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di Giuseppe Di Lorenzo

Questa riflessione sul Festival dello spettatore 2021 si aggiunge al report delle tre giornate di studi pubblicato nei giorni scorsi su Altre Velocità.

Se dovessi descrivervi con precisione ogni elemento di cui è composto Nel mezzo dell’Inferno di Fabrizio Pallara, non solo vi rovinerei uno dei migliori eventi in realtà virtuale degli ultimi anni, ma rischierei anche di contaminarlo irrimediabilmente di peculiari aspettative che non è sua intenzione suscitare. Per darvi un’idea di che tipo di esperienza sia questo prodotto, questa “opera digitale”, vi illustro solo il suo incipit.

Veniamo fatti accomodare in un piccolo spazio nero, dove troviamo giusto una sedia nel mezzo di quattro anguste pareti buie. Una volta seduti, tramite il casco per la realtà virtuale, i muri che avevamo attorno volano via come un castello di carte, rivelando un’ambientazione fantasmagorica, una selva oscura che incombe su di noi in modo agghiacciante, con gli artigli degli alberi e le punte delle rocce che sembrano indicarci malignamente. L’ambientazione sembra un disegno in movimento: è come attraversare una surreale incisione del Dorè che reagisce a noi come un luogo reale, naturale. La tridimensionalità degli alberi ci schiaccia, il vento che sentiamo addosso e muove i ramoscelli ci fredda le punta delle dita, i nostri passi sembrano calpestare delle foglie secche e l’oscurità incombe mentre, alzando lo sguardo, scorgiamo oltre le fronde un cielo irraggiungibile. Il fantasma di Virgilio ci appare davanti e con risolutezza ci intima di seguirlo. E così, con un occhio teso al suo levitare cauto e esperto e con l’altro concentrato a evitare massi e adocchiare lontani pinnacoli, tra gli spiragli della foresta notiamo un paesaggio infinito, che si perde a vista d’occhio nella notte d’inchiostro: è come se davvero potessimo smarrirci per sempre in quel luogo senza la nostra guida, il nostro Virgilio. La discesa all’inferno non sarà certamente uno spettacolo passivo, anzi prevede la nostra interazione con cose, luoghi… e perfino con gli esseri che popolano i suoi terribili gironi.

Facciamo un passo avanti. Che tipo di esperienza è Nel mezzo dell’Inferno? Cosa vuole suscitarci e quali sono i suoi linguaggi? Ciò che appare chiaro fin dai primi momenti di immersione in questo archetipo dantesco digitale è la cura per i dettagli: ogni modello 3D, ogni sasso, ogni foglia d’erba, i laghi e i promontori e i fantasmi, tutto possiede un volume e si relaziona proporzionalmente con lo spettatore mantenendo un livello di plausibilità quasi sempre impeccabile. Ciò è dovuto alla nostra coscienza dello spazio che occupiamo e alle entità con le quali entriamo in relazione proprio col nostro corpo. Nei videogame VR questo è un fondamento dell’immersività, ovvero l’attenzione a delle proporzioni che richiamino il nostro quotidiano, e su elementi come la profondità di campo e la prospettiva, le quali altro non sono che una grammatica di corrispondenze nello spazio, basate perlopiù sulla capacità del nostro occhio di tradurle efficacemente. Se pensate che uno dei problemi fondamentali della neurobiologia contemporanea è capire come sia possibile che il cervello fornisca una visione unitaria del mondo e in che modo i moduli che la interpretano tramite i sensi sintetizzino la realtà facendola sembrare qualcosa di coerente, vi renderete conto che riuscire in questa impresa con un prodotto virtuale non sia cosa semplice da realizzare.

In un videogame ciò che rende l’esperienza veramente immersiva è proprio il fatto che possiamo interagire col mondo che è stato creato attorno a noi. Possiamo prendere degli oggetti, vederli nelle nostre mani, notare che hanno delle ombre e che riflettono gli altri oggetti intorno a loro, entrando in dialogo col contesto ambientale e così donandoci delle informazioni fondamentali sulla sua coerenza. Una delle esperienze recenti più travolgenti del mondo VR tout court è certamente “Half-Life: Alyx” (Valve, 2020), terzo capitolo di una delle più celebrate saghe videoludiche di tutti i tempi, situato temporalmente tra i due capitoli precedenti. La fisica dei corpi e degli oggetti (calibrata tramite il kit di software Havok), coniugata all’alto numero di poligoni dei modelli e al nuovo motore grafico (il malleabile Source Engine 2), hanno permesso a questo videogioco di raggiungere livelli di verosimiglianza a dir poco avveniristici per l’intero settore delle realtà virtuali/aumentate. Ma tutti questi elementi sono solo parte di un enorme macchinario che comprende motori fisici interni, ombre basate sulla fisica, interfacce grafiche, intelligenze artificiali e quant’altro, un lavoro lungo quattro anni che sarà costato tra i 30 e i 70 milioni di dollari alla ricchissima azienda americana. Non proprio le cifre che siamo abituati a leggere per le piccole produzioni teatrali presentate ai festival della penisola italiana.

Nel mezzo dell’Inferno è infatti un “piccolo” progetto supportato dal CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, realtà fortemente improntata al sostegno di certe contaminazioni tecnologiche. Non è un caso se questo lavoro risulti comunque breve nella sua fruizione: congegnare un’opera di tale portata è di per sé uno sforzo tecnico-produttivo gravoso, soprattutto quando dietro non c’è un sistema produttivo all’altezza. Il vero rammarico che può insinuarsi nello spettatore è proprio quello di non restare indifferente di fronte al carico di potenzialità inespresse, che fremono anche nei desideri del suo regista, Fabrizio Pallara, che ne ha curato la drammaturgia assieme a Roberta Ortolano. Realizzare questo genere di esperienze con la giusta attrezzatura e i professionisti adatti è estremamente oneroso, ma ripaga grandiosamente in termini di qualità dell’immersione. Il team artistico-tecnico dietro Nel mezzo dell’Inferno è davvero contenuto: lo sviluppo e l’implementazione della realtà virtuale immersiva sono a cura di Alessandro Passoni (già dietro la startup di VR Virtew), la progettazione degli ambienti architettonici è di Sara Ferazzoli (architetto e scenografa del Teatro delle Apparizioni) e infine i modelli e le animazioni sono state seguite dall’illustratore e animatore Massimo Racozzi. Sebbene ritenga plausibile che ci siano state altre interazioni sia in fase di progettazione sia nella realizzazione, resta il fatto che l’esito finale risulta esaustivo e coeso ben oltre le più rosee aspettative. Certo, mancano dettagli qua e là, alcune transizioni sono meno riuscite di altre e ci vorrebbe un po’ di “polish”, come direbbero i programmatori di videogame, ma è anche grazie al lavoro di Pallara nel gestire lo sguardo dello spettatore che ogni elemento viene premiato e sfruttato al suo meglio, evitando una dispersione che avrebbe causato maggiori carichi di lavoro.

L’impatto audio è altrettanto ben calibrato. Le voci che sentiamo si raccontano attraverso le parole di Dante e la loro intonazione vibra assieme all’immagine di fronte a noi, creando un gioco di corrispondenze ben calibrato. I tre attori dietro ogni dialogo, ovvero Valerio Malorni, Lorenzo Gioielli e Silvia Gallerano, sposano la fragilità e la mutevolezza dell’ambiente virtuale con pochi cambi di tono e ritmo, facendo coincidere i momenti più concitati col crescendo della texture sonora e dell’assedio visivo. Le musiche, curate da Økapi (aka Filippo E. Paolini), alternano rarefazione a densità, sono coaguli elettronici che aumentano e rilasciano la tensione coerentemente all’esperienza, seguendoci fino a quasi scomparire dalla nostra consapevolezza. Non che tutti gli elementi tecnici funzionassero sempre con fluidità: lo stesso visore ha necessitato di un po’ di tempo prima di collegarsi efficacemente, alcune transizioni viste in video sono sembrate molto forzate mettendo in luce i limiti di programmazione, in più è risultato poco avvincente l’uso di una cintura per il feedback atipico, ovvero l’uso della vibrazione in risposta a un evento virtuale, che se nei controller per console funziona piuttosto bene, indossato all’altezza della vita non riusciva a simulare lo stesso effetto.

Ovviamente lo spettatore di teatro potrebbe ritrovarsi spaesato, per non dire intimorito, di fronte a una così peculiare forma di sperimentazione. Eppure l’operazione sembra riuscita: Dante torna davvero a sconcertare per le sue magnifiche immagini letterarie, troppo spesso asciugate dalla stratificazione di note e a piè di pagina che ne eliminano il mistero, oppure appianate dalle continue e spesso mediocri interpretazioni televisive. L’obiettivo che si pone Nel mezzo dell’Inferno è evocare l’angoscia e il terrore originari del poema e assieme riadattarne il gusto orrorifico e conturbante che ha reso l’Inferno il volume più popolarmente amato di tutta la Commedia, così terreno, così radicato nel suo presente, ma sopratutto così viscerale. Proprio la scelta di Dante di utilizzare tanti riferimenti al suo contemporaneo serviva come innesco poetico a una maggiore immersione per il lettore-ascoltatore, che riscopriva i quotidiani fatti di cronaca sotto una nuova chiave letteraria. Sfuggendo al rischio di essere un lavoro fin troppo pedissequo, o di scadere in cliché da epica videoludica (come nel caso di La Divina Commedia di ETT, 2021), questo lavoro riesce a evitare il realismo fine a se stesso (anche ricontestualizzando l’archetipo estetico delle incisioni del Dorè) per approcciare a pieno una febbrile verosimiglianza, facendo sì che lo spettatore non sia semplicemente disposto a credere di star scendendo all’inferno, ma di vivere autenticamente ciò che Dante, prima ancora di elaborare in versi, vedeva di fronte a sé mentre chiudeva gli occhi e immaginava l’inimmaginabile.

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