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(foto di Alex Giuzio)
(foto di Alex Giuzio)

Un diario per l’estate #3. Dai gladiatori romani a ChatGPT

di Altre Velocità

Appunti, pensieri non ancora del tutto formalizzati, suggestioni, ipotesi di discussione a partire dagli spettacoli visti. Una forma aperta, non saggistica, un racconto per frammenti ospitato una volta alla settimana, una scrittura quasi in presa diretta per provare a testimoniare la complessità e diversità delle proposte teatrali del presente.

Muscoli, sudore e bikini. Le palestriti di Simona Bertozzi

Can you tell I’ve been building muscle?

I know I’m tough, but I have to make sure

I can do things you don’t have the guts for

Sometimes, I worry that’s all I’m good for

Issy Wood, Muscle, “If It’s Any Constellation EP”, 2021

Una torsione, i muscoli che si gonfiano, deltoidi e quadricipiti in tensione, glutei tirati, ogni gesto portato al limite, tutta la forza si proietta nel gesto sportivo per raggiungere la performance perfetta, e così il corpo infine cede, cadendo tra spasmi e tremori. Le palestriti è un progetto coreografico della compagnia di Simona Bertozzi, ed è un saggio in quarantacinque minuti di come la ricerca espressiva nella danza contemporanea possa posarsi su basi drammaturgiche appena percepibili eppure scatenare domande profonde.

Cosa è per noi un classico? Questa è la prima questione che mi sono posto mentre i quattro corpi di Arianna Brugiolo, Federica D’Aversa, Paola Drera e Valentina Foschi, hanno cominciato a interagire circondate dal suggestivo colonnato del Chiostro di San Francesco. Un quadrato bianco sporco, pochi giochi di luce, una prossemica sonora che farà scuola. Brugiolo, D’Aversa, Drera, Foschi, entrano una dopo l’altra sul palco come fosse un ring, quattro fisici diversi, quattro rappresentazioni ancestrali delle palestriti. Prima munite di costumi che rimandano all’iconografia ellenica e romana, poi mescolando riferimenti e epoche provocando felici distorsioni temporali.

Ennesimo lascito della cultura greca a quella romana, il ruolo delle palestriti nel mondo sportivo, militare e sociale trovò il suo apice intorno al primo secolo a.C., con la costruzione del Ludus Magnus fortemente voluta da Domiziano. Il Ludus Magnus era una palestra per combattenti, gladiatori e, ovviamente, per le palestriti. Al contrario dei malla-yuddha indiani o dei combattenti di jiaodi cinesi più o meno dello stesso periodo, le palestriti romane non erano solo combattenti, erano atlete altamente specializzate, che secondo il principio dell’aretè greca rappresentavano la summa delle virtù fisiche e morali. Il loro riconoscimento sociale ci è noto per le numerose rappresentazioni, tra cui forse la più celebre è proprio Le palestriti, conosciuta anche come Fanciulle in bikini (per via dei loro completi che ricordano capi ben più moderni), inserita nel complesso musivo della Villa Romana del Casale a Piazza Armerina, una località nei pressi di Enna, in Sicilia, uno dei più straordinari esempi di pavimentazione musiva del IV secolo d.C.. Proprio da questa composizione si è ispirata Simona Bertozzi, riuscendo a evocare un pezzo di storia attraverso una danza imprevedibile e maestosa.

Pugni, lanci, salti, schiacciate, placcaggi, Bertozzi non si limita all’immaginario delle palestriti, lo allarga fino a inglobare il concetto stesso di sforzo sportivo. Ogni movimento coreografico sembra progettato per disinnescare gli stereotipi della danza contemporanea, partendo dalle corse concentriche o dalle prove di elasticità e forza di corpi attorcigliati in tensione, tutti elementi che tornano ma vestiti di una intenzionalità che non hanno niente a che fare con un banale presupposto drammaturgico, ma prova – riuscendoci, almeno per me – a giocare di rima con ogni singolo gesto. Erotico, serioso, ironico, a un certo punto il corpo di danza sembra prendere la forma di uno di quei video esilaranti della nazionale di aerobica americana degli anni ’80, per poi, subito dopo, trasformarsi in un’orgia. Mi soffermo giusto un attimo per porre l’attenzione su un elemento che potrebbe passare inosservato a una prima visione, ovvero la dimensione sonora. Tra ansimi, nenie salmodiate, passi, cadute, improvvise armonizzazioni, il lavoro dietro le quinte di Meike Clarelli (preparatore vocale, musiche) e di Davide Fasulo (musiche) riesce a non sembrare mai scontato o ridondante, mantenendo coerenti i passaggi di stato emotivo nelle varie fasi che si susseguono come sfide mortali dentro un imprevedibile Colosseo.

Non un solo movimento in questo lavoro è mosso da inerzia, Le palestriti racconta la fatica come stimolo, non solo erotico o sportivo, ma come aretè, come ricerca dell’eccellenza fisica e morale. L’unico neo è che difficilmente Le palestriti verrà programmato in uno spazio a lei adatto. Nella cornice del Chiostro, con il palco centrale e tutto il pubblico attorno, la profondità e le diagonali continuamente sfruttate venivano esaltate, temo invece che nella solita fruizione frontale si possano perdere alcune delle intuizioni più felici di questo lavoro.

Giuseppe Di Lorenzo

(foto di Luca Del Pia)

Intelligenza artificiale d’Autore. Trash Test di Andrea Cosentino

Nel frastornante scenario delle decine e decine di opere a tema intelligenza artificiale c’è un grandissimo problema. Ed è il protagonismo dirompente di quello che (pur se potentissimo) rimane un semplice strumento onnipresente nelle nostre vite, ma che dovremmo chiederci se ha davvero bisogno di indossare vistosi cappelli e vestiti di scena per essere messo sui palchi a recitare il ruolo dell’attore principale, a cui tra l’altro vengono affidate sempre le stesse parti. Ed è per questo che sono rimasto molto colpito da Trash Test di Andrea Cosentino, che è stato invece in grado di dar vita ad un’operazione a mio parere molto più interessante.

Reduce da una prima visione il 9 maggio 2025 da Carrozzerie n.o.t. a Roma, ho avuto l’occasione di rivedere Trash Test il 18 luglio nella cornice della 23ª edizione del Kilowatt Festival di Sansepolcro, all’interno della sala del Teatro alla Misericordia, piena fino a scoppiare di critici e addetti ai lavori sicuramente incuriositi dall’improbabile scontro tra la comicità calda e ficcante di Cosentino e il mondo freddo e artefatto delle AI.

Sulla carta è uno spettacolo molto semplice. Cosentino, su un palco spoglio abitato solo da un computer con un microfono appoggiato sopra di esso, uno schermo alla sua destra e qualche oggetto di scena ai suoi piedi (tra cui la sua fidata tromba) si confronta con gli input dati da un’intelligenza artificiale generativa (in questo caso ChatGPT-4) per dare origine a svariate e assurde occasioni di improvvisazione. Il primo scarto è subito evidente: di fronte a una personalità forte come quella di Cosentino, sospesa nella sua peculiare cifra drammaturgica costantemente in bilico tra una semplicità cabarettistica e la costruzione di un intricato surrealismo, le risposte standardizzate e compiacenti della macchina appaiono come timide, sbiadite, di circostanza. L’intelligenza artificiale arranca a entrare nella conversazione, diventa una vittima che subisce le angherie di un relatore molto più bravo di lei, una spalla comica che ha l’unico compito di reggere la candela e illuminare il suo compagno che nel mentre gigioneggia, sperimenta e gode nel farla arrancare, passando con nonchalance da ingarbugliati film d’azione a commedie tradizionali abruzzesi. E ci riesce, anche solo a giudicare dalle risate sempre presenti, imbarazzate e fuori tempo massimo verso la macchina come puntuali e fragorose ogni volta che Cosentino apre bocca per ribattere alla macchina o rivolgersi al pubblico.

Quando non sta digitando al computer infatti, Cosentino si perde nei suoi lunghi monologhi e mantiene di fatto integra la sua identità artistica: in questo, Trash Test si svela non come uno spettacolo che vuole solo parlare di AI ma come il risultato di un autore che vive il suo tempo e lo restituisce quasi accidentalmente, seguendo il suo stile prima di qualsiasi intento didascalico, morale o pedagogico. Non sarà lo spettacolo che vi farà rivalutare Cosentino se lo odiate, o qualcosa per cui uscirete dalla sala con in testa una valanga di nuovi dati scandagliati (confusamente o meno) in una drammaturgia sul tema, e va benissimo così. È un’opera figlia del suo autore, e come tale costruisce una dichiarazione d’intenti precisa, anche più grande di lui: una drammaturgia sull’intelligenza artificiale è possibile finché narra di come questa si integra nei nostri pensieri e ci attraversa non come castello teorico di dubbi e possibilità, ma come forma di potenziamento e confronto di ciò che avevamo già da offrire. Solo così l’umanità emerge davvero non come forza ribelle o per contrasto, ma nella sua forma più pura di adattamento, confronto, pensiero critico. Continuare a parlare e agire quindi, ma non come una macchina la cui unica preoccupazione è restituire immediatamente quando viene sollecitata da uno stimolo. Che forse, prima di restituire, dovremmo concentrarci su cosa prendiamo in prestito.

Vincenzo “Notta” Riccardi

(foto di Luca Del Pia)

Gli spettacoli

Le palestriti di Simona Bertozzi; con Arianna Brugiolo, Federica D’Aversa, Paola Drera, Valentina Foschi; preparazione vocale Meike Clarelli; musica originale Meike Clarelli, Davide Fasulo; produzione Nexus Factory

Trash Test di e con Andrea Cosentino; aiuto regia e drammaturgia Andrea Milano; consulenza artistica Margherita Mase; disegno luci Massimo Galardini; produzione Teatro Metastasio di Prato; coordinamento tecnico all’allestimento Marco Serafino; assistente all’allestimento Giulia Giardi; produzione Camilla Borraccino e Francesca Bettalli; ufficio stampa Cristina Roncucci

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