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La morte in prima fila. Appunti sul futuro del teatro

di Gianni Farina

Adesso e poco fa

Un recente stimolo di Laura Palmieri mi ha indotto a rileggere la definizione del vocabolo “prova”. Nonostante stessi cercando ben altro (speravo di perdermi tra declinazioni più esotiche e impreviste), mi sono soffermato sull’accezione inerente al teatro. Dice il vocabolario che la prova, nel linguaggio dello spettacolo, è il lavoro svolto in privato per prepararsi alla rappresentazione che si darà in pubblico. Niente di nuovo, se non la semplice constatazione che a questa dimesione privata siamo oggi confinati per decreto e la rappresentazione pubblica ci è negata fino a data imprecisata. Strategie di distanziamento a parte – che spero possano stimolare presto nuove forme e nuovi sguardi – l’atto finale del nostro operato nell’accezione prossemica di condivisione di uno spazio ci è ora impedito, ma questo divieto potrebbe trasformarsi in benefica occasione. Sono d’accordo con chi afferma che non tutte le novità conducono necessariamente verso elettrizzanti cambiamenti, che non vogliamo e non dobbiamo vedere il fato che ci sorride dietro ogni cataclisma, ma forse questa volta un atto di fiducia potrebbe davvero rinnovare la nostra produzione.

Tra un anno o due

Se per un anno i teatri dovessero stazionare nell’obbligo o nell’incentivo alla chiusura, ma piccoli gruppi di persone – come un manipolo di attori in prova – potessero riunirsi per lavorare insieme, avremmo l’opportunità di dedicarci ai nuovi progetti con tempistiche che da qualche decennio ci sono precluse. Abbiamo ribadito più volte che la sovrapproduzione a cui tendono l’attuale ordinamento e gli orizzonti progettuali degli operatori del settore ci impedisce di creare progetti con la propedeutica e la cura per il dettaglio di cui sentiamo l’esigenza. Anche qui non scopro niente di nuovo, ma non si legge mai nel caotico dibattito online la semplicissima considerazione che oggi abbiamo l’occasione – o forse l’obbligo – di lavorare per un anno intero sui nuovi progetti e di gettare le basi per una stagione eccezionale. Quella del 2021/2022, o ancora meglio quella successiva, potrebbe essere davvero la stagione della rinascita del teatro, potremmo veramente assistere al debutto di una straordinaria successione di capolavori.

Per concretizzare questa fantasticheria dobbiamo fare i conti con un grande ostacolo: l’ingrediente più difficile da conquistare è la fiducia della comunità nei confronti del nostro operato. Io so per esperienza diretta che i teatranti sono affamati e ambiziosi, sono lavoratori affidabili e instancabili perché mirabilmente dipendenti dagli stimoli che le loro opere riescono a generare nel panorama culturale. Io so che posso fidarmi, sono assolutamente certo che tutti noi daremmo il massimo per creare una o più performance al meglio delle nostre possibilità in questo tempo dilatato. Come convincere il resto dei contribuenti che non passeremmo un anno di ferie a loro spese? Stiamo parlando del solito “zero virgola” della ricchezza pubblica, una cifra insignificante per le tasche degli italiani anche in un momento di magra come questo, ma comunque è difficile che un lavoratore incastrato a una mansione che detesta possa capire che noi non abuseremmo dell’occasione, pur non avendo l’obbligo di testimoniare e comprovare subito il nostro operato. Tutto sommato si tratta solo di questo: chiedere un anno o due di tempo, e prima o poi una restituzione ci sarà.

Tra dieci o vent’anni

Da quanto ho capito è possibile, per non dire molto probabile, che continueremo a fare i conti con questa e altre epidemie finché non avremo modificato radicalmente la nostra relazione con l’ambiente, l’economia e la distribuzione delle risorse. È assai plausibile che in futuro si ricorrerà spesso a confinamenti come quello che stiamo vivendo, alternati a momenti di compresenza e condivisione del nostro respiro per giungere gradualmente alla cosidetta immunità di gregge (attinente di volta in volta all’epidemia del momento: la moda nel mondo dei virus è più convulsa della nostra, che sta finalmente tirando le cuoia).

Immagino, mi illudo, temo un teatro che fra dieci anni sarà investito della responsabilità di organizzare i momenti deputati alla diffusione del contagio; Gerardo Guccini ha parlato ai microfoni di Altre Velocità preannunciando «una festa» a conclusione dell’attuale lockdown, ma se questa costrizione si ripeterà molte volte potremmo assistere alla rinascita di un teatro rituale in cui si manifesta il conflitto tra la catarsi e la contaminazione, uno scontro risolto nella tracotanza del sacrificio. Gli spettatori giungono nel luogo deputato (quale? è un capitolo a parte) per partecipare al nuovo ditirambo; un aberrante desiderio di promiscuità e mescolanza li accomuna, il dovere di una contaminazione tragica – caprina, in favore del gregge – li unisce, la consapevolezza del rischio che stanno correndo li rende ebbri e li pone nella condizione privilegiata per assistere con il massimo coinvolgimento al sacrificio degli attori e di loro stessi.

Immagino, pavento, auspico due o tre giornate (o un altro numero indicato dalla comunità scientifica) in cui si dorme e si mangia e si attraversa insieme l’atto performativo e infettivo, che culminerà con la danza e con la musica; immagino che la certezza della presenza della morte tra i partecipanti possa stimolare l’adrenalina necessaria alla danza senza il bisogno di riccorrere a droga e alcool, anche se questi saranno ovviamente tollerati. Ogni città, ogni piccolo paese dovrà equipaggiarsi di artisti-epidemiologi che organizzeranno il rituale di contaminazione programmata, tutti insieme, in tutte le città contemporaneamente. Esperti virologi indicheranno un numero massimo e un numero minimo di spettatori, in modo da assicurare la giusta dose di diffusione del virus, ma non ci sarà bisogno di obbligare nessuno a partecipare, i biglietti gratuiti andranno a ruba (ricordiamoci di riservarne uno per la morte, in prima fila).

Per il resto dell’anno il mondo ricadrà nel cupo confino e i lavoratori dello spettacolo dovranno ricominciare a prepararsi a questo evento, che avrà luogo ogni equinozio o ogni solstizio, in base all’andamento dei contagi; parallelamente chi lo desidera tenterà esperimenti di restituzione teatrale che includono il distanziamento sociale e, pur garantendo la massima libertà espressiva, tutti gli artisti saranno invitati a confrontarsi con le tematiche più importanti: far sì che tutto questo finisca prima possibile, disinnescarci, evolverci più rapidamente possibile verso l’homo honestus.

Tra un paio di secoli

Dal momento che l’umanità non impara mai nessuna lezione dalla storia e considerando che l’ottusità è il nostro tratto distintivo, tra cento o duecento anni le poche città superstiti vivranno ancora uno stato di confino e gli attori saranno i detentori di una tradizione sapienziale antica e segreta che li restituirà alla loro origine sciamanica; questo arcano ascendente gli consentirà di manipolare a piacimento l’andamento della borsa e gli algoritmi del Fus.

Di questi e altri temi parleremo lunedì 27 aprile alle ore 17 durante “Il futuro non viene da sé. Assemblea aperta dei teatri e della danza” (discussione aperta a chiunque voglia connettersi tramite piattaforma di videoconferenza o live streaming, leggi i dettagli »)

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