altrevelocita-logo-nero

Bologna fucina del futuro. Il teatro che verrà

di Altre Velocità

Come sarà il teatro del futuro?. Una domanda che si sono posti in tanti, in questi mesi. Alla fine del periodo d’isolamento abbiamo provato a tirare un po’ le fila della questione, scegliendo di dare voce ad alcune realtà bolognesi per farci un’idea dell’aria che si respira in città in questo momento di transizione. La fase uno infatti è finita, ma i teatri sono ancora chiusi: l’impressione però è che gli addetti ai lavori stiano cominciando, come tutti noi, a respirare più liberamente e a pensare al futuro. Così, tra progetti e preoccupazioni, i teatranti raccontano come si stanno attrezzando per reagire alla riapertura. Ne abbiamo parlato con Emanuele Montagna, direttore della Scuola di Teatro Colli, con Elena Di Gioia, coordinatrice della Stagione Agorà (da noi incontrata in un seminario interno di approfondimento), con Claudio Longhi, direttore artistico di Ert, con Enrico Baraldi dei Kepler-452 e con Angelo Colosimo, attore calabrese di stanza a Bologna. Sguardi diversi sul teatro: quello di una scuola di formazione attoriale, quello di una curatrice artistica e di un direttore artistico, infine quelli di una compagnia di un singolo attore.

«Il Teatro non si può fare in streaming! Durante questo periodo, le piattaforme Zoom e Skype hanno costituito solo un palliativo per lezioni teoriche di Teatro o prove a tavolino o, in alcuni casi, micromovimenti. Il Teatro è spettacolo dal vivo da 2500 anni e non cambierà mai. Non capisco come mai non si possano aprire i Teatri, rispettando il distanziamento sociale». Queste le parole con cui Emanuele Montagna esprime la sua insoddisfazione per il teatro online e l’auspicio di una quanto più immediata riapertura delle sale teatrali, onde restituire al teatro quella stessa dignità con cui, proprio 2500 anni fa, nasceva, istituzionalizzandosi come rito collettivo di compresenza e compartecipazione di più individui che si riconoscono in una comunità.

Le Stagioni Invisibili ph Paolo Cortesi

Esemplare, a tal proposito, il progetto culturale “Agorà”, avviato dal 2016 sotto la direzione artistica di Elena Di Gioia. La stagione teatrale, che ha visto l’unione amministrativa di otto comuni della provincia di Bologna, costituisce un «tentativo di essere piazza, di mettere al centro di una relazione gli artisti e i cittadini», come spiega la direttrice. Questa iniziativa, nata da un’intuizione tutt’altro che utilitaristica, si rivela oggi, mutatis mutandis, un’opportunità per riallacciare quel legame attori-spettatori a rischio dissoluzione a causa della situazione di emergenza in corso, nonché utile occasione per tornare a fare teatro nel rispetto del distanziamento sociale. Molti degli spettacoli in rassegna, infatti, hanno luogo all’aperto: un bosco, un paesaggio, un podere abbandonato perdono il loro senso denotato e acquisiscono quello del teatro. Sulla stessa lunghezza d’onda si muove il progetto Le stagioni invisibili, nato dalla collaborazione tra Agorà e la compagnia di danza “Le supplici”, che prevede la messa in scena di performances che si svolgono in ambienti naturali o industriali, differenti per ognuna delle quattro stagioni. Oltre all’esigenza pratica di localizzare uno spazio di rappresentazione, si fa avanti una necessità altrettanto urgente: «occorre una reinvenzione di stagione, di un flusso congelato», prosegue Elena, proponendo possibili soluzioni: in primis continuare a mantenere attiva la rete creata con il pubblico, accogliendo eventuali messaggi e richieste, successivamente organizzare laboratori che creino «occasione di vicinanza e curiosità di linguaggio», inoltre ricomporre un senso di festa.

Tra i progetti coordinati da Elena Di Gioia per la stagione di quest’anno c’era anche uno spettacolo dei Kepler-452, la giovane compagnia bolognese responsabile, tra le altre cose, dell’organizzazione del Festival 2030. Il programma era continuare a esplorare un format teatrale insolito, che avevano già sperimentato per altri due spettacoli: il pubblico si sarebbe ritrovato per qualche giorno all’aperto, tra le vie di Castel Maggiore, e a ognuno sarebbero state fornite, a inizio rappresentazione, delle cuffie da cui seguire via via lo snodarsi della drammaturgia. Drammaturgia che avrebbe dovuto essere fortemente legata alle strade del paese emiliano, comprendendo interviste agli abitanti, stralci di storie del luogo, eccetera; un mosaico di racconti incentrato sul tema della Memoria – lo spettacolo era infatti previsto per la settimana del 25 aprile. Tutto saltato, naturalmente, causa epidemia. O forse no: i Kepler hanno infatti deciso di sfruttare il periodo d’isolamento per ripensare il loro spettacolo alla luce dei recenti avvenimenti. Il tema resta quello di partenza, ma anch’esso modificato dall’impatto con la nuova realtà di questi mesi: non più una memoria della Resistenza, dunque, ma una “Memoria del Presente”, come loro stessi la descrivono. Gli spettatori, sempre all’aperto e muniti di cuffie (in modalità quindi che consentiranno di rispettare le norme di distanziamento), saranno invitati a interagire con una serie di elementi scenografici e a spostarsi tra gli edifici e i monumenti della piazza principale di Castel Maggiore, per esplorare alcuni aspetti del modo in cui ciascuno di loro ha vissuto e affrontato il periodo di isolamento iniziato a marzo. Uno spettacolo, insomma, figlio dell’esperienza fuori dal comune di questi mesi; e non potrebbe essere diversamente, dal momento che i suoi ideatori – Enrico Baraldi e Nicola Borghesi, tra i fondatori della compagnia, e Riccardo Tabilio, drammaturgo con cui i Kepler hanno più volte collaborato – l’hanno messo a punto interamente tramite Zoom, a distanza. La data d’uscita è già nel titolo, decisamente evocativo: Il primo giorno possibile. In questo spettacolo, creato a distanza e pensato per rispettare le distanze interpersonali, si intuiscono già i germi di qualcosa che cambia nei linguaggi del teatro del dopo-covid.

Un cambiamento, infatti, è doveroso anche secondo la compagnia Ert, constatato il fatto che la situazione attuale ha solo portato alla luce dei problemi preesitenti: bassa considerazione degli operatori dello spettacolo, fragilità dello statuto del teatro per la società e debolezza della sua struttura. «Ribadire la funzione del teatro e la sua importanza come collante relazionale, oltre che valido strumento di comprensione di traumi e disagi esistenziali quali quelli che stiamo vivendo – evidenzia il direttore artistico di Ert – è oggi più che mai indispensabile». Dal punto di vista prettamente pratico, Claudio Longhi esprime la necessità di mettere in atto soluzioni flessibili: lo sviluppo di un teatro di repertorio che sia il meno possibile interdipendente dall’esterno, ma sempre più basato su una produzione propria, la quale di volta in volta dovrà essere adattata alla situazione, attraverso un processo di reinvenzione di forme nuove, pur nel rispetto di una fedeltà alla stagione programmata. Il lavoro che è stato fatto in passato, infatti, non sarà condannato all’oblio: stando alle parole del direttore, se è vero che il teatro è l’arte effimera per eccellenza, ha anche il potere di dialogare con l’oblio, perché, in quanto “arte della vita”, non può che evolversi con essa. L’obiettivo, dunque, è proprio rimettere al centro del teatro la vita, cioè il processo che sta a monte dello spettacolo, più che il prodotto finale: un processo di creazione e costruzione artistica, ma soprattutto un momento di relazione, incontro e condivisione.

Angelo Colosimo

Che tutti vorremmo al più presto tornare in sala, respirare l’aria del loggione e ascoltare lo scricchiolare del palco, è innegabile; ma è altrettanto evidente che non tornerà tutto come prima, non esattamente. In questi ultimi due mesi si è parlato molto dei possibili cambiamenti cui potremmo assistere in futuro: si ipotizza ad esempio una maggiore inclusione degli strumenti tecnologici, con cui volenti o nolenti ci siamo dovuti familiarizzare ultimamente. Ma si discute anche dei temi: è probabile che nel giro di qualche mese assisteremo al fiorire delle drammaturgie basate sulle esperienze vissute questo periodo, ma in fondo – come Lino Guanciale si chiedeva già alla fine di marzo – ci sarà davvero qualcuno che avrà ancora voglia, alla fine di questa storia, di sentirne parlare? Una possibile soluzione sembra quella della lettura in chiave comica, come suggerisce Angelo Colosimo, che dopo essersi soffermato sulle innegabili difficoltà economiche e di gestione cui verrà inevitabilmente incontro il mondo della cultura in questa fase, sceglie di parlarci dell’unico tipo di spettacolo riferito al periodo appena trascorso che vedrebbe (e su cui lavorerebbe) volentieri: una pièce burlesca, magari, perché no, demenziale. Tutto sommato una delle soluzioni più sagge per parlare di questo periodo grigio sembra rimanga quella di fare spallucce e provare a scherzarci su.

Ludovica Fasciani, Giorgia Renghi

]]>

L'autore

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.