa, con l’intenzione di meravigliare e sorprendere il pubblico senza bisogno di macchinazioni complesse e della parola. Tutte le produzioni dei Reckless Sleepers partono da esplorazioni, esperimenti in cui spazio scenico, oggetti, azioni e interazioni tra i performer e il pubblico si costruiscono man mano. I membri della compagnia in scena si danno delle regole, ma non hanno un copione. Sanno che a un’azione deve corrispondere una reazione e conoscono le regole del gioco ma cercano continuamente di sorprendersi tra loro e di tradirsi. Ad esempio in A string section, una produzione del 2012 tra le più iconiche del gruppo presente nel programma di Ipercorpo, cinque donne eleganti vestite di nero siedono su altrettante sedie di legno. Sembra che da un momento all’altro debba partire un concerto, invece le performer tirano fuori delle seghe di metallo e iniziano a tagliare le gambe delle sedie. Man mano che queste perdono pezzi le performer sono costrette a trovare nuovi equilibri dato che non è permesso loro di scendere dalla seduta finché essa non sarà totalmente distrutta. In alcuni momenti questa affannosa ricerca di equilibrio porta alla risata, in altri momenti genera apprensione in un crescendo in cui la performance non è mai uguale e sorprende di volta in volta il pubblico e le stesse perfomer. Attori e spettatori si trovano allo stesso punto di partenza: nessuno sa cosa accadrà o può prevedere se qualcuno si farà male o se si riderà a crepapelle. Lo spettacolo è  una sorpresa e il carattere di imprevedibilità è una delle firme dei Reckless Sleepers. Se la creazione di questo lavoro parte, dunque, dall’esplorazione di un’oggetto, per altri progetti, invece, è lo spazio stesso ad essere il punto di partenza. Questo accade ad esempio in Parasite, spettacolo del 1994. In scena viene letteralmente costruita una stanza strettissima dove il pubblico si accomoda. I performer devono attraversare quello spazio e per compiere questa azione sono costretti ad entrare dalle finestre, scavalcare i muri, creare dei passaggi nella stanza prendendo a martellate le pareti. La presenza del pubblico li obbliga a delle azioni a cui non sono preparati. Ciò che si vede sono tentativi disperati di fuga o personaggi che tentano di nascondersi, in una scena che regala al pubblico centinaia di interpretazioni diverse, come accade nel lavoro Somewhere between falling and Flying. Il germe di questa messa in scena nasce da un’esperienza personale traumatica: il direttore, Mole, ha deciso di partire dall’esplorazione delle diverse forme assunte dal suo corpo nel corso di un incidente d’auto. Cinque danzatrici sono scosse, strattonate da spinte improvvise, in un altro momento sono rannicchiate, strisciano tra lamiere invisibili fino ad abitare un equilibrio instabile con un piede nel vuoto. I significati che assumono queste azioni, sradicate dal loro contesto naturale, sono totalmente personali e insindacabili. L’unicità della ricerca dei Reckless Sleepers risiede nel processo creativo destrutturante, operato sull’opera e teso a rimuovere ogni patina di realismo per scatenare più visioni possibili. In definitiva si potrebbe accostare questo gruppo a La Trahison des images di René Magritte, il quadro che ritrae una pipa e la celebre frase “Ceci n’est pas une pipe”. L’artista nella sua opera pittorica svela l’inganno delle immagini compiendo un’indagine che non mira a una  rappresentazione naturalistica. I Reckless Sleepers, al pari del pittore belga, non vogliono affatto tradurre la realtà, non gli interessa e piuttosto sono spinti a riportare sul palco una materia onirica e vicina alla dimensione del sogno. E proprio da una tavola di Magritte, Il dormiente temerario, hanno ricavato il nome del gruppo. La raffigurazione nella parte superiore esibisce il sonno sereno di un uomo mentre in quella inferiore accosta, separati tra loro da una forma grigia, un cappello, uno specchio, un fiocco azzurro. Tutti simboli o indizi sconnessi tra loro che scatenano molteplici letture nell’osservatore mentre il dormiente, nella parte superiore del dipinto, continua a riposare o sognare.

foto di Gianluca Camporesi

Indisciplinati. Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi

– di Damiano Pellegrino

Il presente contributo non può che prendere avvio da un punto stradale della città eterna, per la precisione via Ripetta nel rione Campo Marzio a Roma. Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi, con cui abbiamo fatto una lunga discussione attorno al loro lavoro AeReA presentato a Ipercorpo, ancor prima di dare vita a un sodalizio artistico e dedicarsi insieme a una ricerca nel campo della danza e della performance, sono compagni di classe al liceo artistico che prende il nome proprio da quella via. Nei corridoi della scuola entrano a contatto per la prima volta con i linguaggi della danza, praticandola in maniera irregolare all’interno di un’attività in orario extra-scolastico. Poi si spostano di qualche metro nello stesso rione e frequentano il corso di scenografia, previsto all’interno dell’Accademia di Belle Arti, perché credono che in quel momento in Italia possa essere un percorso di studi ideale per coltivare una formazione a diversi livelli e sviluppare dei progetti quanto più aperti ed elastici, con i quali approfondire questioni che riguardano simultaneamente lo spazio, la visione, il video o il movimento. «Sulla carta siamo due scenografi» sostengono durante la conversazione. Ancora la città di Roma, palestra accecante e materna, rifila un altro colpo al loro apprendistato, concedendo un germe, una folgorazione o una scoperta improvvisa alla loro voracità. Qui entrano in contatto con il lavoro della Stoa, una delle molteplici scuole libere e irregolari fondata nel 2003 da Claudia Castellucci e rivolta più specificamente al movimento ritmico, e così corrono a Cesena per seguire l’ultimo anno. Qui per la prima volta si concedono a un momento autentico di pura creazione a quattro mani e presentano un lavoro insieme, dal quale scaturiscono altrettanti interventi performativi, disegni e materiali video. Poi la Germania: Ginevra frequenta l’Accademia di Belle Arti a Lipsia mentre Enrico un corso di danza e coreografia presso l’Università delle Arti di Berlino. I due ambiti disciplinari degli istituti, apparentemente distanti, nascondono un’enorme prossimità ai loro occhi e stimolano la coppia a ricercare un doppio confronto con insegnanti provenienti sia dal mondo delle arti visive sia da quello della performance. La loro ricerca artistica, allora, rifugge da facili definizioni, non può essere inquadrata dentro confini precisi o collocazioni approssimative (per fortuna), soprattutto se andiamo a ritroso nel tempo e facciamo luce sui loro primi passi durante il percorso di studio iniziale. A un lungo periodo di incubazione nel territorio sconfinato delle arti visive non può che seguire una prolifica libertà di creazione nell’ambito della coreografia. Interessati a indagare la figura umana, le sue ambiguità e l’intero peso storico che essa può trascinarsi fin sotto i riflettori della scena, nelle loro creazioni essi si avvalgono quasi sempre di un elemento figurativo o un riferimento al visivo, destinato a evocare un paesaggio della mente o un immaginario e a non fornire allo spettatore un messaggio diretto e inequivocabile. Che cosa è capace di rappresentare un corpo in movimento se lo associamo a una densità storica, che risale a una grossa mole di materiali appartenenti alla tradizione o a una memoria civile, sociale e culturale? Il loro lavoro coreografico, così, non si fonda su uno studio della danza di per sé, come linguaggio autonomo, e si svincola dal tentativo di esplorare il movimento ai fini di creare un nuovo codice. Il corpo in scena non è mai rilassato, non ostenta una spontaneità o una comodità, ma piuttosto si misura con un problema, ad esempio il peso e la levità di un oggetto, e fronteggia e impara a gestire un ostacolo o una difficoltà, riconducibile a una sorgente proveniente dall’esterno che sin dall’inizio coinvolge e condiziona la genesi di un progetto. La fase di ideazione nasconde una qualità o un pensiero plurale, un caos generativo o un’inosservanza tale da trascinare il duo a setacciare altri ambiti disciplinari prima dell’approdo finale alla costruzione della performance dal vivo. Non superare i limiti della danza ma credere, forse, che la danza abbia limiti più ampi di quelli in cui altri la rinchiudono.

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