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Fuori misura.  Il teatro d’oggetti a Insolito Festival 2021

di Vittoria Majorana, Damiano Pellegrino

In un contributo dal titolo Storie in tavola, racchiuso in Grammatica della fantasia, Gianni Rodari sembra consegnare a tutti coloro i quali oggi decidono di avvicinarsi al linguaggio del teatro d’oggetti un breve vademecum, in cui leggere tra le righe il senso dell’invenzione e il gioco che risiedono in questa particolare pratica scenica. In cucina una madre, intenta a far ingurgitare l’intera pappa, e il bambino – secondo Rodari – nascondono a uno stato embrionale la scintilla per scatenare un libero peregrinare tra le storie. Agli oggetti domestici, infatti, come la tavola, il cucchiaio, la sedia o il piattino, maneggiati dai due, si possono assegnare significati nuovi, intuendone un uso simbolico fino a quel momento insospettabile e ambiguo. «Il piattino è un aeroplano, il cucchiaio è il pilota», dice Rodari.

Il teatro d’animazione per oggetti nasce laddove l’attore/manipolatore rifiuta la forma, il colore, l’uso e la pura funzionalità di ciò che c’è sulla scena, benché li conosce alla perfezione, per concedersi a un’assenza, a un al di là. Così sboccia l’alba di una storia e l’oggetto di tutti i giorni viene ridotto a un puro nome, a un segno. Il nostro sguardo comincia, così, ad abituarsi sempre di più a una scena che può ridursi notevolmente nelle dimensioni, come la superficie di un tavolo in cui avvengono tutte le vicende, o che, invece, straripa di elementi su tutto il palco. Il più delle volte assistiamo a spettacoli in cui le parole sono quasi azzerate e il linguaggio passa per rumori, scoppi, fischi, silenzi e vocali o consonanti tirate per le lunghe. L’oggetto partecipa alla drammaturgia al pari di un interprete, porta in scena un segreto di volta in volta nuovo, «un segreto che gli do io, secondo il suo verso», come sosteneva lo stesso Giuliano Scabia durante un intervento tenuto all’Università di Bologna dal titolo La poesia degli oggetti. Come trovare il seme, la forza creatrice di una possibile storia di fronte a un oggetto?

È il mese di luglio e Parma, come tutte le città della penisola, versa in uno stato di agitazione: afa, bocche feroci, clacson, rombi di marmitte che si tolgono di mezzo per raggiungere le mura domestiche. Si giocano gli Europei di calcio 2021 e la nazionale italiana si batte per raggiungere un posto in prima fila. L’atmosfera infiammata e l’aria appiccicosa si mischiano agli occhi esitanti di coloro che si sono riversati per le strade e setacciano in lungo e in largo la città in cerca dei propri beniamini sugli schermi. Mancano pochi minuti al calcio d’inizio. La città di Parma si sgretola, sussulta, è simile a un lamento, a un’invocazione. Gli occhi dei passanti e anche i miei sono come rivoltati, intrepidi ed eccitati; nascondono un senso di rivalsa mista a inquietudine.
La rincorsa al fischio d’inizio dell’arbitro, infatti, si trascina tante faccende: una pandemia che non smette di arrestarsi, i discorsi da bar all’indomani di una possibile sconfitta calcistica e la sfida coraggiosa di un teatro che si fa micro e vuole misurarsi, oltre che con le doti degli interpreti, con le caratteristiche specifiche degli oggetti sulla scena. «Cosa farci insieme e non come muoverli», scriveva Gyula Molnàr in Teatro d’oggetti. Appunti, citazioni, esercizi a proposito dell’uso degli oggetti sulla scena.

A Parma per l’ottavo anno di fila l’associazione Micro Macro realizza Insolito Festival. Spettacoli, incontri inediti, esplorazioni, pratiche teatrali e nella lunga serie di appuntamenti, previsti da giugno a settembre 2021, figurano anche dei lavori in cui a dominare è la vita degli oggetti con il suo fascino e la sua fragilità. Di seguito riportiamo la visione di tre spettacoli Piccoli suicidi, Scoppiati e Relazioni necessarie, in cui il teatro ragiona insieme ad adulti e bambini sul rapporto vicino-lontano e grande-piccolo, ponendo l’accento non tanto sulla spettacolarità delle vicende ma sull’equilibrio che cose e figure innescano in una totalità della scena che appare quanto mai sbriciolata e contemplabile attraverso dei lunghi primi piani.
I giocatori scendono in campo e si preparano per la consueta foto di rito. Nello scatto si può leggere tutta la tensione di una partita aperta e dal risultato incerto. È la stessa partita che ha deciso di giocare l’associazione Micro Macro, scegliendo di inserire in quest’ultima edizione del festival alcuni lavori che, oltre a intercettare un linguaggio innovativo e radicale della scena, accolgono una nuova generazione di gruppi di lavoro e nuovi possibili spettatori. La scelta di Micro Macro – forse tra i pochi oggi in Italia a concentrare le energie su questo preciso filone di ricerca sperimentale – è quanto mai ambiziosa e necessaria.
Una fase blanda e addormentata di una partita di calcio quali possibilità di gioco può generare? Un’accelerazione improvvisa, un tiro graffiante da centrocampo, un passaggio filtrante al mio compagno tutto solo in area davanti al portiere avversario. Tuttavia non sapremo mai se la palla finirà in rete. Fischio d’inizio.

Belgio – Italia. Piccoli suicidi. Tre brevi esorcismi di uso quotidiano

Lo scoccare dell’ora è sempre motivo di sofferenza per i più piccoli. È l’ora di dormire bambini e il viaggio è giunto al termine. Sonno e morte, allora, si confondono fino a stringersi in un solenne abbraccio, accarezzati dal tempo.
Le battute finali dello spettacolo Piccoli suicidi. Tre brevi esorcismi di uso quotidiano sembrano coincidere con l’approssimarsi della notte: lo spettatore rapito, come un bambino, deve congedarsi dalle visioni della scena e cedere al suo stato di dormiveglia. «Niente al mondo può scalfire il tempo», sostiene l’interprete in scena. E nemmeno l’evocazione di storie animate con degli oggetti sulla superficie di un tavolo, posto al centro e illuminato da una lampadina che assume le sembianze di un fiore intagliato con la carta, può scongiurare l’approssimarsi di una fine.
Lo spettacolo, nato da un’improvvisazione durante un laboratorio, viene riproposto a partire dal 1981 clandestinamente a margine dei festival fino a diventare un vero e proprio cult del genere. Il suo autore, Gyula Molnàr, decide però nel 1989 di toglierlo dal suo repertorio. Ma lo scorrere del tempo unisce a doppio filo padre e figlia nel momento in cui Olivia Molnàr riporta alla luce quest’opera, un vero prodigio del teatro d’oggetti. Un tentativo curioso e ideale di riesumare vecchi giochi in grado di unire diverse generazioni di sguardi e vincere l’ineluttabilità del tempo.
Il tempo così centrale, sebbene decantato alla fine dello spettacolo da un poemetto, non lascia scampo alla vita dei protagonisti delle storie: una compressa di Alka Selzer, una chicca di caffè di nome Pita e Jörg, un giovane fiammifero svedese. Sotto i nostri occhi le dita beffarde della manipolatrice consumano amori in miniatura e incontri rimpiccoliti, destinati a naufragare inesorabilmente a causa di incidenti minimi. La compressa finisce per sciogliersi in un bicchiere d’acqua e il caffè macinato e poi versato nasconde la quinta essenza di Pita. I materiali sul tavolo, sondati minuziosamente come sotto una lente di ingrandimento, crescono, si modificano, fino a diventare scarto, materia repellente che si disfa.
Nella baraonda finale, ormai è il caos a dominare sul tavolo: è la vita che è trascorsa, il tempo che è passato. E nel finale la magia del microteatro muta nell’angelo del sonno fino a tenderci un agguato. Abbiamo giocato e adesso – come indica Olivia – «è l’ora di dormire, morire».

Olivia Molnàr in Piccoli suicidi. Tre brevi esorcismi di uso quotidiano. Ph. di Leonardo Modena

Italia – Spagna. Scoppiati

Un palloncino bianco giace, sgonfio, al centro di un tavolo. Alle sue spalle un ragazzo lo osserva immobile prima di allungare la mano su di lui e scuoterlo con delicatezza. Il palloncino pare così rotolarsi e stiracchiarsi, come dopo una lunga dormita: è giunta l’ora di svegliarsi e cominciare, senza troppo entusiasmo, una nuova, ordinaria giornata di lavoro alla Casa delle Feste, un baracchino-negozio dove vendere gadget per feste di compleanno per nulla attraenti. Lo spettacolo Scoppiati, scritto e interpretato da Giacomo Occhi per la regia di Beatrice Baruffini, al suo debutto, si rivela, sin dalle prime battute, un racconto ironico e commovente sulle possibilità che il singolo, l’ordinario ha di distorcere le proprie dimensioni e moltiplicarsi. Scosso dai continui “inciampi” della vita – dalla scoperta dell’amore, alla crescita dei figli, passando per la morte imprevista dei cari – il mondo in miniatura del nostro amico in lattice è un intreccio continuo di incomprensioni, sussulti, sorprese, ripetizioni e sguardi d’intesa, dove la risata emerge, anch’essa imprevista, sempre per empatia, immedesimazione. La drammaturgia senza parole di Occhi, si gioca tutta in prossimità di questi corpi molli, “minori”, così come nei timidi gesti messi in campo per animarli – sempre sostenuti però da un ritmo arioso, vivace. Solo in pochi e iconici momenti l’aria penetra nei polmoni e nella membrana in lattice fino a farla gonfiare e poi scoppiare, segnando al tempo stesso l’estensione massima della loro vita e il punto di non ritorno. Per il resto del tempo i palloncini, di colore bianco, nero, grigio, restano ancorati alla viscosità della loro pelle, con i piedi ben piantati a terra, imparando a districarsi nella complessità delle relazioni quotidiane e delle sue mancanze. Ciò che rimane, alla fine, è una grande festa, un giardino in cui incontrarsi, far “scoppiare” nuovi amori e moltiplicarne i colori. Al termine dello spettacolo, pare respirarsi la stessa aria frenetica sotto la volta dell’Ospedale Vecchio di Parma, quando il pubblico, costituito per lo più dagli allievi del corso di formazione sulle tecniche del teatro di figura Animateria di Piacenza, frequentato anche da Occhi, si riunisce sotto al palco per complimentarsi, scambiarsi opinioni e ascoltare, ancora una volta ammaliati, i racconti del fare teatro.

Chi ha vinto? Relazioni necessarie (primo studio)

La relazioni come cuore pulsante delle comunità e dei gangli privati che le compongono, le famiglie. Se Scoppiati sembra parlarci della filiazione, in parte, come scoperta del non-ancora-conosciuto e del meraviglioso, Relazioni necessarie affronta invece il tema con uno sguardo più critico e pungente, ma soprattutto retrospettivo, presentandosi come un vero e proprio scavo archeologico nell’ecosistema familiare. Valentina Lisi, autrice e interprete dello spettacolo che ha debuttato in forma di primo studio per la regia di Nadia Milani, veste i panni di Matilda, una giovane ragazza che vuole raccontarci la storia della sua famiglia, da sempre assillata dall’infelicità e dal grigiore delle costrizioni sociali. Per farlo decide di riesumare un vecchio, enorme album di famiglia impolverato e di sfogliarlo, “leggerlo” ad alta voce, insieme agli spettatori. Dalle pagine saltano fuori così, ritagli di figure umane dalle proporzioni più varie, fotografie di paesaggi urbani e setting domestici che fanno da sfondo alla rappresentazione dei piccoli drammi familiari: l’album è dunque un micro teatro di carta, in cui, grazie alla tecnica del pop-up, le immagini prendono vita. Lisi-Matilda agita le figure, le dispone in scena e presta loro la voce, per poi rivolgersi subito al pubblico – il tutto con una spontaneità febbricitante, come quando da bambini si gioca a imitare i comportamenti degli adulti. Il racconto comincia così dall’infanzia della madre e dalla sua difficile, sorda relazione con la nonna, per giungere al presente di una famiglia piccolo borghese incapace di generare rapporti sinceramente affettuosi persino con la propria figlia – avvinghiati, come sono, alla sterile ripetizione di regole sociali e luoghi comuni pro-forma. Il realismo fotografico delle figure conferisce al racconto di Lisi, sempre acceso da un’ironia tagliente e divertita, una tridimensionalità fortemente evocativa per il nostro immaginario collettivo. Molte delle questioni sollevate da Relazioni necessarie, uno studio frutto del lavoro di Lisi all’interno del corso Animateria, risuonano come cruciali non solo per il “privato” ma anche per il “pubblico”. Le immagini e le parole pronunciate in scena, ci interrogano e scavano nella nostra mente disseppellendo album di famiglia immaginari che – chissà da quanto tempo – non guardavamo più.

Valentina Lisi in Relazioni necessarie (primo studio). Ph. di Eva Miškovičová

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