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Nadia Casamassima _ Andrea Santantonio_ Foto Marco Parollo

Modi e luoghi della crescita. Nadia Casamassima e Andrea Santantonio di IAC-Centro Arti Integrate

di Damiano Pellegrino

«Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome». Con queste parole prende avvio L’isola di Arturo, il secondo romanzo di Elsa Morante, autrice pure citata alla fine di questa conversazione con Nadia Casamassima e Andrea Santantonio, incontrati faccia a faccia durante le ultime ore di permanenza a Rovereto. Uno dei nostri primi vanti era stato il nostro nome: mi pare, quasi, che possa cominciare così il botta e risposta nella camera dove ci ritroviamo con Nadia e Andrea e in cui loro alloggiano da febbraio in avanti per proseguire, insieme a un gruppo di adolescenti, il progetto Creature selvagge. Quando ha inizio la registrazione le loro parole, involontariamente, vengono avanti a partire da un’origine, da un momento molto antico e passato: i loro inizi, la fondazione del Centro Arti Integrate (IAC) a Matera, il movimento battuto a piedi nel territorio materano per conoscerlo “autenticamente”, gli strumenti e la determinazione che animano il lavoro educativo a contatto con preadolescenti e adolescenti fino alla possibilità di affidare proprio a delle ragazze e dei ragazzi il coordinamento intero di un festival. E infine l’occasione formativa qui a Rovereto grazie al dialogo con l’associazione Oriente Occidente. Un procedere lento della conversazione, scandisce alcune tappe del cammino di IAC a partire dall’anno della sua fondazione fino ad arrivare al presente, in un dialogo che per mancanza di tempo e spazio trascura l’intero ambito riconducibile alla loro personalissima ricerca portata avanti sulla scena e negli spettacoli prodotti. Che cosa distingue la fase successiva alla nascita e all’attribuzione di un nome? Che cosa accade dopo?

Che cos’è IAC?

Nadia: IAC è una cooperativa nata nel 2009. Prima di questa fondazione, io e Andrea provenivamo da un’esperienza col Teatro dei sassi. Abbiamo preso uno spazio privato in affitto e una volta ristrutturato è diventato il nostro luogo dove fare teatro con i laboratori, i progetti e le prove dei nostri spettacoli e le rassegne. Negli anni oltre a lavorare sulle nostre produzioni abbiamo anche dato vita a un festival di teatro, città e persone, Nessuno resti fuori, nato dal desiderio di portare il teatro anche in quei luoghi in cui normalmente la gente non è abituata a vedere o a fare teatro. Un festival itinerante che ogni anno attraversa un quartiere della città di Matera. Non è un festival cosiddetto “vetrina”, in cui si vengono a vedere in qualità di operatori gli spettacoli, ma è una manifestazione che è nata prima di tutto dalla voglia di far partecipare le persone. E quindi ci sono dei laboratori di formazione, degli spettacoli e degli incontri di discussione e di approfondimento per condividere o far esplodere delle questioni. Oggi ci prepariamo ad affrontare l’ottava edizione del festival.

Quante aree di Matera sono coinvolte di volta in volta durante il festival? Ascoltandoti sembra che ciascuna edizione nasce di volta in volta riferendosi a una morfologia precisa del territorio.

Andrea: Siamo abituati a ragionare in quartieri dividendo proprio le aree della città, perché essa è stata disegnata così negli anni Cinquanta quando sono stati sfollati i sassi. A Matera c’è stato proprio un progetto per cui erano ben identificabili dei quartieri distanti con caratteristiche precise, quasi dei piccoli borghi, e poi nel frattempo ne sono nati altri e si sono uniti tutti quanti. Ma stiamo parlando comunque di un’unione di caseggiati dove vivono due tremila abitanti. La questione cardine per noi, quando abbiamo dato vita al festival, era la possibilità di raccontare la città fuori da quell’immagine che si stava delineando nell’ambito di Matera 2019 come Capitale Europea della Cultura. Tanti slogan e discorsi futili o vuoti attorno a questa nomina dato che Matera non è più la città dei sassi e dato che nei sassi non ci vive più nessuno, non c’è vita, ma è un’area attraversata da turisti come avviene a Firenze, a Venezia o nel centro di Napoli. In quel momento noi con il festival volevamo misurarci con una proposta culturale e artistica diversa se volevamo scontrarci “onestamente” con l’autenticità di questa città del Meridione. Portiamo le persone e gli spettatori dove sussiste ancora un vivere lento e ,a seconda della disponibilità delle nostre risorse, la programmazione ospita artiste e artisti che sposano la nostra causa e hanno un budget contenuto ma dignitoso ed è declinata su dei temi che raccontano la dimensione urbana e il vivere in relazione alla città. Generare parentele inaspettate è il titolo assegnato alla scorsa edizione e a quella attuale. Inventare, allora, nuove possibilità relazioni da tracciare con altre persone: artisti e compagnie sono chiamati a confrontarsi con questi temi e nel frattempo portano la loro proposta. Allora nessuno resti fuori da che cos’è il processo culturale in questo momento storico.  Nel 2019 buona parte della città è stata attraversata da tantissime cose, come il lavoro di Milo Rau, ma buona parte dei cittadini non ne sapeva nulla e non è stata coinvolta. Probabilmente anche per una diffidenza delle persone, ma andando davanti alle loro case, forse la loro sfiducia o timore scompare e quanto meno loro inciampano in una proposta artistica e la scoprono innanzitutto.  Di recente abbiamo cominciato a sperimentare un’altra azione: chiedere ai quartieri di pensarsi in una dimensione culturale. Prendiamo, per esempio, il quartiere dove saremo quest’anno con il festival: esso si chiama Lanera e il suo nome deriva dal fatto che in questo luogo era presente un boschetto di ciliegie selvatiche denominate lenere. Questo quartiere è coperto da tutti i cicli del sistema scolastico italiano, dalla scuola primaria all’università. Come si immagina nella dimensione culturale tale quartiere? Che cosa racconta di sé al resto della città, a tutti gli altri abitanti di Matera e ai turisti che arrivano? Qual è la sua vocazione culturale? Che cosa ha da raccontare oggi? Il festival nasce da un pensiero culturale principalmente nostro, ma oggi lo stiamo portando avanti insieme a tutti gli sforzi della cooperativa insieme a Barbara, Sonia, Josef e tante altre. E dopo tanti anni oggi sentiamo delle esigenze nuove e diverse. Avvertiamo che IAC debba, anche come dovere verso noi stessi e verso tutto ciò che abbiamo costruito, fare un passaggio nuovo sulle produzioni, curandone determinati dettagli e andando a fondo nella ricerca. Ecco allora che il festival può diventare un progetto gestito dalla città, dalle nuove generazioni. La nostra affezione ci sarà sempre ma al contempo Nadia e io siamo curiosi di capire che cosa può diventare questa manifestazione senza di noi. Non siamo noi a determinarla e possiamo essere anche gregari.

Il lavoro qui a Rovereto in questo senso è una fuoriuscita da Matera? Uno spingersi fuori e un mettersi in dialogo con realtà e contesti geografici radicalmente differenti.

Andrea: Una parte di Oriente Occidente è stata a Matera durante un’edizione del festival e ha assistito ad alcune attività di laboratorio con gli adolescenti. Dopodiché abbiamo fatto loro una proposta, delineando un progetto a lungo termine, per tre o cinque anni circa. Abbiamo lanciato un amo, equivalente a una grande possibilità di lavoro in un territorio sconosciuto e a una grande scommessa. Fino a quel momento, infatti, eravamo abituati a portare avanti un lavoro con le nuove generazioni nel nostro territorio oppure entrando a fare parte, per brevi periodi, di pratiche artistiche e pedagogiche già ben formalizzate e congegnate, come la non-scuola a Ravenna, la cui riuscita è garantita grazie al sostegno di istituzioni locali e scolastiche. Quando siamo arrivati a Rovereto, inizialmente, ci dicevano che qui nessuno aveva voglia di muoversi, partecipare a un’attività o mettersi in gioco. Ma noi volevamo capire se gli stessi processi di lavoro utilizzati a Matera, qui potevano avere una risposta o se erano validi in un’altra parte del mondo.

Nadia: La necessità per noi di lavorare sul territorio è nata anche dal fatto che Matera non ha una cultura teatrale forte, non c’è un teatro e non c’è l’abitudine di andare a teatro come accade in altri luoghi. Una necessità tutta tesa a costruire intorno una comunità capace di guardare anche al nostro teatro. Sforzi che sono stati nutrimento: per esempio il lavoro con gli adolescenti ci ha dato la possibilità di sperimentare un lavoro che non presenta un metodo definito con delle regole applicate in ogni situazione, ma un modo di stare nel lavoro che ormai fa parte di noi.

Andrea: Una costanza con cui siamo stati vicino a loro, ragazze e ai ragazzi. Non ci siamo mai disabituati e ci viene molto naturale aprirci al loro mondo. In pochi passaggi riusciamo a stabilire una relazione comoda con i partecipanti: tutti siamo sullo stesso piano, noi due in quel momento non siamo educatori o maestri ma procediamo insieme per arrivare da qualche parte. Gli adolescenti sono uguali in giro per l’Italia però ci sono tante cose che cambiano oltre gli adolescenti, muta il mondo intorno. E loro lo guardano con uno sguardo molto preciso e se non sai guardalo come loro o insieme a loro non riesci a starci insieme.

Quando abbiamo incontrato i partecipanti del progetto Creature selvagge dopo la prova sul palco, loro hanno messo in risalto la questione di fare gruppo, creare un gruppo e non percepire tra voi e loro una relazione di tipo gerarchico.

Andrea: Una delle più grandi vittorie alla fine di questi percorsi è riuscire a non farsi ringraziare. Loro riconoscono che l’urgenza con cui parlare su quel palco e nell’incontro, è la loro. Non gliene frega nulla di noi adulti. Loro hanno capito profondamente che ciò di cui devono parlare sono loro e, così, continuano a parlare di loro. Questo è. Un esempio è Francesca che durante l’incontro con il pubblico, avvenuto dopo la replica, ribatte a un’insegnante che non bisogna fare il laboratorio di teatro obbligatorio a scuola, ma bisogna che l’iscrizione avvenga su base volontaria. Ciò ci fa capire che sono loro che devono volerle affrontare certe esperienze. Francesca ha ammesso quali sono le loro necessità e la sua considerazione per noi, ad esempio, corrisponde a una scommessa culturale vinta. Abbiamo vinto una partita giocata da dieci ragazze e ragazzi, assolutamente consapevoli e fieri di ciò a cui hanno preso parte, sconfiggendo una diffidenza iniziale e precostituita: a Rovereto non si muove nessuno.

Come si sono avvicinati a questo laboratorio?

Andrea: A Rovereto ci aspettavamo un numero maggiore di partecipanti. Qui esiste anche un Piano Cultura Giovani del Comune, che però a quanto pare non è che funzioni granché perché poi non s’innesca una partecipazione concreta. Abbiamo incontrato circa duemila ragazzini tra cooperative, scuole e altre organizzazioni, ma accanto a tanti entusiasmi avevamo capito che la maggior parte di loro era già impegnata. Invece coloro che si sono iscritti non li avevamo mai incontrati e hanno partecipato perché avevano raccolto la notizia attraverso altre vie. Quindi avevano veramente voglia di seguire questo percorso mensile. All’inizio il gruppo comprendeva anche alcuni ragazzi più piccoli che hanno deciso di non continuare dopo il primo incontro. Tuttavia come primo percorso in un territorio, così distante da Matera, misurarci con un numero ristretto di persone ha permesso di lavorare più in verticale, premurandoci della relazione uno a uno e non lasciandoci sfuggire le fragilità di alcuni partecipanti. 

Parli di fragilità e avete fatto riferimento a un filo che decidete di tessere con loro. Quali sono le loro difficoltà o criticità, o le onde altissime con cui vi scontrate quando lavorate a contatto con loro?

Nadia: C’è una difficoltà con il corpo e con il movimento che si avverte tanto. Uno di loro durante un laboratorio a Matera rivelò la sua sensazione di compiere dei movimenti umilianti in sala, come se ci fosse quasi una vergogna a muovere il corpo. Un disagio dettato non soltanto dallo sguardo esterno, probabilmente, ma da qualcosa di più individuale e interiore.

Andrea: Ancor prima delle loro criticità o dei loro malanni, io penso che ci sia un fatto da dover tenere presente. Gli adolescenti non sono abituati ad essere apprezzati in nessun contesto. Nessuno gli dà il valore che hanno. Ciò che ci dicono le scuole è che gli insegnanti non hanno più il tempo di compiere un percorso prima di tutto umano con gli alunni. E soprattutto hanno il terrore di mettersi in relazione con loro distogliendosi dal percorso di studio perché hanno paura delle famiglie o dei dirigenti scolastici. Dall’altra parte le famiglie non hanno più tempo per loro e così rimangono da soli. E loro sono spietati, anche con sé stessi. Spesso le loro fragilità nascono dal fatto che mai nessuno li ha messi nelle condizioni di dire: sono fiero di me, come ha ammesso uno dei ragazzi durante l’incontro con il pubblico stamattina. Laddove, invece, una stima o una considerazione, proveniente dal mondo degli adulti, può invitarli a mettersi in discussione e a vagliare anche le proprie debolezze.

Durante le ore di laboratorio di arti perfomative, portate avanti con loro fino alla presentazione dell’esito finale presso l’Auditorium Melotti di Rovereto per due giorni di fila, avete introdotto alcuni testi utili per indagare insieme la relazione tra l’uomo, l’ambiente naturale e le città in cui viviamo, facendo luce su un’emergenza che compromette il futuro degli adolescenti su questo pianeta. I testi sono stati scelti direttamente da voi oppure erano stati concordati con Oriente Occidente prima di dare avvio al percorso? E in che modo sono stati accostati al lavoro sulla drammaturgia di scena?

Andrea: La traccia d’indagine su cui ci siamo concentrati nell’ultimo periodo ha a che fare con questi temi. Essa può essere contenuta nella sigla, a cui abbiamo accennato precedentemente vale a dire: generare parentele inaspettate. È la capacità di stare al mondo pensando a relazioni diverse da quelle che siamo abituati a stabilire. La relazione con un alterità possibile che può essere un animale o degli elementi della natura. Questo aspetto per gli adolescenti è importante perché loro avvertono di essere, al pari degli altri esseri viventi, a rischio. Credo che loro oggi si stiano facendo carico di quest’emergenza climatica perché è un’emergenza vicina a loro stessi. Quei libri vanno a toccare dei nervi scoperti e ad esempio in Chthulucene Donna Haraway tocca delle questioni primordiali e molte antiche, che io e Nadia abbiamo sentito molto vicine anche alla nostra generazione più anziana. E poi abbiamo trovato L’assemblea degli animali di Filelfo: una favola, secondo noi, capace di raccontare in maniera molto genuina e spensierata una situazione. Al centro ci sono degli animali ma in realtà ci sono tutti coloro i quali vivono una posizione di debolezza nei confronti di chi esercita un potere violento nel mondo. E i partecipanti in che modo si sono messi in relazione con queste tematiche legate all’ambiente? Ne parlano tanto a scuola e, in un certo senso, sono bombardati da questa emergenza. Quale suggerimenti hanno dato per elaborare la drammaturgia e i movimenti sulla scena?

Andrea: Tutto il percorso è durato meno di quattro mesi, da febbraio a maggio. Tuttavia in questo lasso di tempo è accaduto un fatto importante che ha colpito queste zone e l’opinione pubblica: la vicenda dell’orso Jj4. Mentre noi precipitavamo in sala in alcuni nodi che riguardano la relazione tra uomo e ambiente è piombata questa faccenda dentro il lavoro. Ciascuno degli animali che ognuna e ognuno di loro ha portato sulla scena ha comportato un fare luce sull’aggressione nei confronti di una creatura che non ha una colpa oggettiva. Ci siamo spinti tanto con loro su questa faccenda perché per loro corrispondeva a un’urgenza. Esattamente come l’opinione pubblica ha puntato il dito sull’orsa e sulla sua colpevolezza, accade molto spesso che gli adolescenti siano presi di mira. 

Nadia: Abbiamo chiesto loro di assumere un punto di vista diverso, quello di un animale. Una creatura che hanno scelto loro ma che ci interessava indagare per la relazione che essa stringe con l’uomo. Guardare a ciò che ci sta intorno ma osservando anche da un altro punto di vista, incarnando il pensiero di un’altra creatura che non sei tu. Essa cosa immagina? Che cosa avverte? I partecipanti durante le prove hanno fatto questo sforzo, premurandosi e stando in pensiero per qualcosa. 

Un’ultima domanda. Ci sono delle tracce, fantasmi antichi, letture, stimoli o lezioni di alcuni antichi maestri, che vi trascinate e alimentano, in qualche modo, il metodo di lavoro che mettete in campo nella relazione con gli adolescenti durante i laboratori?

Andrea: Uno dei miei maestri è Alessandro Argnani del Teatro delle Albe, che non è tanto più grande di me. Quando ho un’indecisione penso sempre: che cosa farebbe lui in questo momento? Il contatto con la pratica della non-scuola nel corso degli anni ha alimentato il nostro lavoro. E poi Eugenio Barba è una figura che abbiamo incontrato e abbiamo studiato e resta un modello. Ma mi rendo conto che siamo già in una fase in cui i modelli non sono più riconducibili soltanto all’ambito teatrale. 

Nadia: Io penso anche alle esperienze di attivazione politica che io e Andrea abbiamo vissuto vent’anni fa. Ci sono stati dei movimenti che c’hanno permesso di pensarci in tanti, una moltitudine, tesa a credere in qualcosa, a volere qualcosa. Nell’incontro con i ragazzi in sala dare loro la possibilità di immaginare qualcosa di diverso rispetto a quella che è la loro realtà e alle regole economiche e sociali in cui sono costretti a vivere. In letteratura la scrittura di Elsa Morante si apre al mondo dei ragazzini nella misura in cui ci chiede di stare nel dolore ma anche nel gioco costante. Vivere in una realtà dura e farlo con un pensiero utopico.

foto di Marco Parollo

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