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Vie festival 2019: un viaggio nel teatro e nel mondo

di Altre Velocità

C’è sempre una grande agitazione alla vigilia di un festival di teatro internazionale. Programma alla mano, agenda all’altra mano, si passano in rassegna tutti gli spettacoli e si pianifica la strategia perfetta per vederne il maggior numero possibile. Da venerdì 1 marzo a domenica 10 marzo ha preso vita la quattordicesima edizione di VIE Festival, rassegna di Emilia Romagna Teatro Fondazione incentrata sulla scena contemporanea che, come ogni anno, è riuscita a portare in diverse strutture della regione della regione compagnie e produzioni di varie parti del mondo.

Anche noi della redazione di Bologna Teatri, agenda alla mano, abbiamo allora fatto i nostri piani. Dall’impossibilità di racchiudere in un unico articolo tutte le proposte del festival è nato un prodotto un po’ particolare: tra viaggi in autobus e in macchina, tra spettacoli nazionali ed esteri, tra linguaggi conosciuti e sovratitoli abbiamo redatto una sorta di cronaca-diario che racconta la nostra personale esperienza con VIE.

Venerdì 1 marzo

Imitation of life – Bologna, Arena del Sole

«L’ungherese è una lingua affascinante» mi diceva un’amica, tra una considerazione e l’altra, davanti all’ingresso dell’Arena del Sole al termine di Imitation of Life. Lì per lì non ho dato particolare importanza alla sua affermazione, ma ora mi chiedo quanto questa fosse relativa al linguaggio parlato in Ungheria e quanto, invece, al linguaggio artistico adottato dal regista Kornél Mundruczó. Perché se la lingua ungherese ha un suo fascino che non riesco personalmente a cogliere, l’immagine di un salotto a dimensioni reali che ruota su se stesso mi rimane indiscutibilmente impressa.

Lo spettacolo illumina le contraddizioni della società ungherese dando voce a personaggi che la abitano ai margini, laddove la vita assume i caratteri di una sorda imitazione e la legge una deriva parodistica della giustizia. Una madre Rom viene sfrattata dall’appartamento nel quale ha vissuto una vita intera. Un uomo ungherese si ritrova, dopo troppo tempo, a dover fare i conti con una moralità affossata dalla legge che egli stesso rappresenta. Un ragazzo Rom rifiuta le sue origini, la sua identità si perde nell’anonimato della città, mentre l’omicidio di un giovane con le sue stesse radici etniche si tramuta in un ultimo disperato tentativo di affermazione di sé.

Poi la scena comincia a ruotare su se stessa. Tutto gira, tutto si rovescia, come la moralità di una società e di un’umanità che ha da tempo perso l’equilibrio. Oggetti, mobili, detriti, ricordi di una vita cadono, rotolano, si accumulano a terra, pronti ad accogliere una nuova famiglia. Nulla si distrugge e tutto si trasforma, i ricordi di un’esistenza passata – spezzata dalle leggi dello Stato – sopravvivono al tempo, allo sfratto e alla morte. Ma il ritratto di un bambino rimane, nonostante tutto, al suo posto. Di chi ha perso la propria strada e la propria identità, e nel ricercarla si è macchiato del peggiore dei crimini, sopravvive lo sguardo innocente reso immortale dall’arte.

Torno a casa con la voglia di saperne di più, accendo il computer, mi perdo nelle ricerche su Google e nelle pagine aperte in numerose schede allineate. Il 28 agosto 2017 sul quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung la giornalista Daniele Muscionico definiva entusiasticamente lo spettacolo «eine Naturgewalt». Più che una forza della natura, mi sembra che Mundruczó usi la forza del teatro per descriverne un’altra, indissolubilmente umana.

Valeria Venturelli

Sabato 2 marzo

A Bergman Affair – Modena, Teatro delle Passioni

Sono le cinque del pomeriggio e sono a teatro, precisamente alle Passioni di Modena. I posti in sala non sono numerati ma sembra che l’unica fila libera sia l’ultima in alto: meglio, così si leggono meglio i sottotitoli. Lo spettacolo della compagnia Wild Donkeys, A Bergman Affair, è in francese: si preannunciano due ore molto intense.

Protagonista è Anna, eroina bergmaniana, in continua lotta con se stessa. È innamorata del marito Henrik, che però tradisce con il giovane pastore Tomas. La narrazione inizia con l’incontro della donna con Jacob, suo confessore.

La religione e l’amore sembrano dunque essere i temi centrali, eppure io non ho percepito nessuno dei due. Sarà stato l’orario pomeridiano, gli impegni avuti in quei giorni o il francese, ma io in scena vedevo solo una donna che tradiva il proprio marito. Sarò superficiale? Può essere. L’unica cosa che accendeva la mia attenzione era l’intervento di Serge Nicolaï che muoveva i corpi degli attori come fossero marionette, per lasciar loro esprimere quello che a parole gli era impossibile dire.

Eleonora Poli

Domenica 3 marzo

Ex- que revienten los actores – Cesena, Teatro Bonci

Una scenografia realistica con la sala da pranzo, un divano morbido, le mura gialle e l’illuminazione calda – un ambiente creato appositamente per abbracciare una famiglia. Ahimè, no. La storia che il regista e drammaturgo uruguaiano Gabriel Calderón porta in scena al teatro Bonci di Cesena è caotica, esasperante, quasi irritante. Le loro spezzate relazioni erano disposte su un pentagramma di urla, che ingenuamente legavo al temperamento latino. Mi sbagliavo. Gli attori dovevano esplodere. E noi con loro. Curioso come l’uomo sia capace di passare in un baleno dalla pura comicità a un’intensa tragedia e rimanere ancora incollato alla poltrona.

Quel continuo flusso di urla mi metteva in guardia. Si poteva ancora vivere assieme felici dopo un passato che costantemente minaccia il presente con il dolore e il rimorso? E se potessimo riportarlo nel presente per fare i conti con esso? Il regista lo fa, introducendo una macchina del tempo che evoca addirittura i morti, per poi decomporli come un quadro dada.

Calderón al suo Masterclass ci raccontò una storia divertente a proposito. L’ha chiamata “La zucca che divenne il cosmo”. A una gara di zucche a Buenos Aires venne presentata una zucca gigantesca che subito vinse il primo posto. Questa straordinaria zucca non smise mai di crescere nanche alla fine della fiera. Presto diventò un problema poiché divenne più grande dell’intera città. Molti scienziati si chiesero cosa farne mentre la zucca assumeva le dimensioni dell’Argentina, venne convocato un G8 a Ginevra per l’urgente questione ma non si trovò una soluzione. Nel momento in cui divenne grande quanto la Terra, allora ingegnosamente gli abitanti decisero di trasferirsi su di essa e vissero felici e contenti. Borges a proposito diceva che quanto più proviamo a resistere davanti all’errore, esso cresce e dunque l’unica cosa che dovremmo fare è trasferirsi sull’ errore stesso, poiché con esso non si combatte ma ci si convive.

Jovana Malinarić

Mercoledì 6 marzo

First Love – Bologna, DAMSLab

Non c’è niente come il primo amore. Credo sia così per tutti, e penso anche che ognuno di noi a ripensarci sorride, un po’ forse con dolce malinconia. Oggi ho assistito allo spettacolo First Love, progetto di Marco D’Agostin presentato al VIE Festival. Carica di aspettative e pronta ad avvertire tutte le emozioni che pensavo mi avrebbe suscitato.

Ti posso dire che l’attesa è stata ahimè più interessante dello spettacolo in sé. Sai quando caricano qualcosa di aspettative? Ecco, come ben immaginerete, quando capita questo, c’è sempre qualcosa sotto. Prima di entrare a vedere lo spettacolo dei ragazzi hanno dato a tutti una busta delle lettere, bella, argentata chiusa con un adesivo. Dentro c’erano delle foto e delle linee guida per lo spettacolo. Nell’opuscolo veniva spiegato che la rappresentazione era un omaggio al primo amore di D’Agostin, l’atleta sciistica Stefania Belmondo. Tutti teniamo tra le mani questa busta, affascinati dal romanticismo e dall’originalità della preparazione all’esibizione.

Lo spettacolo si è aperto con D’Agostin che si presenta e inizia a cantare in playback la canzone in sottofondo e a compiere dei gesti molto lenti. Il suo omaggio è stato incentrare lo spettacolo sulla radiocronaca di una gara in cui Stefania Belmondo è arrivata prima. D’Agostin non si è fermato un secondo, imitando per tutto il tempo i movimenti dell’atleta. Mi chiedo, come sarebbe andata se tutta questa performance fosse stata lasciata al solo ausilio del corpo? Chissà.

Caro te, scusami se non ho portato grandi notizie ma sai a volte le cose più semplici sono le più difficili da trasmettere. O forse ognuno di noi decide di ricordare il primo amore in un modo davvero troppo personale. Alla prossima.

Martina Anselmeti

First Love

Joie de vivre – Bologna, Arena del Sole

Corpi sinuosi rompono la perfezione dello sfondo bianco. In Joie de vivre di Simona Bertozzi i danzatori prendono le sembianze della fauna boschiva. Quattro performer vestiti con abiti quotidiani, accompagnati da suoni elettronici e canti tribali, compongono immagini evocative di una vita che non conosciamo ma esiste: quella di piante che si muovono a seconda del tempo, nella gioia della loro esistenza.

Attraverso movimenti ripetuti e incalzanti, come in preda al dominio della natura, gli arti si torcono, utilizzando pose innaturali. I piedi, e in particolare le dita, vengono portate al limite del loro utilizzo: schiacciate, piegate e poi distese, perdono la funzione di perno dell’equilibrio, a favore di un disequilibrio che gli artisti riescono a controllare con maestria, mantenendo leggero il resto del corpo. Incalzate da rumori elettronici, le azioni scaturiscono da un gesto della mano o del busto, fino a diventare sempre più frenetiche e reiterate, coinvolgendo tutto l’organismo. Ogni elemento corporeo è composto da partiture in accordo ma indipendenti dalle altre, in armoniosa combinazione. Obbligando lo sguardo dello spettatore a non assopirsi, restituiscono più visioni frammentarie all’interno di uno stesso movimento. L’accompagnamento musicale è il vero regista dello spettacolo: esattamente come i fenomeni atmosferici agiscono sul regno vegetale, comanda e indirizza i passi performativi.

Due attori – sui cui abiti sono disegnati dei cartelli stradali – introducono l’unico oggetto scenografico presente in scena: un ammasso di tubi di plastica aggrovigliati su se stessi. I ballerini, non instaurano una relazione attiva con questo nuovo fattore, ma subiscono il suo arrivo, ne vengono letteralmente travolti, immischiandosi nella sua matassa. I personaggi vestiti da cartelli stradali non danzano: la donna accompagna alcuni momenti con canti privi di parole, dal suono arcaico; l’uomo utilizza un cono per il traffico come amplificatore per una melodia baritonale, anch’essa priva di materia testuale. Le due presenze, continuando a cullare la danza, entrano e riescono in vari momenti. Come personificazioni della sfera umana, guardano senza vedere, non accorgendosi delle movenze che li circondano.

Joie de vivre è uno spettacolo che lascia lo spettatore incapace di decifrare quello che sta guardando. La danza viene rallentata, asciugata di ogni orpello. Le figure, isolate nel loro esistere, soltanto verso metà dell’opera si incontrano, toccandosi, senza però comunicare realmente. Ogni posizione d’insieme risulta avvenuta per coincidenza, destinata a realizzarsi senza uno scopo preciso; ancora una volta, il riferimento al mondo vegetale e alla sua semplicità, è forte e persistente. Come nelle Myricae di Pascoli, le cose piccole risultano quelle che custodiscono il segreto della vita.

Francesca Lombardi

Fedeli d’Amore – Carpi, Teatro Comunale

È mercoledì 6 marzo e ho fatto 50 km in macchina per arrivare al Teatro Comunale di Carpi. Piazza dei Martiri è deserta, solo la locandina di Fedeli d’Amore, polittico in sette quadri per Dante Alighieri, ultima produzione del Teatro delle Albe, illumina il portico del teatro al centro.

Le luci si spengono, le tende si aprono e la sagoma di Ermanna Montanari si manifesta. Una rete di assi d’acciaio incorniciano la scena. Le sette testimonianze di coloro che hanno assistito alle ultime ore del Sommo si impossessano della voce dell’attrice. La prima a raggiungerci è la personificazione della nebbia: «a’ so in di par tot» ripete costantemente in quel canto dialettale, che si adatta perfettamente a un festival internazionale solcato da diverse lingue. «Sono dappertutto» riprende a dire, seguito da sovra titoli. Un suono acuto di tromba e la caduta di un velo a separare il trombettista (Simone Marzocchi) da Montanari, segnano il passaggio agli Inferi. È il demone della fossa ora a lamentarsi.

La tromba ulula di nuovo. «A’ so ste me. A’ so ste me la su crus» canta, sulla terra, l’asino “trasportatore”. Si esprime solo in dialetto, questa volta non sottotitolato, trasformando un linguaggio “basso e volgare” in uno criptico e destinato a pochi eletti. Dalla mia terza fila, riesco a percepire gli occhi di Ermanna, come se avesse iniziato un dialogo diretto possibile solo tramite quella lingua improvvisamente così personale.

Poi il ritmo diventa incalzante. Ermanna si piega alla forza delle anime che ospita, si agita, scalcia, urla, come a volersi liberare dei testimoni che ha accolto. Le ultime voci si susseguono veloci: il diavoletto del “rabbuffo” inveisce contro il capitalismo; l’Italia cerca di liberarsi della propria identità politica; Antonia, la figlia del poeta, elogia i “Fedeli d’Amore”. Cita l’incontro del padre con Amore «vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno», e il lento consumo della fiamma fino ad arrivare alla morte nella città «dove ‘l Po discende». L’attrice evade dalla “gabbia” metallica e, insieme all’anima del poeta, raggiunge una «Fine che non è una Fine»: all’ascensione dell’anima del Poeta al Paradiso, alla liberazione di Ermanna dalle multiple “possessioni” e alla chiusura del sipario.

Eleonora Poli

Giovedì 7 marzo

True Copy – Vignola, Teatro Ermanno Fabbri

Non so se credere a ciò che ho visto, è stato autentico o solo un abile falso? Già il viaggio in autobus da Bologna a Vignola ha cambiato i miei riferimenti quotidiani, questo spettacolo poi…

È di True Copy dei Berlin che sto parlando, di VIE festival. Gli attori hanno giocato per tutto il tempo sul filo sottile che divide realtà e copia, rovesciandole l’una nell’altra di continuo. Già dall’inizio, con quella storia dell’intervista a Geert Jan Jansen, il falsario arrestato nel 1994. Era un attore con la maschera, si vedeva, ma più raccontava la sua storia e meno importava che fosse o non fosse davvero lui.

Geert ha falsificato per il mercato dell’arte dipinti dei più grandi, è stato arrestato quando l’hanno scoperto, ma poi, rilasciato per mancanza di prove. Le prove c’erano eh, ma c’era anche l’arte che aveva creato. Certo, forse lo stile non era inventato da lui… ma la qualità, quella c’era! Sennò non avrebbe ingannato (o convinto) tutti quegli esperti d’arte!

I Berlin raccontano la sua storia attraverso una sorta di ambiguo “mockumentary”. Non si sa mai quanto ci sia di vero e quanto invece sia romanzato. La scenografia aiuta a confondere le idee. Ci sono queste cornici antiche, un muro di cornici antiche accostate l’una all’altra. All’inizio sembrano semplici dipinti, poi invece diventano schermi che mostrano a mo’ di documentario una riproduzione dello studio di Jansen, ricostruito sul palco, finché alla fine non si rivelano come l’ennesimo gioco di prestigio. La parete di dipinti si apre e dietro non c’è niente. Nessun falso studio, nessun musicista che suona.

Si capiva che lo studio non c’era davvero, le sue dimensioni erano troppo grandi per quel palcoscenico, però, ecco, per un attimo forse me l’ero dimenticato. Il concetto di verità non era, credo, più così importante. È stato strano. Sapevo che non poteva essere, ma allo stesso tempo ci credevo.

Che cosa ho visto proprio non saprei dirlo, ma autentico o no, la qualità, è quella che conta. Almeno così dice Geert, chissà se lo pensano anche i Berlin… E io? Sicuramente non guarderò mai più un’opera d’arte come prima… Ma nemmeno un falso.

Emma Pavan

Venerdì 8 marzo

F. Perdere le cose – Bologna, Arena del Sole

A volte mi capita di perdere le cose, di non sapere più dove le ho lasciate, di essere convinta di averle con me e invece chissà che fine hanno fatto, come le chiavi di casa ad esempio. Oggi invece che, stranamente, le chiavi le avevo con me mi è capitato di trovare una storia.

Attraversando le Vie del teatro mi sono imbattuta nella storia di F. e di coloro i quali tentano di dare una voce a quest’ uomo dal nome puntato. Allo stesso modo con cui la stella da cui prendono il nome illumina l’immenso spazio celeste, i Kepler-452 fanno luce su diverse questioni che non riguardano solo il difficile vissuto e la travagliata esperienza di F. ma soprattutto come quest’ultima possa costituire una duplice riflessione: su ciò che significa vivere in una società colma di controsensi, trappole burocratiche e ostilità verso l’Altro e in che modo l’Altro che loro hanno incontrato in F. possa entrare in scena quando la legge non riconosce a lui di esistere.

F. Perdere le cose è dunque uno spettacolo che indaga e medita sul senso stesso del fare teatro, su come farlo quando il protagonista della storia non può essere presente, ma lo diviene a partire dalla sua “ingombrante assenza”. Ecco che il pubblico può conoscere F. solo attraverso la sua voce registrata ed emessa da grandi casse altoparlanti, la voce di Paola e Nicola che raccontano del loro incontro con F. e di come questo si sia rivelato un motivo per cercare di aggirare la giustizia di una legge ingiusta, perché in fondo possa essere concesso a tutti di smarrire e smarrirsi, senza avere il timore di scomparire nel silenzio.

Giovanna Corigliano

Sabato 9 marzo

I am Europe – Bologna, Arena del Sole

I Am Europe di Falk Richter dipinge, attraverso la commistione di danza, video, narrazione e canto la molteplicità dell’identità europea che, ricalcata idealmente dalla pluralità delle discipline utilizzate, è fluida e sfuggente. Partendo dal concetto di Europa e di cittadinanza consapevole, il regista tedesco sviluppa una riflessione sulla contemporaneità: non solo in termini di nazionalità, ma di sessualità, credo religioso e coscienza politica.

La scenografia, non omogenea, è composta da più punti focali: un tavolo (simile a quello dei bar europei dove è possibile fermarsi a lavorare al computer), cubi di gommapiuma, una gabbia di metallo simile ad una serra. Gli attori interagiscono attivamente con tutti gli elementi durante i diversi momenti dello spettacolo, in cui l’attenzione di volta in volta viene focalizzata su un performer e sulla sua vicenda personale, intrecciata in sé stessa e alle identità degli altri attori – non solo compagnia artistica quindi, ma comunità in cui vivere e confrontarsi.

La quarta parete viene continuamente oltrepassata, creando un contatto diretto con il pubblico – “ah guarda, sono tutti bianchi! Il teatro alla fine non è veramente per tutti” – che, spaesato dalla musica pop e dalle atmosfere inafferrabili, non sa cosa ascoltare, dove guardare, su cosa concentrare la propria attenzione. Il monologo diretto prende forma di testimonianza, attraverso una costruzione dell’identità forte, in cui a parlare non è il performer ma l’individuo. Nell’epoca dei social network, in cui il selfie è diventato la massima rappresentazione del sé, la soggettività diventa il mezzo privilegiato della creazione. La volontà è quella di ricalcare l’esperienza europea. Allo spettatore viene dato un assaggio di che cosa vuol dire sentirsi cittadini dell’Unione, parlare diverse lingue, viaggiare con nel portafoglio soltanto la carta d’identità.

Il problema dello spettacolo è nella visione elitaria che non è riuscito a eludere. Ciò che stiamo vedendo è una rappresentazione di una fetta della società, quella privilegiata di chi ha avuto la possibilità di studiare, viaggiare, prendersi “l’anno sabbatico”. Ma è veramente questa l’Europa? L’immaginario creato non rispecchia tutte le problematicità che la società unitaria implica. Come sostiene Richard Schechner “[…] poiché gli europei sentono che le loro culture sono l’una distinta dall’altra – Francesi, Tedeschi, Spagnoli, Italiani – tensioni continue riguardano il senso di che cosa voglia dire essere europeo.” Questo insanabile conflitto non trova un reale ripensamento nell’opera di Falk Richter, la possibilità di sentirsi cittadini del mondo è ancora indissolubilmente legata alla classe di appartenenza e a quel pezzo di carta semiotico che chiamiamo passaporto.

Francesca Lombardi

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