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Otto buoni motivi per non perdersi il festival 20 30 a Bologna 

di Lorenzo Donati

Si tiene da qualche anno a Bologna e solitamente si formano le code all’ingresso, file come se si stesse aspettando l’apertura per il nuovo prodotto stay hungry stay foolish. Invece le persone in fila stanno per andare a teatro, al festival 20 30. Negli anni abbiamo cercato di seguire e interrogare questo “fenomeno”, prima con un’intervista al suo ideatore e fondatore Nicola Borghesi (anima della compagnia Kepler-452 con Paola Aiello ed Enrico Baradli e con Michela Buscema, Lodo Guenzi, Bebo Guidetti e altri), poi cercando di raccontare uno spettacolo-fenomeno nato in questa temperie (La rivoluzione è facile se sai come farla), e in generale cercando di seguire il lavoro di colleghi che hanno raccontato il festival, come le belle interviste di Nicoletta Lupia su Il Tamburo di Kattrin.
Quest’anno il festival è iniziato il 17 novembre e proseguirà sino al 25 con spettacoli, esiti di laboratori, passeggiate sonore, feste e incontri. Cerchiamo di raccontarvi perché è importante andarci facendo una cosa che va molto di moda, una lista. Perché è importante andare al festival 20 30? Abbiamo trovato otto buone ragioni. A fondo pagina c’è il link per il programma dettagliato.

1. Perché sono tutti giovani con gli anni degli altri, invece in questo festival i giovani e le giovani ci sono e organizzano, scelgono gli spettacoli, danno indicazioni agli spettatori, partecipano ai laboratori, vanno in scena, diventano spettatori e spettatrici. In questo processo gli adulti non sono lì a “mediare”. Le trite e ritrite le formule “i giovani si raccontano”, salvo poi scoprire che i giovani sono in scena diretti o guidati o coordinati dagli adulti, qui sono formule trite e ritrite ma almeno sono vere. Intendiamoci: la presenza di giovani e l’assenza degli adulti non basta a misurare la bontà di un progetto. Però è qualcosa che altrove non accade e ci pare sufficiente per affermare che si tratta di un luogo dove è possibile ascoltare che cosa i giovani hanno da dire.

2. Perché si possono vedere le poetiche di alcuni gruppi in due “stati di condensazione” differenti. Prima l’esito di un laboratorio, a seguire la replica di uno spettacolo. L’esito di un laboratorio non richiede uno sguardo senza giudizio o interpretazione, anzi probabilmente chiama in causa uno sguardo che invita a mettere a fuoco il proprio giudizio, a riconoscerlo per sospenderlo. 

3. Perché in programma ci sono gruppi da seguire in un’arco che va dai trentancinquenni ai ventenni. Sotterraneo, Domesticalchimia, Oyes, ma anche i Camillas, oggetto musicale e performativo non identificato. Accade raramente che un festival di teatro chiami dei gruppi musicali, scommettendo su assonanze poetiche fra mondi artistici che solitamente non si parlano. Era già succeso gli scorsi anni (complice la collaborazione con i quasi padroni di casa Lo stato sociale) e ci pare un’indicazione di direzione artistica che anche altri dovrebbero raccogliere.

4. Perché la scorsa estate a un incontro a Rimini si parlava di giovani. Eravamo insieme a una serie di operatori, docenti e critici a discutere sulla giovinezza e a un certo punto una ragazza da Modena ha dichiarato di non stare capendo. Diceva che i discorsi erano troppo interni, troppo colti, troppo pensati per essere rivolti ad addetti ai lavori. Lei, che un addetta ai lavori non è, diceva, non stava capendo. Che fare, dunque? “Abbassare” i nostri ragionamenti, ridurne la portata, rischiando una pericolosa mediazione al ribasso? Oppure chiedere a loro di “salire”, imponendo un lessico, una preparazione che si avvicina allo specialismo? Oppure reimpostare completamente questo ragionamento, dismettendo un noi e un loro? Abbiamo la sensazione che questa domanda aleggerà durante il festival e forse si troverà anche qualche risposta.

5. Perché si fa un gran parlare di “gruppi giovani”, di “giovani artisti”, ma poi chi li conosce? La domencia 19 il festival organizza un’intera giornata di programmazione in case private, si suona e si sale e si incontra il lavoro di giovani artisti. 



6. Perché per fare teatro a Bologna ci vuole coraggio. Scompigliate le carte con l’arrivo del teatro nazionale nel 2015, il capoluogo emiliano vive il paradosso di avere troppa offerta rispetto alla richiesta attuale. Senza essere mai riuscita, a parte qualche caso, a sostenere quel processo che prevede che l’arte emergente possa consolidarsi dopo avere cavalcato l’onda della giovinezza. A Bologna capita di vedere serate con 4/5 spettacoli che si rivolgono allo stesso pubblico, ma anche di trovare programmati due festival di ricerca nello stesso periodo (sic). In questa condizione paradossale fra iperofferta e sofferenza di percorsi indipendenti, capita che i teatri assomiglino a magioni private perché lo sforzo per tenerli in piedi è tanto e sacrosanto, e non sempre chi ci prova riesce a guardarsi attorno, a costruire occasioni di dialogo con le altri arti, con diversi pubblici e con ciò che non è istituzionale. Eppure qui si intravedrebbe forse un’idea di controcultura. Certo 20 30 non è “la risposta” a questa situazione, intanto è una prosposta di azione concreta, autoprodotta, sostenuta con fondi privati (La Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna). È l’inizio di un discorso anche collettivo, finalmente credibile e non sottoculturale e che sarà chiamato negli anni a venire a prendersi ancora maggiori responsabilità.

7. Perché sta nascendo una rete fra realtà teatrali italiane che stanno ricostruendo una rilevanza sociale per il teatro, riportandolo vicino alla vita quotidiana di diverse persone, spesso giovani. Il progetto Under 25 di Dominio PubblicoDirection Under 30 del Teatro Sociale di GualtieriLa Konsulta di Trasparenze stanno lavorando con le “Avanguardie 20 30”, questo il nome del gruppo di lavoro che si riunisce attorno al festival 20 30, per costruire uno spettacolo (Manifesto il 25 novembre alle 21 all’Arena del Sole), mentre il giorno dopo tutto questo sommovimento verrà discusso in un incontro pubblico. C’è un rischio evidente, quello di chiedere a dei “normali” spettatori di diventare addetti ai lavori. Se tutti gli spettatori, anche quelli giovani, finiscono per organizzare festival, selezionare spettacoli, strappare biglietti il pubblico chi lo fa? Questa domanda è a nostro avviso cruciale e probabilmente l’unione di più progetti può contribuire a individuare risposte credibili. 8. Perché come sostiene Stefano Laffi (Crescere nonostante, Edizioni dell’Asino, 2016) oggi i giovani sono pionieri. Stanno costruendo la propria esperienza nel mondo da soli perché è saltato il valore di esempio che gli adulti portavano. Prima gli adulti sapevano “come si fa” e lo potevano trasmettere ai giovani, che magari lo contestavano o rifiutavano. Oggi non c’è più nulla da contestare perché molto poco è rimasto da trasmettere. Allora va da sè che ogni discorso sui giovani che proviene dagli adulti, anche quelli interni al teatro, rischi di contenere una venatura di paternalismo o peggio di conservatorismo. A volte nonostante gli adultiLa cospirazione contro i giovani ha vinto e qualunque ragionamento o progetto sui giovani che non dimostri di tenerlo in conto risulta inaccettabile. 

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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