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Esserci o non esserci. Resoconto dal Festival dello spettatore 2021

di Giuseppe Di Lorenzo

La sesta edizione del Festival dello Spettatore di Arezzo è stata caratterizzata da una notevole serie di convegni e interventi, che è mia intenzione restituire in modo completo per quanto riguarda la poliedricità delle idee, concentrandomi sui punti principali di ogni relatore e sperando di riuscire a riportare la varietà di punti di vista che hanno tentato di dipingere lo stato intellettuale/emotivo del teatro italiano post-pandemico in un’unica tela, non sempre coerente, ma viva e ragionante.
Il Festival dello Spettatore cresce a ogni edizione e di conseguenza anche le aspettative degli operatori, quest’anno concentrate su una programmazione che ha puntato moltissimo sul pubblico giovane e giovanissimo, magari senza uno spettacolo di grido come una prima dal peso internazionale, ma con una qualità media che cerca di venire incontro a pubblici differenti sia di nicchia (vedi l’ultimo brillante lavoro di Fabrizio Pallara, Nel mezzo dell’Inferno, che abbiamo recensito qui), sia di intere famiglie che hanno preso d’assalto i teatri della città. Quello che segue a questa precipitosa introduzione è il resoconto di quanto ho avuto modo di ascoltare nelle tre giornate deputate agli incontri (20, 21 e 22 ottobre 2021).

Quali prospettive per il rapporto tra scuola e spettacolo dal vivo nelle pratiche del fare e del vedere

Durante la prima e propedeutica tavola rotonda del festival, intitolata “Fare e vedere teatro a scuola nell’era-post pandemica“, si è parlato del rapporto tra scuola e teatro, una delle prospettive più fertili del Festival dello Spettatore, da sempre legato alle fasce più giovani del territorio aretino che è peraltro impreziosito da un liceo teatrale e da una densità di sale davvero inusuale. Sebbene sia anche stata una delle edizioni con la maggiore densità di spettacoli per i ragazzi e i bambini, questa tavola rotonda ha avuto come ruolo principale l’onere di anticipare i due temi cardine di questa edizione, ovvero il tentativo di rispondere alle domande poste lo scorso anno sul digitale e la sostenibilità della cultura. E così, freschi del successo dello spettacolo della matinée (Bambini all’Inferno di Renzo Boldrini, con un pirotecnico Tommaso Taddei), siamo pronti ad accogliere questo breve spazio di confronto sulla scuola, tenuto in una piccola sala del Cinema Eden.

Il primo intervento di Giorgio Testa (Casa dello spettatore) è incentrato sul linguaggio. Consapevole che non esista alcuna “tabula rasa” nella mente dei bambini, Testa sostiene con forza che occorra assimilare da piccoli le grammatiche del teatro, così che le pratiche del «fare» e del «vedere» s’innestino immediatamente su un piano di consapevolezza che il relatore ritiene fondamentale per lo sviluppo successivo. È un’idea di teatro che costruisce non solo il suo pubblico del futuro, ma anche una comunità più consapevole dei linguaggi spettacolari (che comunque esistono ben al di fuori dei palcoscenici).

Segue l’intervento di Chiara Meozzi, insegnante al Liceo Teatrale “Colonna” di Arezzo, in cui al centro c’è l’esperienza della professoressa con i suoi alunni, stanchi della sovraesposizione agli schermi e pronti a confrontarsi col teatro dal vivo, il quale però deve anche venire incontro alle loro nuove necessità, ai loro nuovi sguardi e riferimenti. In questo intervento si auspica un teatro più attento al dialogo, meno cattedratico e pronto ad ascoltare le esigenze del suo pubblico, anche se “immaturo”.

Con una nota di sana polemica, Renzo Boldrini (RAT – Teatro fra le generazioni) afferma una verità non troppo condivisa, ovvero l’inesistente distanza tra il teatro-così-detto e il teatro ragazzi, spesso bistrattato dalla critica così come dalle istituzioni. Legandosi all’intervento precedente, Boldrini afferma che il teatro secondo lui assimila i linguaggi, è di per sé contaminato da essi e nei nuovi contesti transmediali magari può cambiare la semantica (video-teatro), ma la sostanza rimane la stessa. Di queste etichette, come “teatro digitale” o “teatro virtuale”, non si può dar conto all’artista, quanto all’archivista.

Boldrini anticipa anche l’intervento di Fabrizio Trisciani (ilSonar.it), descrivendo la piattaforma di Straligut Teatro come un sito che non si limita a mettere in contatto domanda e offerta nel mondo della produzione teatrale, ma come vero e proprio veicolo per i dialoghi dei «processi soggiacenti». In tal senso Trisciani ci da un’impressione della funzione di Sonar come mezzo di contatto anche col pubblico potenziale da quando, proprio l’anno scorso, annunciò l’apertura del servizio streaming nativo proprio su Sonar. Sono stati ben 14.000 gli alunni ad avere usufruito del servizio ideato da Straligut col sostegno di diverse realtà della Rete Teatrale Aretina, mostrando come questa rete stia crescendo e contaminando altri settori, come quello della distribuzione e della pedagogia teatrale.

In chiusura Ilaria Fabbri, responsabile dello spettacolo dal vivo per la Regione Toscana, presente in sostituzione al presidente della Regione Eugenio Giani, ricorda quanto la televisione sia debitrice del teatro italiano, e che i moderni linguaggi digitali siano funzionali esclusivamente come sostegno temporaneo, che quindi nulla hanno a che spartire con i linguaggi della spettacolarità dal vivo.

Spettacolo dal vivo e linguaggi digitali: un nuovo patto spettatoriale?

Le premesse della prima giornata studi, intitolata “Spettacolo dal vivo e linguaggi digitali: un nuovo patto spettatoriale?” e coordinata e moderata dal presidente della Rete Teatrale Aretina Massimo Ferri, si pongono in diretta continuità con le questioni sollevate durante la scorsa edizione del Festival dello Spettatore. Cosa ha significato il 2020 per il teatro? Quale sarà la sua eredità nello sviluppo dei suoi linguaggi? È necessario ridefinire il patto artista-spettatore? E in tutto questo dove si cela il nuovo pubblico e come si articolerà la distribuzione dei prodotti teatrali?

Il primo intervento è del professore Antonio Pizzo dell’Università di Torino, ormai un ospite abituale della kermesse aretina. Secondo Pizzo, ancorarci alla domanda «ma questo è vero teatro?» ci limita inutilmente (e ideologicamente) nel campo dell’analisi, laddove la premessa è sempre quella della relazione necessaria tra corpo (attoriale) e spettatore. Catalogare, etichettare, trovare per forza definizioni che limitino i confini di queste urgenze, secondo Pizzo, è un’attività puramente accademica che poco a che fare con i problemi quotidiani di questo fragile teatro. Semmai, afferma Pizzo, bisogna innanzitutto capire questo nuovo spettatore digitale, analizzarne le aspettative, riflettere sulla sua esperienza. L’estetica della produzione, che secondo il professore ha creato una vera e propria «mitologia dell’evento», sta mettendo in secondo piano la fruizione del pubblico, mentre sul suo «godimento» andrebbero mossi quegli sforzi anche normativi per permettere al teatro di rialzarsi ancora una volta.

Dall’Università di Urbino, la professoressa associata di sociologia dei processi culturali e comunicativi Laura Gemini incentra il proprio intervento sul concetto di «liveness». Per Gemini il contesto aumentato attorno a quella che lei definisce come «continuità digitale» è centrale nella comprensione dei linguaggi mediali contemporanei (Gemini cita, in tal senso, il grande successo negli ultimi anni dei podcast, quasi una riedizione di quanto accaduto negli anni ’70 con le radio private dopo la liberalizzazione del 1976). Se esiste certamente un pubblico che freme per tornare allo spettacolo dal vivo, afferma la docente, ne esiste un altro che sente ancora la necessità del digitale, e forse ne avrà bisogno per molto tempo. A questa esigenza bisognerà andare incontro migliorando la relazione col pubblico, creando prodotti ad hoc, producendo foyer digitali visitabili tramite la realtà virtuale che rielaborino il concetto di interazione tra gioco e illusione (argomento molto caro a Mark Zuckerberg con lo sviluppo di Meta).

Per gli “Spettatori erranti” anche quest’anno prende parola Sara Nocciolini, che ricorda le sue grandi perplessità durante l’intervento della scorsa edizione (molto legato all’esperienza di Segnali d’allarme – La mia battaglia VR, spettacolo scritto da Elio Germano e Chiara Lagani) aprendosi però alle sorprese positive e citando in particolare Genoma scenico di Nicola Galli. In Nocciolini resta viva invece la convinzione che lo spettacolo davanti a uno schermo sia comunque un’esperienza passiva, inerte, infeconda, laddove invece il teatro è coinvolgimento fin dalla fila per i biglietti, ed è anche condivisione di un evento, interazione attiva tra spettatori.

Sono intervenuti anche Fabrizio Pallara e Alessandro Passoni, presenti al festival con il loro Nel mezzo dell’Inferno. Pallara segue quando detto da Pizzo sulle etichette come “teatro digitale”: per quanto gli riguarda siamo nel campo dell’ibridazione, dove i linguaggi del teatro si mescolano al cinema e al videogioco senza soluzione di continuità, un’accelerazione necessaria al di là dello stato emergenziale. Passoni invece vede nella realtà virtuale un medium definitivo, in cui grazie ai modelli 3D si può effettivamente fare un’esperienza immersiva (di tutti i sensi e non solo della vista): «I media non si uccidono a vicenda, ma si contaminano a vicenda», conclude Passoni, affermando infine che l’evoluzione in corso, non solo tecnologica ma anche biologica e intellettuale, è una mutazione “cronenberghiana”, meno drastica e drammatica quanto ludica e con un grande potenziale immersivo.

Seguono tre testimonianze da altrettanti progetti per le Residenze digitali 2021. Margherita Landi e Agnese Lanza (coreografe e danzatrici) parlano di realtà virtuale come processo di trasmissione coreografica in merito al loro ultimo lavoro Dealing with absence: anche per loro la contaminazione è un linguaggio necessario (nello specifico caso dello spettacolo per le Residenze digitali, l’ibridazione è col cinema) e sostengono anche tutta la dimensione aumentata della «continuità digitale» citata da Gemini. Per il loro ultimo progetto hanno infatti utilizzato Instagram come una sorta di “diario di bordo”, identificando il proprio lavoro come un’«opera video» che interagisce con lo spettatore attraverso un servizio di «delivery coreografico».
Dal collettivo Jan Voxel, la coreografa danzatrice Lidia Zanelli partecipa al convegno con una breve riflessione su The Critters Room#experience, progetto che parte dallo studio delle polveri sottili ed è mutato nella creazione di una web app che si pone sia come un utile archivio per il collettivo, sia al tempo stesso come un vero e proprio luogo d’incontro per creare una comunità che, nelle loro intenzioni, possa affrontare consapevolmente questioni derivanti dall’antropocene (anche attraverso una precisa riflessione ideologica).
Provocatorio e sintetico l’intervento di Mara Oscar Cassiani, altra artista selezionata alle Residenze digitali per il Teatro della Tosse di Genova: Cassiani mette alla prova la nostra capacità di leggere le grammatiche dei meme, dei meta-riferimenti a essi, di come certi gesti e certe “coreografie”, siano parte integrante di un nuovo modo d’intendere lo spazio (virtuale) nel quale, lo si voglia o meno, ci troveremo sempre di più a vivere (i riferimenti sembrano spaziare da Twitch a Reddit). Oltre al gender gap, afferma Cassiani, c’è anche un grosso generation gap tra operatori e artisti digitali, che crea non pochi problemi quando c’è bisogno di raccontare queste opere transmediali.

Prende il microfono Simone Martini di Kanterstrasse, ricogliendo il tema delle categorie aprioristiche attraverso il loro OZ, progetto che non contemplava né contempla tutt’ora una definizione specifica, se non quella molto generica di «opera digitale». L’intervento di Martini mette in luce parte dello sguardo che il Festival dello Spettatore sta cercando di far emergere, ovvero di una vera e propria nascita di un nuovo modo di pensare e fare teatro: se è vero che il teatro da sempre è un divoratore di tecnologie e linguaggi che ne riutilizza la tecnica per le sue necessità, afferma Martini, nel passaggio digitale sembra che gli idiomi di riferimento non siano così assimilabili, e il risultato è, come già detto da altri relatori, un «ibrido», una nuova sostanza della quale però non è compito dell’artista fare la catalogazione, e forse nemmeno del critico, ma semmai dello storico del teatro.

Di nuovo di ibridazione, stavolta però verso l’animazione cinematografica, ci parla Mariasole Brusa (marionettista, drammaturga e performer per Coppelia Theatre), spostando l’ambito della discussione sull’identità digitale dei bambini. In questo senso il teatro digitale diventa un linguaggio propedeutico alla prevenzione del cyber-bullismo, è uno strumento capace di farti mettere nei panni dell’altro sensibilmente (come nel «gender swapping»), è un teatro talmente consapevole dei linguaggi digitali che li utilizza per ragionare non sulle sue forme ma sulle potenzialità in termini anche di introspezione. Alcune delle considerazioni di Brusa sembrano evocare la questione dell’avatar e dell’avatāra (si veda Teatro e videogiochi. Dall’avatāra agli avatar di Luca Papale e Lorenzo Fazio, Paguro, 2018, NdR), mostrando come non ci sia alcun salto nel vuoto dell’immersività spettacolare, e che tutto questo sia già storia del teatro, solo da riscrivere con nuovi termini e su nuove direttive.

L’intervento di Nella Califano (Altre Velocità) cerca di mettere in contatto tutte le realtà più significative del teatro-ragazzi dell’ultimo anno, citando fra gli altri TPO, Kinkaleri, Liberaimago, il progetto Sibylla Tales di Zaches Teatro, Kanterstrasse, il Teatro x corrispondenza di Simone Guerro e il Prometeo di Agrupación Señor Serrano. In queste compagnie e in questi progetti Califano vede un crescendo di interesse attorno allo sguardo dei giovani, ovvero del nuovo pubblico spesso definito, non a caso, «nativo digitale», di come questo teatro sia non tanto «per ragazzi» quanto un teatro che sta tentando di calibrare i propri stilemi a quelli più liquidi e spesso silenziosi dei più giovani, che poi altri non saranno che i prossimi spettatori del teatro post-emergenziale.

Gli interventi di Giulia Morelli (curatrice editoriale di Rai 5 e Rai Play) e di Stefano Romagnoli (Spettatore professionista) convergono nel dare al teatro un ruolo primigenio nei linguaggi televisivi e quindi anche dei medium di massa contemporanei, ricordando il ruolo degli attori teatrali nella prima Rai (quella a trazione pedagogica, la “Mamma Rai”), e nel radiodramma, che oggi sta conoscendo una nuova vita grazie ai podcast e ai sistemi di fruizione online come lo streaming.

Walter Porcedda (critico teatrale per Gli Stati Generali) preferisce citare i lavori di Anagoor e Kepler 452, criticando una mancanza di innovazione dei linguaggi che ormai, anche a causa della pandemia, dovrà invece avvenire, così com’era accaduto un tempo con collettivi di video-arte come Studio Azzurro o con le ultime compagnie d’avanguardia come Magazzini Criminali. Renzo Boldrini (coordinatore RAT) attacca l’idea di un teatro conservativo, che non si lascia permeare dalla transmedialità: il teatro anche per Boldrini è ingordo di tecniche, tecnologie e grammatiche; non è, come già detto, il tempo delle etichette, ma di guardare ciò che il teatro ha da offrire, senza pregiudizi di sorta.

Sostenibilità della cultura – Cultura della sostenibilità

La seconda giornata di studi del festival, intitolata “Sostenibilità della cultura – Cultura della sostenibilità”, è aperta e moderata dal giornalista Luca Caneschi, direttore di Teletruria. La questione della sostenibilità ormai è trasversale a tutti gli ambiti, politici, culturali e scientifici, eppure nell’affrontare il tema sarà evidente la centralità che gran parte degli operatori e degli ospiti daranno sul ruolo dello Stato come principale sostenitore dell’identità culturale del paese, e della sua veste di principale contributore all’economia del teatro. Sembra quasi che non si possa risollevare il teatro partendo dallo spettatore, ormai attanagliato dalla verticalizzazione della burocrazia italiana, faro di coda dei fondi del Fus, ma che ha in comune con le voci più onerose un problema generazionale con i futuri spettatori. L’ambito ambientalista è chiaramente molto sentito dai relatori più giovani, i quali hanno prodotto dei progetti artistici che volgono a vivere tali questioni con maggior consapevolezza e senso di comunità.

Ad aprire il convegno Valentina Montalto (Joint Research Centre, Commissione europea), che con coraggio tenta di stilare alcuni dati sulla cultura, consapevole che spesso si dica che misurare la cultura non sia tecnicamente possibile, almeno attraverso parametri puramente economici. La sua prospettiva, come esperta, è che i dati di per sé non abbiano alcun significato ma vadano incrociati e contestualizzati, e che l’uso degli indicatori sia utile per tracciare delle traiettorie che vadano incontro sia al tessuto produttivo creativo sia alla domanda del pubblico. Nella ricerca di un nuovo pubblico potenziale Montalto vede nella sinergia tra pubblico e privato un modo per disinnescare alcune delle problematiche politiche che gestiscono il sistema teatrale. Il suo intervento è stato uno dei pochi criticati in diretta dal pubblico presente: una delle voci contrastanti denunciava l’impossibilità di far coincidere con gli interessi del capitalismo (cioè il profitto) con la crescita culturale. La risposta di Montalto, piuttosto pragmatica e concreta, è stata che l’impresa privata segue il consumatore, e se il consumatore cambia, allora cambierà pure l’impresa.

L’intervento di Andrea Paolucci (Teatro dell’Argine) è incentrato sulla qualità del teatro sociale come esperienza che migliora la vita delle persone. La prospettiva è quella di allargare la comunità che interagisce col teatro senza forzarla a diventare spettatore, anzi rifiutando l’intrattenimento e muovendosi intorno alla cornice dello spettacolo, alle sue conseguenze. Su questa scia anche l’intervento del senatore Roberto Rampi (Commissione cultura del Senato, Pd) che vede nel fine dell’investimento pubblico sulla cultura l’unico metodo efficace di diffusione di questa, oltre che elemento necessario per una società che vuole definirsi democratica. Secondo Rampi, non senza una certa originalità, è con la fine degli investimenti alla cultura che è cominciato il declino economico e democratico italiano.

Meno apocalittico l’intervento di Fausto Ferruzza, presidente regionale di Legambiente Toscana, che vede nel teatro uno strumento che sì diffonde cultura, ma che tramite essa può aiutare nella creazione di un territorio più colto e dunque naturalmente più incline alla sostenibilità. Segue Caterina Gambetta (Teatro dei Venti, Progetto Gombola), che partendo dall’esempio dello spopolamento dei piccoli borghi, parla di turismo sostenibile e di nuovo di teatro sociale: secondo Gambetta vi è proprio un’idea ben radicata in più di una generazione di teatranti di venire incontro ai territori, di far sì che il teatro sia prima di tutto comunità che spettacolo, e che questo sia anche una sorta di archivio di modi e tradizioni popolari, che viva il territorio come spettatore anch’esso, con rispetto e curiosità. Su questa linea anche l’intervento di Serena Bavo (Earthink Festival), che mette in chiaro il fatto che le vere trasformazioni, sia di consapevolezza sociale che ambientale e dunque di sostenibilità, possono arrivare solo dopo una lunga semina culturale, che dunque l’obiettivo debba essere non domani ma il lungo termine.

Con uno sguardo al prossimo futuro (anche elettorale) comincia il contributo della deputata Alessandra Carbonaro (Commissione cultura alla Camera, M5S), che desidererebbe per il teatro italiano un sistema che ricalcasse quello francese, e lanciando come «vera rivoluzione economica» per gli operatori del settore, il “reddito di discontinuità”. Invece per Massimo Clemente (CNR – IRISS) bisognerebbe rifarsi a modelli economici, francamente opinabili, come la “sharing economy” o la “creative economy”, criticando aspramente l’appiattimento culturale della globalizzazione che vede in opposizione alla ricchezza della multiculturalità. In entrambi i contributi, molto tempo si è speso nel raccontare lo stato attuale dei lavoratori del teatro, lanciandosi in promesse ardite che più che proposte sembravano piccoli comizi fuori stagione.

Affascinante la testimonianza di Stefania Manciullo in merito alla “Festa di teatro ecologico” a Stromboli, un’operazione che ricorda da vicino quelle degli anni ’60 di riscoperta dei luoghi come viaggio anche interiore, ma con una prospettiva ecologica messa in primo piano. Il teatro qui viene spinto ai suoi limiti concettuali: è il teatro prima dell’elettricità, è il teatro quasi delle tribù, che racconta la vita come un evento imperscrutabile frutto della stessa natura che ci circonda. Sebbene sia un progetto che non gode di sostegni pubblici, sottolinea Manciullo, non ci sono particolari costi per vivere l’esperienza sull’isola, anche grazie al sostegno di partner privati. Manciullo presenta un teatro che vive assieme allo spettatore lo spettacolo, che ne calpesta lo stesso terreno, e fa esperienza con lui del respiro e delle reazioni dell’isola. Le dinamiche di gruppo diventano essenziali, afferma Manciullo, non come una sorta di “corso di sopravvivenza” ma più come un “corso di comunità”.

Sullo stesso solco la particolare esperienza della compagnia Mulino ad Arte descritta da Daniele Ronco, presente al festival col suo monologo eco-sostenibile Mi abbatto e sono felice (regia di Marco Cavicchioli). L’idea del «teatro a pedali» in cui lo spettatore fornisce l’energia elettrica per illuminare la scena ha già di per sé una forza poetica che non necessità qui di ulteriori spiegazioni. Ronco fa parte di quegli artisti che reputa le soluzioni eco-sostenibili elemento fondamentale di un processo ideologico, un anti-capitalismo d’antan, nostalgico della vita in campagna e dei suoi limiti materiali.

Chiude questa serie di riflessioni, che si pongono anche il tema dei luoghi deputati, Giovanni De Monte (Castel D’Arte), abbracciando la questione della comunità allargata, dei dialetti e del teatro che entra nelle case delle persone, eliminando gli spostamenti e così venendo incontro analogicamente alla dimensione domestica del teatro emergenziale.

A conclusione di questa ultima giornata di studi è seguito un dibattito acceso, il che, sebbene i distanziamenti e quindi le presenze contingentate, ha dimostrato quanto le cose dette siano state percepite come urgenti e pressanti per tutti gli operatori culturali che hanno partecipato durante queste giornate. Tra gli argomenti più toccati la necessità di proporre delle ore obbligatorie di teatro nelle scuole (tra chi preferirebbe storia del teatro e chi, come nel modello americano, delle vere e proprie lezioni di pratica teatrale). C’è chi ha sollevato la questione del conflitto d’interessi positivo, ovvero quando nella scala gerarchica decisionale della produzione statale a giudicare non ci sia un funzionario ma bensì un artista. Questi e altri spunti avrebbero potuto accendere nuove riflessioni con un pubblico meno rarefatto a causa dell’emergenza in corso, ed è proprio a questo enorme potenziale che sembra affacciarsi con veemenza il Festival dello spettatore, che vorrebbe diventare un luogo d’incontro privilegiato per la trasversalità dello sguardo, dallo spettatore errante al professore universitario, dal critico al progettista di modelli 3D: in consapevole contraddizione con la frammentazione dei discorsi e la fluidità dei contenuti del mondo digitale, il Festival dello spettatore sta chiaramente provando a fare il salto di qualità. Come sarà capace di atterrare, lo scopriremo nei prossimi anni.

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