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Teatro giovane e proiezioni adulte. Un commento su Scenario Festival

di Giuseppe Di Lorenzo

Se l’individualismo è davvero il grande male della contemporaneità allora nella sua sintomatologia avrà certamente un ruolo di rilievo l’autobiografismo, un prodotto culturale naturalmente poco ambizioso, stretto nell’imbuto dell’esperienza. Ma siamo così certi che l’individualismo sia sempre in antitesi con l’altruismo? E quando invece l’autobiografismo è un sintomo del malessere del nostro sistema teatrale, che inibisce la nascita di compagnie e facilita percorsi individuali, economicamente più sostenibili? E se questo teatro autobiografico, autoriflessivo, autoconsapevole, semplicemente non fosse quello che ci aspettavamo, quello che per abitudine proiettiamo sui giovani, portatori a loro discapito delle istanze rivoluzionarie delle generazioni precedenti? In tal caso allora dovremmo abbassare la guardia dei nostri (pre)giudizi e cominciare a mappare questa cifra, capire dove ci vuole condurre, e perché.

In questa sesta edizione di Scenario Festival, avvenuta tra le mura del DAMSlab e del Cassero di Bologna (2, 3, 4 settembre), ho provato a mettermi in ascolto, cercando di scovare un tracciato che facesse tesoro delle interviste che abbiamo fatto qui ad Altre Velocità sulla nuova generazione a teatro (Chi l’ha vista?) passando per i festival under 30 visionati in questi anni. Cristina Valenti, Presidente e Direttrice del Premio Scenario, nonché docente di Discipline dello Spettacolo all’Università di Bologna, ha coniato questa edizione del festival realizzando una giuria che riflettesse il lungo percorso di Scenario nelle sue diciannove edizioni (Davide Villa, Giulia Guerra, Fabiana Iacozzilli). Si è voluto puntare su uno sguardo che esaltasse un principio di curiosità e di sensibilità, che non fosse rivolto a un vago concetto di “nuovo”, quanto di prospettiva a lungo termine. In aggiunta ai due premi ben noti, ovvero il Premio Scenario e il Premio Scenario Periferie, è nata una collaborazione con il Teatro Metastasio di Prato, che ha avuto la possibilità di scegliere quale spettacolo sostenere economicamente per poi inserirlo nell’attuale programmazione (anonimasequestri di Leonardo Tomasi, vincitore del Premio Scenario 2023). I quattro lavori selezionati dalla giuria hanno anche ricevuto in omaggio un abbonamento annuale a Hystrio, nell’ottica di cucire un dialogo tra critica e nuove generazioni, un dialogo che, almeno per una volta, ho deciso di guardare dall’esterno, provando a non intercedere (troppo) col giudizio.

Proprio in tal senso dei dodici spettacoli presentati in forma di studio o di sintesi, in questa edizione non ho intenzione di misurarne gli esisti, poiché ancora in fase di perfezionamento, m’interessa tuttavia scoprirne le intenzioni. Vi premetto fin da adesso che sarebbe inutile sforzare lo sguardo per focalizzare una comunione d’intenti o di stile (questione ampiamente coperta su Chi l’ha vista?), ma in questa frammentazione sempre più evidente si stagliano temi, tensioni, che mettono in luce limiti immaginativi e nuove frontiere. Immergendosi in lavori come La costanza della mia vita (Pietro Giannini, selezionato dalla giuria), Luisa (Valentina Del Mas, già vincitrice di Scenario Infanzia nel 2017, ora Premio Scenario Periferie 2023), SS16 (Debora “Binju” Binci), Due – Canto di balene per pinguini soli (Compagnia Banicolà) e Pinocchio mangia spaghetti alla bolognese (Collettivo Crisi Collettiva) diventa lapalissiano come l’autobiografismo non sia considerato nell’ottica di un furbo escamotage per affrontare restrizioni produttive sempre più opprimenti, ma una consapevole scelta prospettica, spesso politica. Tramite il proprio punto di vista si denuncia uno spicchio di alienazione sperando di suscitare nell’altro il riconoscimento, partendo da quel disagio personale per costruire un senso di comunità col pubblico. Un teatro emotivo e di conseguenza civile. Proprio in questa declinazione si pone lo studio presentato da Collettivo Crisi Collettiva, compagnia ora di stanza a Crevalcore, che ha portato in scena in modo surreale il Moloch bolognese, partendo dalle inquietudini e dalle testimonianze reali di chi, come loro, quella città la vive o l’ha vissuta.

Pinocchio mangia spaghetti alla bolognese descrive la vita a Bologna come un Monopoli nichilista e spaesante, in cui perfino le scritte sui muri denunciano un sentimento di ininfluenza: «Io non pretendo però auspico». Sebbene la drammaturgia soffra una certa dispersione il messaggio è piuttosto chiaro. Bologna è il simbolo delle promesse non mantenute, dei percorsi fallimentari, delle nevrosi contemporanee. Lo sviluppo di ansie patologiche e l’aumento nell’uso di psicofarmaci, che pigramente l’informazione vuol far coincidere con le attuali dinamiche economiche, sono il lascito di un futuro che non è mai accaduto, che si è irresponsabilmente continuato a proiettare mentre nella realtà lo si smontava pezzo per pezzo. Si chiede ai giovani di performare carriere lavorative irrealizzabili, figlie di un mercato del lavoro collassato da tempo, in un gioco al massacro dove non vince il più forte, ma chi ha l’intelligenza di emigrare prima. Sicuramente le dinamiche e i temi affrontati in questo spettacolo sorgono anche come derivazione di una scena teatrale bolognese molto auto-riferita (sono chiare le influenze del teatro di Kepler-452), ma uscendo fuori dalle invettive politiche, l’autobiografia viene comunque utilizzata come uno strumento d’indagine interiore prima ancora che di confronto col reale.

In contrapposizione a questo tipo di poetica vi è una scrittura che parte dal sé per attraversare l’altro. Luisa è una coreografia complessa e stratificata quanto immediata nelle sue conseguenze narrative. Valentina Dal Mas interpreta, danzando, una donna che ha realmente conosciuto in una cooperativa sociale che si occupa di ospitare e recuperare persone emarginate. Luisa dunque è reale, ma viene liberata grazie al corpo performativo della danzatrice da ogni vincolo di realismo, riuscendo a muoversi come non avrebbe mai potuto, guidandoci in questa malinconica emancipazione dai nostri limiti. Ne emerge una storia tragica ma colorata dalla gioia della vita, probabilmente accentuando un po’ troppo i toni drammatici, ma lasciando comunque esterrefatti dal coinvolgimento. Non è un personaggio quello interpretato da Dal Mas, è una prassi, è prendersi cura di una mancanza generando un atto artistico. Anche questo è un processo autobiografico, ma dagli esiti molto imprevedibili. Che sia uno sguardo verso l’altro o verso di sé, non c’è mai davvero attrito, non c’è mai l’urgenza di uno scontro, questo teatro giovanile sembra mettere in scena una resa pacifica nei confronti della realtà, tra pragmatismo e istinto di sopravvivenza.

Mi pare evidente che questa generazione che vive sulle macerie degli errori delle precedenti stia reagendo alla mancanza di orizzonti futuribili riconoscendosi tra di loro. In una sorta di reazione adattiva in cui la tribù degli oppressori è rappresentata dagli adulti e dagli anziani. Per la prima volta nella storia i giovani sono circondati e in netta minoranza, e così anche la loro forza per imprimere un cambiamento è drasticamente diminuita. È facile dimenticarselo, che di ragazzi e ragazze a giro ce ne sono ben poche. Non è quindi un caso che un’altra tensione emersa con forza nei tre giorni del festival è quella dell’indifferenza e dell’irrilevanza, spesso in rima l’una con l’altra. Facendo velocemente qualche esempio: in anonimasequestri la tradizione sarda si mescola con i suoi stereotipi lasciando un senso di inadeguatezza e smarrimento identitario, nel cercare la “sardità”, infatti, rischiamo di perdere le individualità che la compongono, livellando tutto verso la genericità. Parallelamente nella mostra delle atrocità di O®4 – suoni dal remoto attuale, si viene trascinati dalle aspettative della comunità, mettendo in discussione perfino la veridicità dell’esperienza, effimeri come un NTF, prodotti usa e getta, in un flusso di parole alla Uoki Toki che tramortisce e, di nuovo, disorienta, lasciandoci da soli in una discoteca labirinto dalla quale non può uscire. In Tre voci (di Tilia Auser, ispirato al radiodramma omonimo di Sylvia Plath, tra i quattro spettacoli segnalati dalla giuria) una giovane ragazza contempla tre diversi finali per la sua storia, i dolori esistenziali e fisici della sua gravidanza si propagano elettricamente dalle membra fino allo spazio circostante, rappresentati dagli affilati feedback di una chitarra elettrica (Riccardo F. Scuccimarra), anche lei è da sola a compiere le sue scelte, sebbene abbia il destino in mano è come il gatto di Schrödinger: in un perenne stato di indeterminatezza. Infine arriviamo a Banned – Tutorial per Boomer (Marco Montecatino) in cui le IA ci sostituiscono addirittura nella sfera sessuale, rendendoci spettatori della nostra stessa realtà: dai 15 minuti di celebrità a un’intera esistenza nell’indifferente virtuale.

Oggi i giovani artisti troppo spesso si trovano di fronte ad un bivio, cioè vivere quotidianamente ai margini di una società improduttiva, percependo come accessoria la propria rilevanza nella collettività, e chiedendosi quale sia il ruolo che dovrebbero svolgere e se effettivamente ci sia bisogno delle loro professionalità. Oppure semplicemente accettare di essere scarti culturali senza identità, una generazione apolide. Se quindi è vero che le nuove drammaturgie, così come le pratiche espresse in questi nuovi lavori, raramente cercano il confronto ma tendono a riversarsi su se stesse, c’è anche da rilevare come propongano delle urgenze che talvolta si traducono in approcci peculiari. Penso alla messa in scena visionaria di Allontanarsi dalla linea gialla, del collettivo napoletano La Cumana, un malinconico incubo alla Harmony Korine, grottesco quanto umano, in cui i temi del cambiamento climatico e dell’irrilevanza delle nostre azioni viene trattato con un feroce piglio politico, che passa però da un’ellissi poetica che investe tutto, dalla recitazione sopra le righe ai costumi (così pervasivi e significanti, un ottimo lavoro di Rachele Nuzzo), arrivando ai pochi elementi scenici che riuscivano però a donare più piani di profondità arricchendo la prossemica. Altrettanto evocativo ‘E Zzimmare dei RI.TE.NA Teatro, con ben cinque attori in scena, che al netto di un crescendo un po’ ripido (sicuramente dovuto al poco tempo disponibile per presentare il progetto) rappresenta le atroci conseguenze sociali dell’indifferenza e dell’irrilevanza, scatenando un’ecatombe che consumerà un’intera famiglia già ai bordi delle periferie.

E allora, provando davvero a tracciare una linea che vada ben oltre Scenario, partendo a ritroso da questa edizione e toccando eventi simili nella nostra penisola, mi pare evidente che questa generazione, apparentemente frammentata e individualista, sia invece una specie di tribù in via d’estinzione, un ultimo guizzo prima che le cause irreparabili scatenate da eventi precedenti ne inghiottano ogni speranza. Il loro linguaggio è quello del web, superficialmente incoerente, al quale soggiace una profondità inedita che necessita di un cambio di linguaggio per essere pienamente compresa. Siamo infastiditi perché non campiamo, insofferenti perché ciò che guardiamo non rispecchia ciò che avremmo voluto vedere. Non è che forse stiamo ancora proiettando un altro futuro addosso ai giovani? E non è forse il loro ruolo quello di ribellarsi alle nostre proiezioni, facendo l’esatto contrario di quello che vorremo per loro?

(tutte le immagini dal sito di Scenario Festival)

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