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Zombie ipotetici: note su ”Va Pensiero” del Teatro delle Albe

di Francesco Brusa

Marco Martinelli ed Ermanna Montanari sono maestri del sabotaggio. “Narratori delle pianure”, abili dirottatori di fiumi e correnti, anche nell’ultimo lavoro Va Pensiero rivelano la loro capacità di far confluire in un unico contenitore elementi di diversa densità, spesso opposta. Non occorre far saltare dighe o rompere argini. Bastano piccoli atti di sovversione linguistica e percettiva, semplici (si fa per dire) operazioni di sabotaggio scenico e drammaturgico. Come il teatro che, per una incontrollata proliferazione di consonanti, si fa Politttttttico in un connubio di impeto civile e molteplicità formale, o come un’aria verdiana che, una volta trasposta sul palco, diventa testo e sipario, cesura e rilancio assieme.

Allo stesso modo dei precedenti Pantani e Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, anche l’intreccio di Va Pensiero scava in fatti realmente accaduti, spesso basandosi su dettagli di cronaca e inchieste processuali. Donato Ungaro (Vincenzo Benedetti nello spettacolo, interpretato da Alessandro Argnani) è un vigile di servizio a Milano che decide di tornare nei propri luoghi d’origine, in un piccolo centro della Romagna. Qui, intraprende anche l’attività di giornalista locale, osservando e raccontando la realtà che lo circonda. E la realtà, sotto le apparenze di un tranquillo paese di provincia, si rivela ben presto torbida: emerge un caso di abitazioni abusive, la presenza del mini-clan mafioso dei “cutronesi” impegnato in affari con degli imprenditori locali nonché un progetto di costruzione di una centrale elettrica sulle rive del Po in cui è coinvolto anche il sindaco a spartirsi i dividendi illeciti dell’operazione.
C’è (metaforicamente) nebbia in Val Padana. E – altrettanto metaforicamente ma di una concretezza visiva che raggiunge punte espressive al limite dello splatter – c’è nebbia sul palco. Ermanna Montanari, a impersonare il sindaco della cittadina (la “Zarina”), si presenta in scena con fascia tricolore, dinoccolata e incespicante. I personaggi, illuminati da una luce di taglio che risalta ed esalta i lineamenti conferendo loro una certa spigolosità, sembrano sempre avvolti in una nube di oscurità e vaghezza. Contro questa nube si stagliano, emergono in tutto il loro vigore caratteriale e peculiarità fisica. Ma, così immersi in un’atmosfera soffusa, non li sappiamo collocare nel tempo e nello spazio, la piazza Mazzini evocata più volte nello spettacolo è veramente una, nessuna e centomila piazze della provincia italiana. Siamo quasi dalle parti di un Lynch, o dei fratelli Coen, con la loro capacità di astrarre e “de-localizzare” casi particolar(issimi). In questo luogo-non-luogo onirico, che ha già il sapore dell’incubo, Montanari-Zarina al termine della sua entrata in scena rovina a terra, vomitando. Pare non ci sia altra via che quella scatologica per esorcizzare lo squallore, il “male oscuro” che contagia e corrode i rapporti sociali.

Accanto al sindaco, infatti, sfila una carrellata di figure ben poco edificanti. Edgardo Siroli (interpretato da Roberto Magnani) è il dinamico “ufficio-stampa-PR-spin-doctor” del comune, “vitellone” fuori tempo massimo e sempre in cerca della trovata brillante e provocatoria, fra il guerrilla marketing e Fellini («Immagina la fontana di Trevi a grandezza naturale […] immagina una squadra di ragazze in minishort e magliette aderenti, che avrei già qualche idea su chi scegliere, che fanno il bagno e ballano nella gigantesca fontana ricostruita qui in piazza»!); Antonio Dragone (Ernesto Orrico), ‘ndranghetista trapiantato in terra emiliana con la passione del lusso e delle donne, dalla parola spesso volgare ma ancora di più sagace («U munnu è nu cessu»); la sua amica-amante-collega Stefania Sacchi (Mirella Mastronardi), sguaiata e cafona ma allo stesso tempo competente nel gestire gli intrallazzi finanziari del clan (apostrofata con violenza dalla Zarina per il suo uso del termine «sfizioso»); un po’ a lato di questo “battaglione di cialtroni” troviamo poi Licia (Laura Redaelli), segretaria del sindaco più volte additata come “oca” e che l’oca in effetti un po’ la fa, non fosse per il cinismo con cui decide di mandar giù tutto il marcio cui assiste per intascarsi il proprio stipendio, e Sandro Baravelli (Alessandro Renda), imprenditore che parrebbe porsi qualche scrupolo in più degli altri ma in realtà è in attesa solo di menzogne meglio elaborate per giustificare la propria disonestà.
Dalla parte opposta ci stanno “i buoni”, o forse, molto semplicemente “i non-cattivi”. Sì, perché le Albe – come ci hanno abituato negli ultimi lavori – non tratteggiano personaggi ambigui e di profondità psicologica ma scolpiscono (arche-)tipi. Olmo Tassinari (Gianni Parmiani) è una classica maschera di paese, contadino simpatico e bonaccione la cui testardaggine nulla può scalfire, sincero nel voler risolvere i problemi della comunità (o meglio, il massimo dei problemi secondo lui: le nutrie) ma anche cieco di fronte all’evidenza che qualcosa non va; Rosario e Maria (Salvatore Caruso e Tonia Garante), gestori di una gelateria colpita dal pizzo e che resterà «chiusa per mafia», sono protagonisti di siparietti fra il comico e il verace conditi da un macchiettistico benché efficace accento napoletano; infine lo stesso vigile-giornalista Vincenzo Benedetti spicca, più che per il suo eroismo o per il modo in cui lo fanno evolvere le sfide che gli si parano davanti, per la propria fermezza, per la semplicità con cui oppone ai suoi “antagonisti” sempre il medesimo atteggiamento e inalterato rigore morale. Quasi un Bartleby moderno, preferirebbe comportarsi per come è giusto farlo. Una semplicità che comunque gli costa cara: la Zarina non esita a licenziarlo nel momento in cui scopre segreti troppo scomodi mentre “ignoti” cercano di fermare le sue indagini attraverso lievi intimidazioni.

Lamento civile, invettiva politica, ritratto di un “eroe borghese”, le Albe proseguono sulla strada di un’attitudine formale che lo studioso Gerardo Guccini ha giustamente definito “multidramma”. La robusta narrazione, cesellata da Martinelli con meticolosità chirurgica e che trova nelle tre ore circa di spettacolo una distensione quasi seriale, viene inframmezzata da veri e propri stasimi ricalcati su modello della tragedia greca e dalla riproposizione di cori e arie di opere verdiane. Come dicevamo, non occorre far saltare dighe o rompere argini. Alla compagnia ravennate basta realizzare piccole e discrete modifiche nell’impianto drammaturgico, operare dei micro-sabotaggi teatrali, per far conflagrare prassi ed elementi scenici che parrebbero agli antipodi in un unico contenitore narrativo. Da una parte, la ricostruzione minuziosa dei fatti (sebbene trasfigurati), la dovizia con cui si ricercano dettagli e si snocciolano informazioni con passo da inchiesta giornalistica. Dall’altra, gli affondi sul terreno del mito e dell’epopea, lo sforzo di elevare il racconto spicciolo a poema condiviso. È saltata la casella della Storia. Quella che si viene a creare sul palco è dunque una strana dimensione che oscilla costantemente fra epica e cronaca, cronaca ed epica, senza alcun bisogno di mediazione.
Non è in fondo il cortocircuito percettivo che stiamo vivendo da vent’anni a questa parte? Non siamo – ogniqualvolta tentiamo di descrivere la nostra situazione politica e sociale o di approntare una critica del presente – in scacco fra un roboante storytelling della realtà e la versione depotenziata e meramente fattuale di quest’ultima, in stile saggio Chiarelettere? Con PantaniVita agli arresti di Aung San Suu Kyi e Va Pensiero, il Teatro delle Albe compone una sorta di “trilogia del dissenso”, dove le vicende girano praticamente sempre attorno a una figura che potremmo definire “scomoda”. Il ciclista campione che viene incastrato dai poteri forti del Coni, l’oppositrice birmana che fa della sua stessa vita una continuo gesto di resistenza, il vigile di provincia che crede in un valore profondo di onestà e non cede ai ricatti… il loro essere “scomodi” viene in qualche modo ribadito anche a livello formale. Se il personaggio Pantani brillava sul palco della sua assenza corporea, se Ermanna Montanari infondeva l’icona di San Suu Kiy di una traballante tenerezza, Vincenzo Benedetti ci appare come una figura inadatta tout court. Alessandro Argnani, nel suo restare sempre sulla soglia del personaggio, nel suo ritrarsi a qualsivoglia esigenza di scavo psicologico o di sfumatura caratteriale fa della propria “indolenza recitativa” un segno di insolenza esistenziale, un marchio di inattualità. D’altronde, il vigile-cronista ci racconta spesso di sé al passato. Non solo perché già sa come andranno a finire le vicende narrate, ma innanzitutto è lui stesso a non poter vivere che al passato: il suo destino è inscritto non tanto nelle “gesta” che compie quanto nell’alterità che incarna come persona (nel senso proprio di “maschera”), nella diversità di cui è portatore e che abita con la naturalezza con cui si abita un lieve difetto fisico o una particolare inflessione del linguaggio. Cosa vuol dire essere un dissidente, oggi? Vuol dire, etimologicamente, “dis-sentire”, sentire diversamente, percepire la realtà in maniera obliqua. Questo, sembrano suggerirci le Albe.

Essere radicali = essere radicati. Non è solo andare alla radice dei problemi, ma in qualche modo far parte di quelle radici. Le sette t ci ricordano appunto che “politico” è polis ma anche polemos, conflitto (conflitto di interesse/i, opposizione di veduta/e). Eppure, è l’assenza di conflitto anch’essa una dimensione politica? Un filo distaccata dalla tipizzazione degli altri personaggi, la Zarina è testimone di una sorta di “stanchezza morale”. Sembrerebbe quasi a tutto tondo, non fosse che Ermanna Montanari recita in terza persona, “esternalizza” dubbi e umori nella gutturalità del parlato invece che incarnarli in un carattere. Verso la metà dello spettacolo si rivolge direttamente al pubblico a raccontare il perché (o perlomeno il come) delle proprie scelte poco etiche. Ne emerge un quadro appunto di stanchezza e inedia, di scelta dell’intrallazzo e dell’illegalità come ricerca del minimo dispendio di energie. In tono inusualmente accorato, chiede agli spettatori: «Se voi poteste calpestare la Legge con la certezza che nessuno lo verrà a sapere, che nessuno vi punirà, non lo commettereste quel crimine?»
Difficile dirlo, difficile forse anche porsi la questione. Viene in mente quel «Me l’avete ammazzato voi» che sempre Ermanna Montanari/madre di Marco declamava rispetto a suo figlio in modo altrettanto accorato in Pantani. Ma non è questa una retorica incrociata più e più volte sul piccolo schermo, non sono tutti quei luoghi comuni di cui Martinelli infarcisce lo spettacolo il segno anche di una resa, di un certo distacco (ironico?) che, viene il dubbio, è innanzitutto ciò che fonda la possibilità stessa di rappresentare le vicende narrate? In modo che può sembrare rivelatore, Olmo Tassinari “ruba la scena” almeno un paio di volte, prodigandosi in siparietti comici intrisi di cliché e “mentalità paesana”. Va Pensiero “colora” la scena di mille timbri, mette in campo una scrittura materica senza alcun riferimento visivo alla materia e pare spesso sul punto di autotrasfigurarsi, per mostrarci lo smembramento metaforico di una comunità e degli Io che la popolano. Ma queste energie di dissoluzione, questi principi di decomposizione pittorica à la Bacon – che, per cercare altri riferimenti, a volte paiono spingere l’orgia del potere raccontata sul palco verso il simbolismo grottesco di Todo Modo o Society-The Horror o, ancora, verso quella “danza macabra” di ombre e vuoti spiriti che era Tristesses di Anne-Cècile Vandalem – vengono quasi subito riassorbiti da uno sviluppo narrativo che non concede troppe digressioni e da una rigida tipizzazione dei personaggi che ce li rende sì esterni e “altri”, ma in fondo poco perturbanti.
Sembra cioè che si cerchi di inserire a forza la verità e il giudizio morale in un contesto dove, fra l’assolutezza del mito e la dispersione della cronaca, manca la giusta dimensione storica che possa contenerli (e dunque renderceli riconoscibili). Eppure la Zarina ce lo chiede, voi cosa avreste fatto? Eppure, l’idea di una versione scostumata della Dolce Vita con ballerine in tanga in mezzo a una Fontana di Trevi su note verdiane un po’ ci intriga, un po’ – è il caso di dirlo – “ci sfizia”. A luci accese, prorompe invece il coro del “Va Pensiero” sostenuto con trasporto da una fisarmonica. Le Albe ci accompagnano fino al termine della notte e, pur nello stridore di quello che non è propriamente un lieto fine, non cessano di stringerci la mano. Noi siamo parte del loro disorientamento, di un afflato comunitario che è però anche la cifra di un mancato, forse impossibile, riscatto. Ma, a questo punto, “noi” chi è? I non-cattivi, un popolo tradito, quegli italiani probabilmente non disfatti a sufficienza, non più gabbiani ma “zombie”, ipotetici e potenziali?

foto di Silvia Lelli

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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