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(foto di Nicola Baldazzi)
(foto di Nicola Baldazzi)

(Storie) dal Grande Teatro di Lido Adriano intorno a “Bhagavadgītā – Il Canto del Divino”

di Giulia Damiano

Il Grande Teatro di Lido Adriano, progetto di teatro comunitario nato al CISIM in collaborazione con il Ravenna Festival, Albe/Ravenna Teatro e Cooperativa Teranga, ha presentato il suo terzo lavoro il 1° giugno, con repliche 2, 6, 7 e 8 giugno. Per la prima volta in Occidente, viene affrontato un testo sacro dell’induismo, il Bhagavadgītā parte del più ampio poema epico: Mahabharata – già inscenato, invece, da Peter Brooks nel 1989. A rappresentarlo, dietro la riscrittura di Tahar Lamri e la regia di Luigi Dadina, facilitata da Camilla Berardi, Marco Montanari e Marco Saccomandi (Spazio A), c’era un coro di un centinaio di persone, tra i 4 e gli 80 anni. Impresa più che accompagnata, costruita, insieme alle musiche di Francesco Giampaoli e le parole – oltre che alla co-direzione artistica – di Lanfranco (Moder) Vicari.

Prosieguo di un reportage

Il lavoro del gruppo su Bhagavadgītā – Il Canto del Divino è stato scandito da due imprese: affrontare un testo sacro induista di difficile ricezione per le tantissime anime del Coro – per le questioni che scandiremo di seguito – e immaginare, oltre che coordinare, una cospicua mole di persone nella messa in scena di un dialogo che prevederebbe solo due personaggi.

Nel primo diario ci sono state varie voci che contribuivano in modo diverso alla messa in moto dei vari processi dietro lo spettacolo. Sono emerse una cooperazione e una ricerca di orizzontalità molto rare, che ci rimandavano a una qualche definizione di teatro comunitario. È nel merito dello spettacolo, del tema scelto e costruito attorno alle storie delle persone nel Coro, oltre alle suggestioni emerse durante il lento approcciarsi a una questione come quella della guerra, che sono “scoppiati tanti pianti” ed emersi diversi e legittimi dubbi tra i partecipanti. Quella che segue non è una recensione allo spettacolo, ma, ancora una volta, una traccia scritta che funga da testimonianza di un lavoro importante sotto diversi punti di vista, raccontato da chi ha contribuito in vario modo a metterlo in scena e a immagazzinarlo in una memoria condivisa. Ciò senza evitare eventuali fratture avvenute in corso d’opera, che confermano modalità di lavoro protese verso la discussione, un processo plurale nella creazione dello spettacolo.

In particolare emergeranno le voci della Brigata artistica e solidale, di Luigi Dadina, di Lamri Tahar e di altri che, prima o dopo il debutto dello spettacolo, hanno detto la propria rispetto al senso del testo e alla complessità metterlo in scena nonostante perplessità e critiche interne. Si darà spazio anche alla voce di uno spettatore particolare, con cui si è discusso a posteriori dello spettacolo e del senso della Gita, Gianni Pellegrini, docente di Lingua e letteratura sanscrita e di Filosofia e religioni dell’India all’Università di Torino, invitato dal Grande Teatro per avere un confronto sull’esito della riscrittura, nonché prima messa in scena della Bhagavadgītā in Occidente.

Per gran parte delle persone ascoltate, la Bhagavadgītā parla, ragionevolmente, di conflitto. Per una delle bambine del Coro, però, questo spettacolo invita a non fare la guerra.

(foto di Nicola Baldazzi)

L’approccio al testo sacro: che cos’è il Dharma?

La Bhagavadgītā, databile tra il III e il II secolo a.C., è un testo sacro parte del più ampio poema epico Mahabharata, composto da 700 versi che descrivono qualche istante prima di una guerra tra Pandava e Kaurava, fazioni rivali, sul campo di Kurukshetra. In questo brevissimo lasso di tempo avviene il dialogo tra il principe Arjuna, guerriero, e il suo auriga Kṛṣṇa (incarnazione del dio Vishnu), che parlano di dovere, spiritualità, azione, liberazione.

Diverse riletture posteriori della Bhagavadgītā invitano a prendere Arjuna non come singolo ma come la rappresentazione dell’essere umano, messo davanti al suo dubbio, alle proprie scelte. E davanti a un dubbio terribile, quello di combattere o meno contro i suoi parenti, maestri e amici, arriva come sua guida Kṛṣṇa.

La guerra qui intesa, quindi, è un conflitto universale tra il Dharma (dovere) e l’Adharma (ingiustizia). Non si parla di bene e male, mi spiega Gianni Pellegrini, ma di giusto e ingiusto. Tuttavia, mentre si possono trovare questi opposti dicotomici laddove si sta consumando un genocidio, dove ci sono guerre di occupazione, dove vi è resistenza a un dominio di oppressione, non sempre, nelle guerre attuali, dettate prevalentemente da interessi economici, speculativi, per le quali non si esplicitano alla popolazione i fini, risulta facile trovare in queste dinamiche il “giusto”. Dove siano il Dharma e l’Adharma, allora, è difficile da capire se si rimane sul livello del dovere universale – continua Gianni. Non si può che ricorrere, allora, alla giustizia interiore, a ciò che ognuno nel suo profondo ritiene giusto: la battaglia che dobbiamo portare avanti oggi, su insegnamento del testo sacro, è quella dentro ognuno di noi. Una volta che ognuno avrà trovato il proprio dharma saprà cosa è giusto fare.


Sono interpretazioni che a loro volta sollevano dubbi di merito rispetto alla loro giustizia e ingiustizia, o parzialità – in un presente in cui tutti ci confrontiamo appunto con guerre, annientamento e conflitto. Ma, forse, il modo migliore di lasciare aperte tali questioni è appunto far emergere le voci di chi ha preso parte alla grande macchina messa in moto per rappresentare la Bhagavadgītā.

(foto di Nicola Baldazzi)

Incursioni: disambiguare il testo

Se una demarcazione netta non si trova seguendo il senso di un Dharma universale, insiste il professor Pellegrini, è essenziale non negarsi al confronto con il proprio io. Il dialogo tra Krishna e Arjuna sul campo di battaglia rappresenta il conflitto interiore che molti sperimentano oggi: come agire con saggezza in un tempo come questo? Come conciliare responsabilità personali e collettive?

Per disinnescare le ambiguità e facilitare la fruizione di un testo tanto stratificato, il Grande Teatro, nella riscrittura della Bhagavadgītā, accoglie diverse incursioni.

Il Coro, nello spettacolo, rappresenta collettivamente Arjuna e il suo dubbio sulla guerra, ma, spiega Luigi Dadina, «sono entrate dentro al racconto, specie nella prima parte, le esperienze che alcune persone del Coro hanno avuto con la guerra: ad esempio c’è una ragazza ucraina che racconta la sua fuga, due ragazzi tunisini parlano del loro viaggio in mare, un’altra ragazza ha scritto versi di una canzone rap riflettendo sul tema, una signora romagnola parla del fatto che lei la guerra non l’ha mai vista e che non ne può più di sentirne parlare in televisione mentre mangia… Insomma, raccontiamo varie storie e reazioni davanti alla guerra».

Alle testimonianze del Coro si aggiungono i pensieri di due figure significative che hanno studiato e approcciato il testo sacro sviluppando diverse, ma in un certo senso convergenti, interpretazioni. Si tratta del Mahatma Gandhi e di Simone Weil, interpretati rispettivamente da Gabriele, il componente più cresciuto del Coro, e l’attrice Camilla Berardi (Spazio A). Le loro testimonianze nel progetto del Grande Teatro, insieme a quelle del Coro, aiutano a disambiguare, nello spettacolo, l’aderenza al conflitto che il testo potrebbe suscitare.

Marco Montanari (Spazio A), infatti, spiega che la presenza di Gandhi aiuta a chiarire un testo che altrimenti potrebbe essere interpretabile come guerrafondaio, specie se attualizzato. Invece, «attraverso Gandhi ci diciamo: allo scopo che vogliamo raggiungere, il cambiamento, possiamo arrivarci anche prendendo altre direzioni. Secondo me è qui il nodo: capire come raggiungere il cambiamento. La guerra può perseguire degli scopi giusti, ma la guerra è lo strumento? Oppure possono esserlo la non violenza o altre alternative?».

Il testo della Gita presenta effettivamente un paradosso: Kṛṣṇa, incarnazione divina di amore e saggezza, convince Arjuna a combattere una guerra fratricida. Tuttavia, diversi elementi del testo suggeriscono che la guerra non sia l’obiettivo principale del messaggio. La guerra, infatti, come affermano Gandhi e i maestri del Vedanta, sarebbe una metafora interiore sul distaccarsi dai frutti dell’azione, mantenendo un equilibrio spirituale. Arjuna rappresenterebbe, dunque, l’anima che deve superare le proprie debolezze, compiendo una scelta e assumendosene la responsabilità morale. Per agire nel “giusto” bisogna seguire il dharma. Nel suo caso, Arjuna ha il dovere di proteggere i giusti: quella dei Pandava non è una guerra di conquista, ma di difesa, di ripristino dell’ordine cosmico (Dharma) violato dai Kaurava, con cui ogni altro tentativo diplomatico e pacifico precedente era risultato vano. Secondo Gandhi, infatti, la Gita era una guida pratica per l’azione nel mondo. Azione disinteressata e senza attaccamento ai frutti, concetto centrale del karma yoga. Tale principio diventa poi fondamento della sua filosofia della non-violenza (ahimsa) e della resistenza passiva. Il Mahatma, insomma, interpretava l’insegnamento del testo sacro come una metafora tra giusto e ingiusto, non come invito alla violenza fisica.

Simone Weil, che pure studiò molto il testo imparando il sanscrito e tentando di tradurlo, incrociò elementi del pensiero orientale con quello occidentale. Proprio per questo suo osservare da “esterna” il testo, si pose molti dubbi sulla giustificazione della violenza e sulla rigidità del sistema castale. Weil fu una pacifista radicale che però (o proprio per questo) prese parte alla Guerra Civile spagnola e alla Resistenza francese durante la Seconda guerra mondiale. Nell’ultima fase della sua vita approfondì la spiritualità cristiana con approccio eterodosso e si interessò alla non violenza di Gandhi.

Pellegrini considera le incursioni di Weil, Gandhi e delle persone del Coro come «figure fondamentali per portare un testo che sembra esotico, lontano, per portare il dramma di cui si parla sulla Terra. Per mostrare che a ogni dramma che coinvolge l’umano può esserci una soluzione».

Tahar aggiunge un’ultima “incursione” nel testo: quella del fiume. «Siccome noi esseri umani siamo in guerra contro la natura, la scena finale vede un dialogo tra il fiume, Krishna e Arjuna. Il fiume rappresenta la linea che separa i Pandava dai Kaurava e quel fiume [nello spazio scenico] sono gli spettatori». Alla richiesta di chiarimento sull’essere in guerra contro la natura, sottolinea che non è un giudizio ma una constatazione: «Noi dominiamo il pianeta, siamo stati noi a deviare il corso del fiume, a inquinarlo, cementificarlo. Abbiamo costretto tutto e tutti alle nostre esigenze. Quello che facciamo è dominare e il dominio è una guerra. Che sia l’uomo che vuol dominare la donna, l’uomo che vuol dominare la natura, ma siamo comunque sempre in posizione di guerra. E quando poi gli si riversano le cose contro, i dominanti si chiedono perché. In questo senso anche l’alluvione in Emilia-Romagna, che riguarda appunto i nostri fiumi, non era disattesa».

“Ogni battaglia è una lotta tra dharma e illusione. Fiumi e pianure sono il nostro specchio. Fiumi e pianure sono il palcoscenico della nostra guerra interiore. Solo riconoscendo il nostro dharma possiamo trovare la vera vittoria, la pace dell’anima”.
(dal testo dello spettacolo)

(foto di Nicola Baldazzi)

“Due parole sullo spettacolo”

L’ho chiesto a molte delle persone intorno a me nei giorni di permanenza a Lido Adriano. Oltre ai pareri sopra citati, rilevanti sono anche le varie voci della Brigata artistica e solidale del Grande Teatro di Lido Adriano, di cui si riportano di seguito alcune considerazioni.

Secondo R. la Bhagavadgītā apre alle questioni di “guerra giusta” e resistenza, e cioè il «poter seguire il proprio “dharma”, nel senso non tanto di seguire il proprio destino ma di far le cose col cuore puro. Quello stato di grazia che possiamo trovare mentre svolgiamo un’azione per cui ci sentiamo destinati o particolarmente a nostro agio nel farla».

Per E. la parola chiave è conflitto: «non solo conflitto di eserciti guerrieri, fazioni, cugini eccetera. Che sia guerra giusta o ingiusta c’è comunque il conflitto al centro, ci sono la morte, il dolore e la guerra. Però c’è anche il conflitto tra me e me stessa. C’è quella parte di me che dice “segui il tuo dharma”  e quell’altra parte che non capisce nemmeno cosa sia. Io non accetto l’ordine cosmico dell’universo nella mia vita di tutti i giorni. Quindi per me lo spettacolo è sul conflitto globale e personale, tra quello che devi fare e quello che senti di fare, tra la tua vocazione di mammifero e la tua vocazione di essere umano».

Le due parole chiavi per O. sono complessità e rivincita. La complessità «è legata alla prima lettura del testo e riguarda la sua comprensione non solo dal nostro punto di vista, ma dal punto di vista e dalle motivazioni di chi aveva scelto questo testo. Rivincita perché ho capito che c’era una ricerca da fare, che dovevamo fare un percorso. In effetti a un certo punto la complessità ha cominciato a sbrogliarsi, e sento una rivincita in questo. All’inizio sembrava una cosa troppo grande per noi e invece sta arrivando. Finalmente riusciamo a vedere un inizio e una fine».

Anche secondo T. la questione del conflitto interiore è preponderante: «nonostante sembri un paradosso perché lo spettacolo è iper-corale. Però Krishna è un’entità oltre l’esperibile, è un qualcosa che possiamo interpretare anche come una parte di noi stessi. Quindi questo è un dialogo che noi abbiamo continuamente con noi stessi, anche per questioni più semplici rispetto a una guerra vera. Spesso dobbiamo fare una scelta tra rispettare una morale e rispettare le persone che abbiamo intorno. Cos’è giusto?».

Emerge, però, anche la problematicità del testo. In modo corale la Brigata dichiara: «È stato difficile per tutti noi accettare questo testo. Quello che ha mandato alcuni di noi nel panico è stata la lettura iniziale: un dio dice a un popolo di andare in guerra. E noi non volevamo che passasse questo messaggio. Abbiamo voluto almeno accennare a forme di resistenza contemporanee da integrare nel testo per evitare fraintendimenti».

(foto di Nicola Baldazzi)

Due personaggi, centoventi interpreti

Sempre dalla Brigata, M. indica la parola confusione: «non solo per il tema ma anche perché mi sembrava assurdo che per un gruppo grande come il nostro avesse pensato a un dialogo tra due persone. Solo lavorandoci insieme mi sono ricreduta per come questa sfida riuscisse a infilarsi nel concetto di comunità che abbiamo qui. Perché non abbiamo Arjuna che fa le cose solo per sé, anche se sembra questo il succo del testo. Il suo dharma alla fine, è il bene comune». E. estende tale pensiero a una riflessione sul teatro: l’intuizione di Tahar «altera l’individualismo teatrale, perché a teatro l’attore fa la sua parte, si immedesima magari, ma finisce lì. Qui invece arrivi pensando di trovare un teatro e invece trovi una comunità». T. che partecipa allo spettacolo da musicista, dunque “esterno” rispetto al Coro, conferma: «per me ci sono due personaggi in scena. Non ricordo chi dice quale battuta, ma vedo due figure che si parlano e questa secondo me è la potenzialità del teatro di comunità».

Tahar Lamri, creatore della drammaturgia, dunque della proposta del testo sacro attraverso la sua riscrittura e dell’intuizione del “collettivizzare” un dialogo a due, spiega queste sue scelte. La Bhagavadgītā è un testo che non è mai  stato raccontato in Occidente, «Peter Brook aveva fatto il Mahabharata, poema epico di 100000 versi che racchiude in sé Bhagavadgītā, ma nessuno ha mai affrontato quest’ultima da sola. Ѐ più facile rappresentare il poema intero perché ci sono molti personaggi, una storia. Soffermarsi invece su un episodio che si svolge un istante prima di una battaglia tra due soli personaggi… è molto interessante secondo me». Continua parlando della motivazione dietro alla riscrittura: «ho voluto riscrivere il testo con le mie parole. Noi abbiamo un centinaio di attori, i personaggi sono due, è molto difficile attualizzare questo testo, renderlo almeno nella nostra idea… Cioè parlare della guerra vera».

Tahar spiega che le battute vengono divise tra tutti gli attori e le attrici del Coro, di modo che ognuno abbia la sua parte come Arjuna o Krishna. Una cosa era a lui chiara fin dall’inizio: Krishna doveva essere interpretato dai bambini «perché io sono molto affascinato dal Dio cristiano che viene incarnato nella persona più debole e fragile della società, che è Gesù bambino». Poi però, dichiara Lamri: «il lavoro è tutto del regista, dal momento che tra scrittura e scena c’è uno spazio molto grande. Io ho scritto, ma Luigi [Dadina] ha messo in scena questa idea molto complessa». 

Morire a se stesso

In conclusione, a costo di provocare uno slittamento forzato, vorrei che si considerasse ad ampio raggio, più che la “guerra” (concetto scivoloso se ne parliamo confondendo il piano individuale con quello macro) il “conflitto”, come qualcosa che, come il dharma può viaggiare su vari livelli, anche intimi, senza il rischio di risultare far emergere interpretazioni discutibili. Il “conflitto”, in tal senso, non è mancato neanche all’interno del grande gruppo di lavoro dietro al GTLA, proprio sulle questioni di cui sopra. Anche perché questo spettacolo parla di confliggere per arrivare a pacificare noi stessi, di arrivare al nostro dharma.

Credo sia importante concludere questo diario dando la parola a Federica Vicari, organizzatrice a 360° del CISIM e del Grande Teatro, la quale, una sera dopo le prove dichiara il suo dharma: dovere è quello che si declina in scena e fuori. Le questioni mosse dallo spettacolo sembrano risuonare nelle sue parole. Federica sente che il suo dovere sia nei confronti del suo lavoro e ruolo di organizzatrice. Lavoro che durante il lockdown ha lasciato lei e molti lavoratori della cultura e del teatro senza un rimborso, senza un riconoscimento. Neppure in quel caso, infatti, è stata rilevata la dignità di un lavoro che, rispetto ad altri già “legittimati” nell’immaginario che si ha del lavoro, deve costantemente dimostrarsi meritevole di paghe, contrattini, tutele. Infatti, nonostante quello della pandemia sia stato un grande rimosso collettivo sotto diversi aspetti, ad oggi assistiamo a ulteriori gravi mancanze di rispetto e considerazione davanti al mondo della cultura e del teatro. Le recenti (s)valutazioni sulla qualità artistica stilate dal Ministero della Cultura parlano chiaro: la cultura è considerevole di nota solo quando è funzionale al rafforzamento dello status quo. Verrebbe da dire che l’aumento di quella percentuale sulle spese di guerra sia risultato fin troppo evidente non solo nel tentativo di riconversione bellica del settore automotive, ma anche nelle scelte di penalizzazione dei settori, ahinoi oggi meno conflittuali, fino ad ora al sicuro sotto l’ombra dei fondi pubblici. 

Nonostante questo, Federica parla del suo lavoro come di una presa in carico di un ruolo, un dovere, un dharma che lei sente di dovere a se stessa e a chi la circonda. «In questo lavoro ci vuole empatia» e inoltre «L’organizzatrice deve morire ciclicamente a se stessa in vista del risultato» destino che sembra condividere con il senso stesso del settore, con l’imminenza e l’irripetibilità del teatro.

Sarà necessaria, allora, l’individuazione di un qualche dharma per il teatro? Il concetto necessario da accendere oggi, anche nella rilettura di testi sacri come la Bhagavadgītā, potrebbe essere, allora, quello di conflitto, per una giustizia che sia sociale.

Lo spettacolo

Direzione Artistica Luigi Dadina, Lanfranco Vicari

Regia Luigi Dadina       

Aiuto Regia e Collaborazione Artistica Spazio A Teatro: Camilla Berardi, Marco Montanari, Marco Saccomandi 

Drammaturgia Tahar Lamri

Direzione Organizzativa e Logistica Federica Francesca Vicari

Composizione Musiche e Arrangiamenti Francesco Giampaoli

Paroliere Lanfranco Vicari

Coordinamento Musicale Francesco Giampaoli, Enrico Bocchini

Cantanti Jessica Doccioli, Lanfranco Vicari

Scenografia  Nicola Montalbini

Costumi  Federica Francesca Vicari

Ideazione Grafica Massimiliano Benini

Layout Grafico e Illustrazioni Silvia Montanari

Coordinamento Organizzativo Thomas Cangini Bertoli, Albino Nocera, Martina Strada, Francesca Zinzani  

Supporto Organizzativo Hiba Alif, Rachele Benzoni, Carolina Bianchi, Elisabetta Carlini, Heike Coletta, Cinzia Di Genua, Gabriele Fusconi Daniele Lorenzo Gargiulo, Chiara Gaudenzi, Sofia Ghezel, Maria Patrizia Monti, Francesco Parma, Emma Petriccione, Elena Sagripanti, Federica Savorelli, Omar Rashid, Walter Tocco 

Responsabili Tecnici Matteo Rossi, Guido Tronco

Fotografie Nicola Baldazzi

Riprese Video Antropotopia

Ufficio Stampa Iacopo Gardelli

realizzato con la collaborazione di Ravenna Teatro / Albe, Cooperativa Sociale Teranga
realizzato con il contributo di Comune di Ravenna, MIC – Ministero della Cultura
coproduzione CISIM|LODC e Ravenna Festival
in collaborazione con Teatro Alighieri

In Scena Camilla Berardi, Marco Saccomandi e Il Coro del Grande Teatro di Lido Adriano

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