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Cronaca di un laboratorio: Kepler, giardini e collettività

di Altre Velocità

Spoiler: l’università è un’altra cosa organizzate dal collettivo Lettere Aperte è stata data la possibilità agli studenti di frequentare gratuitamente un laboratorio di teatro, della durata di tre ore, condotto da Kepler 452 (compagnia giovane che opera nel territorio bolognese). Io, da studentessa di teatro che non ha mai recitato, ho deciso di buttarmi e di prendere al volo quest’occasione. 7 maggio, ore 15:00, aula VI, via Zamboni 38. Siamo dodici partecipanti, prevalentemente ragazze. L’ambiente che si crea è subito famigliare e orizzontale: Nicola Borghesi e Enrico Baraldi ci fanno sentire dei “regaz di bolo” come loro, attori il cui lavoro è degno di rispetto in quanto atto di coraggio contrario alla biologia umana. Chiedono di presentarci dicendo nome e cognome e una cosa che gli altri devono sapere assolutamente di noi. In risposta alla richiesta si scatenano ilarità: da chi dice «Mi chiamo Alice e ho sempre sonno» a chi «mi chiamo Alessandro e non porto i calzini in questo momento». La mia risposta, inaspettatamente, mi fa comprendere qual è la mia priorità comunicativa, è importante che gli altri conoscano da dove vengo; rispondo: «mi chiamo Francesca e sono ligure». La prima ora e mezza è dedicata al training: il primo esercizio consiste nel camminare nello spazio cambiando continuamente direzione, cercando lo sguardo dell’altro. Siamo tutti imbarazzati, gli sguardi di Nicola e Enrico sono quelli che creano più imbarazzo. Successivamente la camminata si intensifica, ogni volta che ci troviamo faccia a faccia con un nostro compagno dobbiamo dargli la mano e dirgli buongiorno, prendendoci tutto il tempo che ci serve. Dalla stretta di mano si passa all’abbraccio, dall’abbraccio al bacio sulla guancia, dal baciarsi allo schiaffeggiarsi; l’imbarazzo cresce, il contatto con il corpo di persone estranee non mi mette a mio agio, non mi fa sentire che controllo la situazione. È dolceamaro, odio non poter decidere, ma amo la nudità che l’esercizio mi fa percepire, grazie a questo ambiente artificiale riesco ad intravedere la vera me stessa. Il secondo esercizio consiste nel dividersi in coppie e ricercare negli occhi dell’altro il proprio riflesso, dopo alcuni minuti la vicinanza con l’estraneo è quasi commovente, percepisco il respiro della persona che mi sta davanti ma non la vedo, attraverso i suoi occhi vedo me stessa e lei, reciprocamente, se stessa. Il lavoro è improntato sull’individualità nella comunità: soltanto riconoscendo me stesso nell’altro posso creare un contatto, vivere insieme, fare la rivoluzione. Il training è finito. Iniziamo con le improvvisazioni: Nicola chiede chi vuole offrirsi volontario, silenzio generale, non ha specificato per cosa. Alessandro (quello senza i calzini) si lancia immolandosi alla causa. Gli viene chiesto di prendere tutta la roba con cui è arrivato e di porsi al centro della stanza. L’esercizio consiste nel prendere un oggetto a piacimento tra gli effetti personali di Alessandro e di improvvisare una narrazione; una volta finito di parlare, l’oggetto andava posizionato su una sedia, in modo da creare un totem formato da tutte le storie che si sono succedute e che, a mano a mano che ognuno di noi parlava, si sedimentavano. La drammaturgia che si compone è assurda ma interessantissima, attraverso le nostre storie e gli oggetti quello che viene fuori è un doppio dell’individuo (Kepler 452 d’altronde è il nome del pianeta più simile alla terra), formato dalle parole degli altri. La seconda e ultima improvvisazione riguarda i giardini. Lo spettacolo più recente di Kepler è Il giardino dei ciliegi, trent’anni di felicità in comodato d’uso che, partendo dal testo di Cechov, estende la riflessione sulla perdita di un luogo (sia fisico che dell’anima) come è appunto il giardino dei ciliegi per i fratelli Ljuba e Gaiev. Ci dividono in quattro gruppi: due avrebbero creato una scena concentrandosi sul concetto di perdita, pensando a un luogo di Bologna che prima c’era e adesso non c’è più; gli altri, allacciandosi alla riflessione brechtiana, su un posto che ancora non esiste di cui sentiamo la mancanza. Labàs e piazza San Francesco, rete di aiuto sociale e collettività al di là delle differenze sono i temi che si sviluppano tra i vari gruppi. I risultati sono esilaranti, ci accorgiamo di aver tutti optato per rappresentazioni tragicomiche, usando il riso come codice per rivelare qualcosa di noi e al contempo celarla. Mi accorgevo di scoppiare a ridere quando la situazione si faceva troppo intima e scoperta, guardavo gli altri che mi guardavano e non riuscivo a trattenere i loro sguardi, la risata mi aiutava a spezzarli e a riniziare l’esperienza da capo. Il tempo è finito, siamo pronti ad andare via quando Nicola ci chiama per fare un’ultima cosa insieme. Ci chiede di aprire WhatsApp e di cominciare a digitare la prima parola che compare sulla barra del suggeritore automatico; i testi che si creano sono composti dalle parole che ognuno di noi utilizza di più nella vita di tutti i giorni: Instagram, Facebook, università, piani di studio, seguire, mamma sono le parole che uniscono le nostre esistenze separate. Come una sorta di parole in libertà 2.0 il mezzo tecnologico si delinea come estensione invadente della nostra esistenza. Kepler non lo demonizza ma, al contrario, cerca di capirne le potenzialità drammaturgiche ed espressive, rivolgendosi costantemente alla scoperta della singolarità dell’individuo in rapporto alla comunità. Ore 18:00, esco dall’aula stordita, rivestendo la mia maschera sociale. Sono passate soltanto tre ore ma l’esperienza è stata totalizzante. Forse l’impatto che ha avuto su di me è stato amplificato dalla mia inesperienza, sta di fatto che ho gioito delle sensazioni che mi ha lasciato e delle riflessioni che ha maturato in me. È possibile, tramite il teatro, unire individui diversi ed esperienze diverse? È possibile, in un’epoca come la nostra, creare un senso di collettività talmente forte da cambiare il mondo? L’imbarazzo e il disagio, utilizzati in maniera straniante, che esorcizzano e riempiono gli spazi vuoti che ognuno di noi si porta dentro, possono essere una risorsa preziosa non solo per ogni individuo, ma per l’insieme di noi tutti.

Francesca Lombardi

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