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L’individuale e il collettivo in “Art you lost?”, un’intervista

di Lorenzo Donati, Alex Giuzio

Art you lost? è un lavoro installativo firmato da lacasadargillaMuta ImagoSantasangre e Matteo Angius, uno dei rarissimi casi in cui il tentativo di avvicinare il più possibile i poli dell’artista e dello spettatore viene, se non risolto, almeno proposto con una ricca messa in discussione tanto della relazione tra i due soggetti, quanto del ruolo dell’artista oggi.
Il lavoro, nato alla fine del 2012 su stimolo del Teatro di Roma (lo abbiam raccontato in un articolo precedente), è poi approdato all’edizione 2013 del Festival di Santarcangelo con la sua prima fase, il “Preparatorio”, un percorso per spettatore solo ospitato nella scuola elementare Pascucci. La seconda e ultima fase di restituzione, denominata “Opera”, sarà invece allestita il prossimo luglio 2014.
In questa intervista, realizzata a Santarcangelo ·13 abbiamo ripercorso la fase di genesi dell’opera e i suoi esiti, che talvolta hanno superato gli intenti originari.

Iniziamo dalla genesi del progetto Art you lost?. Quali sono le domande che vi hanno portato a generare un raggruppamento che unisce ed equilibra diverse identità artistiche?

Riccardo Fazi / Muta Imago: La forma del progetto è partita sostanzialmente dalle circostanze in cui è stato concepito. Nel 2012 c’è stata una richiesta specifica, da parte del Teatro di Roma, di occupare per tre mesi il teatro India prima dell’inizio dei lavori di riqualificazione, per renderlo vivo e per generare alcune opere attorno al tema della perdita, da presentare in un evento apposito alla fine di dicembre. Di fronte a tale richiesta, le compagnie coinvolte hanno reagito cercando di evitare un approccio routinario alla questione, per schiudere invece le possibilità di una risposta inedita e maggiormente energica. A monte di Art you lost? c’è dunque una domanda politica che riguarda il teatro India, quello che ne è, che non è mai stato e che sarebbe dovuto essere; senza dimenticare il contesto urbano e amministrativo in cui questo teatro si trova, cioè cosa significa la sua presenza a Roma oggi e come vorremmo che fosse domani. La nostra volontà era di rompere con le dinamiche tradizionali, secondo le quali ognuno avrebbe lavorato per conto proprio e presentato il suo spettacolo al termine della residenza, per creare invece qualcosa che esprimesse in modo più convincente e ampio la nostra visione artistica del problema e le progettualità che essa implica; vale a dire capire come far tornare l’India alla città e la città all’India. Tutto ciò in un campo davvero neutro per tutti, affinché avvenisse un vero scambio.

Roberta Zanardo / Santasangre: È centrale il fatto che la richiesta fosse riferita al teatro India, perché già esso portava in sé tutte le domande relative a questo luogo e al suo rapporto con la città. L’India ci è stato sostanzialmente scippato, poiché a causa dei meccanismi che lo amministravano, ogni proposta valida veniva sistematicamente disattesa (salvo qualche eccezione, come il festival Short theatre). Era dunque naturale che le urgenze che hanno poi attivato il processo di realizzazione di Art you lost? nascessero proprio dal posto in cui siamo stati chiamati a operare.

Claudia Sorace / Muta Imago: La questione fondamentale era lavorare in apertura, a partire dalle compagnie coinvolte, che erano abituate a fare teatro e che si sono trovate per la prima volta con un’opera diversa in cantiere. Lavorare sul teatro India aprendolo è stato un atto ricco di grandi scarti: eliminare la frontalità palco/spettatori, trovare dinamiche interne più fluide, accogliere persone disposte a un approccio trasversale, eccetera. Non ci siamo mai posti il problema di quale tipologia avesse dovuto assumere il nostro progetto: volevamo qualcosa che fosse a cavallo fra i generi e che riuscisse a mettersi in dialogo efficacemente con le persone. È solo rispetto a questa necessità che si è creato il linguaggio finale, che è anche piuttosto inedito. Insomma, di dato c’erano solo le condizioni; l’obiettivo è invece venuto fuori in fieri.

Matteo Angius / Accademia degli Artefatti: Effettivamente, un territorio così neutro permetteva a ognuno di sottrarsi per un momento al proprio percorso artistico individuale e di compagnia, e dunque non avevamo pronte delle idee estetiche precostituite. Le domande che ci siamo posti durante la fase progettuale erano legate soprattutto alla funzionalità che potevamo assumere dentro al progetto specifico – e questo è qualcosa che, tra l’altro, si rischia spesso di perdere nel corso di una carriera artistica. Essendo, d’altra parte, chiaro il nostro oggetto di lavoro, tutti ci siamo sentiti più liberi dal punto di vista del linguaggio e dell’immaginazione, coltivando anche proposte che in altri contesti avremmo scartato, per fedeltà a orizzonti artistici più abituali o rassicuranti. Questo tipo di atteggiamento ha permesso di costruire una dinamica creativa aperta, incerta in senso positivo, sempre continuamente rigiocata. Occorreva trovare un campo di azione e di confronto che fosse il più neutrale possibile, in cui avesse luogo uno scambio alla pari e in cui ciascuno di noi potesse entrare tornando se stesso, spogliandosi anche delle proprie specificità professionali. Il che non significa che queste non siano presenti nel risultato finale…

[Ph Ilaria Scarpa, Santarcangelo ·13]

Riccardo Fazi: Le istanze iniziali erano evidenti a tutti e sono state le uniche linee guida del progetto. In primis, volevamo realizzare qualcosa che il pubblico potesse sentire come proprio e che restasse legato allo spazio in cui era ospitato, che Roma non ha mai sentito suo. La grande questione che con ciò intendevamo abbordare è: come far sì che l’arte torni ad appartenere alla collettività in senso ampio? C’è un rapporto circolare fra arte e realtà che va tematizzato: non soltanto l’arte riproduce la realtà, ma la realtà torna poi a essere influenzata dall’arte. Questo è il nodo che abbiamo tentato di rendere visibile con l’opera. Occorreva perciò una forma che facesse dialogare in maniera ancora più ampia linguaggi che già interagiscono nei nostri lavori, un contenitore che trascendesse i generi. E, soprattutto, serviva che la fruizione fosse il più possibile libera e indipendente, attraversabile su più livelli sia nella fase di preparazione che in quella dell’opera, e assolutamente non coercitiva dal punto di vista della temporalità e delle tematiche. In Art you lost? i contenuti sono messi dalle persone in modo molto spontaneo e autonomo. Non esiste un approccio migliore o peggiore: ci si può immergere anche superficialmente nel percorso proposto, ma si lasciano comunque delle tracce e si contribuisce al risultato finale. Insomma, il grado di partecipazione, fattuale ed emotiva, rimane ad assoluta discrezione dello spettatore. Si decide quanto interagire in questa opera, senza alcuna richiesta.

Claudia Sorace: È anche chiaro che un progetto del genere non nasce completamente dal nulla. In esso rientrano infatti degli spunti e delle riflessioni già attivi in ognuno di noi, in maniera singola e discrezionale. Tuttavia, nel momento in cui ci siamo trovati in una situazione collettiva e di scambio, è come se queste riflessioni e questi spunti abbiano acquisito delle potenzialità più elevate, in quanto inserite in quel contesto. Il fatto che fossimo calati nella realtà specifica dell’India e del circuito romano forniva al nostro ragionamento l’adatto contesto per radicarsi e per svilupparsi in modo concreto, senza correre il rischio di rimanere su un piano ideale o ideologico. Questa contingenza ha rappresentato un salto in avanti del progetto, perché le esperienze individuali – trovandosi in una dimensione di confronto costante – non hanno mai rappresentato un’appartenenza da difendere, ma una risorsa da mettere in campo.

Come avete lavorato rispetto all’autonomia dello spettatore, che, come avete giustamente rimarcato, porta il contenuto e gode di una libertà di fruizione molto ampia? Ci sono meccanismi che delimitano, o quantomeno indirizzano tale libertà? In Art you lost? sembra infatti evidente che ci sia un percorso calibrato che presuppone delle risposte non tanto sul contenuto, ma sulla reazione dello spettatore.

Claudia Sorace: Già nell’idea dell’Opera c’era l’esigenza che nel Preparatorio tirassimo fuori tracce e materiali che rappresentassero quelle persone. Siamo partiti da un semplice gesto: “Ognuno di noi tiri fuori dalle tasche tutto quello che ha”. Questo atto preciso non è poi stato posto nel percorso, ma è rimasta l’idea che gli sta dietro: nel Preparatorio chiediamo infatti allo spettatore che cos’ha con sé in quel momento, che vuole tirare fuori e che può raccontarlo. L’immediatezza è la richiesta di fondo del progetto, e perciò rappresenta il concetto attorno al quale si sono orientate le scelte di composizione. Il lasciare tracce di sé non deve essere razionalizzato né costruito; l’immediatezza è molto più efficace rispetto a un’immagine ragionata di se stessi. È altrettanto vero, però, che un certo grado di mediazione è insito nella realizzazione di qualsiasi opera del genere, per cui abbiamo cercato di fare in modo che questo fosse funzionale alla produzione di un contesto in cui lo spettatore agisse nella maniera più spontanea possibile. Parlerei del raggiungimento di un clima, di un’atmosfera relazionale che permettesse uno scambio non per forza fedele alla realtà, ma almeno sincero nel suo costituirsi. Il percorso che si chiede di seguire inizia in maniera molto lieve e superficiale, e scava più in profondità in modo molto graduale, entrando nella dimensione del racconto intimo, che abbiamo tentato di cogliere senza che le persone avessero il tempo di pensare o costruire la propria testimonianza.

Riccardo Fazi: Sin dall’inizio volevamo fare in modo che la raccolta delle tracce avvenisse in una modalità scientifica e obiettiva. In quest’ottica, ad esempio, è nata la richiesta di soffiare sulle candele: il respiro è ciò che fa il sé, qui e ora; che ci accompagna da quando si nasce a quando si muore senza che noi ce ne accorgiamo. Per questo subito dopo aver soffiato sulle candele si esprime un desiderio; per questo chiediamo alle persone subito dopo di darsi un consiglio rivolto a loro stesse nel passato; perchè così si lega un augurio al respiro che fa di noi ciò che siamo. Quando spegniamo le candeline sulla torta, manifestiamo simbolicamente di essere ancora vivi. Significa porre l’attenzione su quali elementi rendono noi stessi ciò che siamo, in questo specifico momento, qui e ora.

Alice Palazzi / lacasadargilla: Come l’Opera, anche il Preparatorio è molto legato al luogo. L’andamento del percorso risentiva necessariamente della conformazione fisica dell’India, e questo fattore lo abbiamo portato anche alla scuola Pascucci di Santarcangelo. Il sentiero individuale inizia con le tracce più immediate e superficiali, per poi immergersi in una dimensione sempre più profonda e intima di solitudine, la quale, però, subisce uno sbalzo all’infuori molto forte al momento finale della mappa della città, dove si vedono le tracce lasciate dagli altri e quindi si torna a essere con altre persone. In quest’ultimo punto abbiamo cercato di mostrare in maniera netta il senso di apertura alla città, di dialogo ininterrotto col reale.

Matteo Angius: È comunque vero che, al di là di questi momenti “forti”, che rientrano nelle condizioni generali di partenza, la ricerca quotidiana della composizione dell’opera si è svolta in una maniera molto personale e istintiva, per niente intellettuale. L’urgenza che ci guidava era quella di prendersi cura del percorso e calibrarlo come se noi stessi fossimo ad attraversarlo. Io credo che, rispetto alle nostre aspettative, il meccanismo ha funzionato bene: la partecipazione creativa del pubblico si è mossa sempre in una dimensione privata, e tale privatezza ritorna poi nel risultato finale dell’Opera. Questo perché il tessuto del percorso è, da una parte, molto preciso e strutturato, mentre, dall’altra, permette una risposta singolare personale e incondizionata.

Roberta Zanardo: La ricerca dell’immediatezza, quindi di cosa chiediamo, è fondamentale. Ma ancora più importante è come lo chiediamo. Ci è sembrato necessario che le tracce lasciate dal pubblico non fossero semplicemente delle risposte a delle domande, ma che ci fosse uno scarto fra i due momenti. Per questo il meccanismo doveva essere indiretto e non svelato, altrimenti la fruizione si sarebbe svolta in un modo scontato e banale. L’impostazione del percorso a tappe – in cui il meccanismo, appunto, si svela gradualmente – ci è sembrata quella che favorisse maggiormente una partecipazione convinta e sentita, lasciando il tempo per entrare nella propria intimità, ma senza che questa intimità fosse richiesta in modo autoritario. E senza nemmeno scadere nell’interattività in quanto scopo: la nostra è infatti un’interattività necessaria.

Riccardo Fazi: Per avere delle risposte di un certo tipo, era necessario entrare in un’ottica relazionale del dono e dello scambio, per cui non si chiede soltanto qualcosa ma si dà anche qualcos’altro. In Art you lost? noi siamo infatti i primi a restituire tracce sulla perdita: ad esempio, facendo ascoltare la musica dell’adolescenza dello spettatore, oppure con il racconto al telefono. In questo modo, chi si trova dentro il Preparatorio è portato a farsi venire in mente la sua storia e a condividerla. Altrimenti il rischio della gratuità della partecipazione sarebbe stato alto.

Viviamo in un momento storico caratterizzato da una continua sovraesposizione del sé, dell’identità e del vissuto, che rende la restituzione di questi ultimi sempre molto costruita o persino falsa, a causa della perenne sensazione di avere un pubblico. Come vi ponete di fronte a tale problematica? Quali contromisure avete messo in atto nell’opera?

Matteo Angius: Io credo che rispetto ad altri linguaggi che prevedono l’immediata restituzione dei contributi del pubblico, Art you lost? abbia la caratteristica di non rendere riconoscibile il singolo spettatore. Manca la promessa per ogni singolo partecipante di una personale esposizione performativa. Raccogliamo materiale da identità singole e ne facciamo materiale di un’identità collettiva, in senso, prima di tutto, oggettivamente umano, e poi artistico.

Riccardo Fazi: Già la mappa, che dopo un percorso singolo pone lo spettatore di fronte a un orizzonte collettivo, suggerisce che facciamo parte di qualcosa di più grande. Ciò non annulla la propria individualità, ma la mantiene e la protegge, allo stesso tempo però rendendola uguale a tutte le altre. Si tratta di qualcosa di ambivalente e che le conferisce uno strano valore all’interno di un contesto.

Alice Palazzi: Anche la precisione e la natura di certe richieste argina il rischio della sovraesposizione del sé. Per quanto si possa interpretarle, esse circoscrivono il proprio personale campo d’azione e costringono a un approccio abbastanza specifico, che non lascia spazio a costruzioni premeditate.

Riccardo Fazi: Più è ampia la possibilità di risposta, più si scatena il rischio di farvi entrare l’ego di chi la pronuncia. Più invece è precisa la richiesta, più la richiesta stessa impedisce di performare la risposta.

Matteo Angius: In fondo le persone riescono comunque a ricavarsi una piccola performatività narcisistica, e per esempio questo accade allo scatto della foto. Ma ci siamo riservati un modo per decostruirla: senza avvertire lo spettatore, facciamo tre scatti e scegliamo quello più “sbagliato” e meno “esposto”.

Roberta Zanardo: Solo il fatto di sussurrare una frase in un buchino, piuttosto che dirla al microfono, smussa il tutto e crea uno scarto enorme. C’è quasi sempre un margine di performatività in ciò che fanno gli spettatori, ma questo rimane sempre nell’ambito del privato: il loro ego si perde quasi subito nella dimensione globale dello sguardo. Si tratta del terreno neutro di cui parlavamo all’inizio. Come lo è stato per noi, anche gli spettatori hanno subito una dialettica di annullamento/potenziamento della propria individualità. Le persone che si sono presentate inizialmente all’India, dalla signora che non era mai stata a teatro fino all’attore che sperava in un provino, diventavano parte di una collettività omogenea non appena intraprendevano il percorso del Preparatorio.

Perché l’arte si sta affacciando all’individualità, al quotidiano e al creare una relazione?

Claudia Sorace: Il concetto di “quotidiano” per me ha sempre avuto un’accezione negativa, mentre oggi sto cominciando a leggerlo in maniera più positiva. Per me “quotidiano” è ciò con cui posso creare una relazione più forte, immediata e vicina a me, e con questo sguardo che mi aiuta io riesco a mia volta guardarmi meglio. Ma si tratta di uno sguardo complesso. Se si tratta di un bisogno personale, occorre che anche io come artista respiri fuori da me.

Riccardo Fazi: Percepiamo una esigenza di partecipazione orizzontale, non solo nel campo dell’arte ma anche nel civile e nel sociale. Pensiamo a come si sta sviluppando il concetto di partecipazione pubblica: le manifestazioni stanno cambiando e i grandi leader scomparendo; non ci si aspetta più qualcuno che guidi una massa. L’esigenza di essere tutti parte di qualcosa di più grande rimane, ma non annulla più la propria individualità, a differenza forse di come era in passato, e ognuno, se e quando partecipa, lo fa per come può e desidera. Questo si ripercuote in tutti i campi, e compito dell’artista è annusare quali sono le urgenze delle persone e offrire loro la possibilità di praticarle. Per questo lo facciamo. Stiamo sentendo lo spostamento della modalità di essere attivi all’interno di qualcosa in maniera orizzontale, paritaria e affermativa anziché oppositiva. L’esigenza di esserci con il proprio portato individuale, che contribuisce a uno spostamento non più immediato bensì futuro, e non più guidato da un leader da ascoltare e a cui affidarsi. In risposta alla disgregazione a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni, la figura del leader sta scomparendo ed è giusto che ciò accada. Di conseguenza, in questo momento storico l’attenzione alla biografia è elevatissima in tutti i campi. Stiamo assistendo a un ritorno delle epopee della quotidianità, dell’importanza della vita del singolo individuo.

Claudia Sorace: E questo accade non perché si tratta di qualcosa di quotidiano, ma perché ciò che è piccolo è importante di per sé, è vicino ed enorme. L’arte non si sta avvicinando al quotidiano perché è abituata a vederlo, e non lo sta rendendo speciale, poiché è già speciale. Lo sta solo guardando, e guardandolo si rende conto che c’è una vita incredibile dentro. Stare sulla dimensione piccola e inanellare queste piccolezze è una risposta alla disgregazione lampante, un invito a non preoccuparsi più di questa disgregazione e di porre lo sguardo su di sé come artista per salvaguardarsi.

fotografia di Ilaria Scarpa

Gli autori

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

  • Alex Giuzio

    Giornalista, si occupa di teatro e di economia ed ecologia legate alle coste e al turismo. Fa parte del gruppo Altre Velocità dal 2012 e collabora con le riviste Gli Asini e Il Mulino. Ha curato e tradotto un'antologia di Antonin Artaud per Edizioni E/O e ha diretto la rassegna biennale di teatro "Drammi collaterali" a Cervia. È autore de "La linea fragile", un'inchiesta sui problemi ambientali dei litorali italiani (Edizioni dell'Asino 2022), e di "Critica del turismo" (Edizioni Grifo 2023).

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