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In fila indiana. Una nota e una traccia sonora su “Amleto, una questione personale”

di Vittoria Majorana, Damiano Pellegrino

Amleto, una questione personale si presenta come un’impresa epica per spazi non urbani, dove il teatro non c’è e in cui sembra possibile sperimentare una comunità di artisti, addetti ai lavori e nuovi spettatori erranti. Amleto, una questione personale, come una lunga conta magica, agita a cielo aperto da coloro che scelgono di raccogliersi e lavorare in piccole “enclavi”, attiva un’azione radicale in un territorio delocalizzato. Amleto, una questione personale, al pari di un violento abbraccio, ammutolisce il pubblico e strozza le parole nella gola degli interpreti, i cui corpi “trasparenti” intercettano gli impulsi del luogo e reagiscono agli imprevisti e alle possibilità, anche drammaturgiche, che scaturiscono da un sito all’aperto. Dodici corpi “conduttori” sulla scena.

Per l’intera durata dello spettacolo, un attraversamento in fila indiana di circa cento minuti lungo una parte di area boschiva che circonda Campsirago (Lecco), gli spettatori, dotati di cuffia, sono chiamati a calpestare letteralmente la parabola di Amleto e percorrere un itinerario della sua interiorità: Amleto deficiente, Amleto bambino, Amleto esitante, Amleto torpore, Amleto sulla Terra. Amleto può tutto eccetto compiere la vendetta sull’uomo che ha ucciso suo padre e rispondere a un dovere morale.

Il lavoro, andato in scena in prima nazionale il 25, 26 e 27 giugno nell’ambito del festival diffuso Il Giardino delle Esperidi giunto alla sua diciassettesima edizione, assume le sembianze di una lunga processione, un grande momento di presenza comune. Gli spettatori, suddivisi sin dal primo momento in tre gruppi, sono chiamati a battere una strada che si dà per vie traverse, deviazioni, salite, bruschi sprofondamenti e temporanee zone di contatto con il resto dei partecipanti. Nel corso dell’esplorazione è l’incessante mobilità dei presenti a separare e raccordare al tempo stesso la geografia testuale dell’opera shakespeariana. Su questa si innesta quella preesistente del luogo, matrice generatrice dell’intero lavoro con i suoi lunghi silenzi, ai quali si accordano il fragore cadenzato dei passi a contatto con la superficie boschiva e le voci dei corpi presenti sulla scena e dei brani trasmessi in cuffia.

Il tragitto a piedi si snoda lungo un’area dilatata, fitta, non calcolabile e che fa il verso al caos e ai conflitti che dilaniano il principe di Danimarca. I sentieri battuti sono quelli interiori di Amleto, pezzi di un puzzle della sua psiche. In atto, allora, c’è un’altra forma di azione, quella del pensiero, e la lunga girandola di figure della tragedia, che arrestano a diversi intervalli di tempo le spedizioni a piedi dei tre gruppi, non fa altro che aggrovigliare il racconto in mille rivoli e sospenderlo. L’infanzia per Amleto non può più tornare e il suo sguardo errante, come quello dello spettatore, affonda negli abissi della foresta-mondo degli adulti, motore della storia e luogo felice e disgraziato, in cui scoprire il disgusto, il male, il sospetto e la degenerazione.

L’azione della storia lascia il posto all’indugio e alla speculazione tanto che Amleto sceglie di non agire bensì di attendere, esitare. Il suo pensiero astratto dà vita a volute, salti e prolungamenti e si sostituisce all’esistenza stessa e ai suoi significati. Facciamo indigestione di questo dramma a forza di inseguire «Amleto-crepa, Amleto-balbettio, Amleto-cane che abbaia, Amleto-tossico». Mettere alla prova il mondo, scoprirlo in tutto il suo clamore e osservarlo, sporgendosi oltre la cortina di fumo, può significare – come rivendica la voce alle orecchie – consumare «un viaggio che può compiere chi dubita». «Qual è il tuo dubbio – insiste la voce – il pacco non gradito?».

Alcune scene del dramma, ridisegnate nel paesaggio naturale, sembrano fare parte di un patrimonio di storie latenti che la terra di Campsirago ha trattenuto per secoli silenziosamente e che, a contatto con il teatro, sprigiona. Il monologo lungo e straziante di Amleto alla fine dello spettacolo riecheggia nel tramonto del sole, la conclusione di una giornata. La vicenda del funerale di Ofelia germoglia su una piccola depressione priva di alberi, il cui declivio ospita i corpi degli spettatori, rannicchiati e uniti insieme nella visione. La culla-letto di morte di Ofelia, rappresentata da un burattino manovrato sulla scena, sboccia e fiorisce come la vegetazione circostante e in quell’avvallamento è come se un rito antico agreste di morte e rinascita si riveli dalla cavità del suolo. Nello spazio avviluppante e “transumante” della rappresentazione il paesaggio diventa così un simbolo, qualcosa di remoto e misterioso, quasi trattenesse una vita anteriore, una memoria antica che performer e spettatore sono chiamati a rintracciare insieme.

In Il luogo come testo del 1993 Fabrizio Crisafulli fa riferimento a una qualità di ignoto dell’ambiente, un ordine nascosto che sta al di fuori della mente dell’uomo, una «seconda generazione del luogo», che il teatro diffuso ha il compito di avvistare, subordinando la creazione artistica alle specificità e all’identità di un luogo. Amleto, una questione personale ha il merito di andare in questa direzione, alimentando una riflessione che riguarda i rapporti propri di un luogo e quelli tra luogo, pratica scenica e ricerca collettiva a partire da un laboratorio. Lo spettacolo, infatti, nasce dopo un lungo ciclo di residenze di alta formazione offerto da ScarlattineTeatro a dieci attori professionisti provenienti da diverse aree della penisola e svoltosi a Campsirago a partire dalle fine del 2020. Abbiamo incontrato gli attori, le attrici e i registi Anna Fascendini, Giulietta de Bernardi e Michele Losi dopo lo spettacolo per porre loro delle questioni. Di seguito potete ascoltare la traccia sonora pensata e costruita da Vittoria Majorana a partire dalla conversazione registrata, auspicando che nelle loro vive voci possiate rintracciare le radici di tutto ciò che cresce.

In ordine di apparizione avete ascoltato le voci di Stefano Pirovano, Giulietta de Bernardi, Sebastiano Sicurezza, Benedetta Brambilla, Michele Losi, Barbara Mattavelli, Stefania Ventura e Sara Milano, che ringraziamo insieme a Liliana Benini, Marialice Tagliavini e Giulia Castelnovo per la cura e la disponibilità con cui hanno accolto le nostre domande.
Alla realizzazione dello spettacolo Amleto, una questione personale hanno partecipato anche la dramaturg Sofia Bolognini, la costumista Stefania Coretti e i sound designer Diego Dioguardi e Luca Maria Baldini.
L’intervista è stata realizzata il 26 giugno 2021 presso la corte del Palazzo Gambassi, sede di Campsirago Residenza, da Vittoria Majorana e Damiano Pellegrino. Il montaggio è a cura di Vittoria Majorana e Ilaria Cecchinato. Si ringrazia Andrea Nicotra.

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