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Volterra teatro, “Alice nel paese delle Meraviglie”

di Altre Velocità

Non vogliamo parlare di Volterra. Non vogliamo parlare della pietra delle sue strade, che respinge il sole abbagliando gli occhi e scaldando le suole delle scarpe; la stessa pietra che nei vicoli tortuosi all’ombra delle pareti degli alti palazzi conserva un’improvvisa freschezza. Non vogliamo parlare della Fortezza, l’isola carceraria che si trova su una cima del colle pisano, in fondo a una larga strada in salita, assolata anch’essa alle tre del pomeriggio, quando per gli spettatori del Festival VolterraTeatro 09 scatta l’ora di presentarsi nel penitenziario.
Vogliamo raccontare dell’ingresso in quest’isola, dove si viene spogliati di borse e documenti, uno dei pochi teatri (l’unica tipologia) dove per entrare nessuno paga un biglietto, ma tutti dichiarano il proprio nome e cognome con largo anticipo. È un teatro dove si entra individui e gli spettatori, di fronte all’esperienza artistica, individui rimangono.
Alice nel paese delle Meraviglie – Saggio sulla fine della civiltà è il titolo dell’ultimo spettacolo curato dal regista Armando Punzo, che da vent’anni esatti guida all’interno del carcere di massima sicurezza di Volterra una compagnia teatrale, dove gli attori sono i detenuti, protagonisti che viaggiano attraverso opere letterarie (PinocchioGargantuà e Pantagruel per citare le più recenti) scavando con foga tra le pagine e dentro ai soggetti che le abitano per reincarnarli in un’altra vita, in un altro mondo.
Uomini muscolosi, scolpiti, dipinti talvolta da rifiniti tatuaggi sulla pelle o dal solo colore della propria aura, gli attori della Compagnia della Fortezza, gli attori di Punzo, si trasformano in quest’opera nei personaggi di un’Alice di Danimarca, che nasconde il proprio racconto per lasciare spazio a quello di Amleto. Nel cortile del carcere, grandi banchi scolastici ospitano coppie di scrivani, alunni troppo cresciuti alle prese con la trascrizione dell’Amletoscespiriano. Scrivono incessanti, spiando di tanto il pubblico che invece si avvicina curioso, affamato di sapere che cosa, a chi, con quale finalità quelle mani scrivono parti del celebre testo teatrale. Animali gagliardi, i carcerati non si scherniscono di fronte a tanta avidità di sguardo, e rimangono sprofondati nella loro scrittura, fino a quando il formicaio del pubblico è attratto da una nuova figura. Alto e slanciato, con uno squillante accento napoletano, un bianconiglio irrompe da un angolo “Venite! Venite!” e ci conduce di fronte a un nuovo ingresso.
È l’ingresso di un labirinto, tappezzato di parole, di nuovo il testo di Shakespeare. All’inizio rimaniamo avvolti dal nostro stesso ronzare, il vocìo stupito del pubblico incerto se prendere il corridoio verso destra o verso sinistra, se entrare nelle cellette dove mute figure sostano inquiete, sul punto di iniziare un discorso, un canto, una lettera a voce alta. Incertezza, inquietudine, sospensione del fiato. Nel labirinto di Alice, Carrol scompare, e sulle nostre teste, sotto i nostri piedi, quei grandi fogli bianchi prima scritti dai detenuti ora ci avvolgono nel bianco e nel nero delle parole di Amleto, di Ofelia, Polonio, Gertrude e tutti gli altri fantasmi. Lo spettatore è solo ed è pronto per entrare nell’opera.
Non vogliamo parlare delle camminate su e giù per i corridoi, le traversate tra le onde di pubblico, accalcato ora a un angolo ora all’altro, fisso, immobile, incurante di chi gli sta attorno pur di vedere al meglio possibile la piccola scena nella quale è incappato. Non vogliamo parlare del soffocamento di ciascuno, dell’assenza di aria e campo visivo, delle teste degli altri che diventano barriere rigidissime di fronte al nostro sguardo. Vogliamo ammettere che non sapevamo dove eravamo, se e quando dovevamo trovarci in un luogo piuttosto che in un altro. Vogliamo ammettere che eravamo spaesati, soli: non in un teatro, ma esattamente al centro di un ciclone di domande: Dov’è Alice? Eccola, piccola attrice in turchese, unica donna, unico personaggio muto di questa drammatica bolgia; agisce di soppiatto, trascina talvolta per mano uno spettatore, spingendolo in fuga da una stanza all’altra. E Amleto? Amleto ha contagiato i personaggi del Paese delle Meraviglie con la sua follia, stravolgendo i loro ruoli, affidandogli i propri strazi, le proprie ossessioni di nobile recluso in una fortezza, in una stanza abitata da spettri, dentro la propria bolla di fantasia. Dove siamo, infine, noi? Sotto gli occhi di tutti, ognuno di noi agisce e sceglie, e scegliendo rinuncia a qualcosa. In una sala un attore imbiancato in volto, con tanto di gorgiera e parrucca bianchissime, monologa un brano di Amleto; in un’altra sala una regina di cuori seminuda, dalla pancia abbondante e il petto rigurgitante di peli ricci e scuri, recita un brano di Enzo Moscato, colorando di fondotinta le guance degli spettatori, facendogli l’occhiolino. In una sala c’è un teatro “vero”, allestito con una gradinata e un palco con tanto di arlecchino e sipario: si tratta della sala principe del Teatro Renzo Graziani, direttore del carcere di Volterra prematuramente scomparso, che ha sostenuto Armando Punzo e il suo progetto teatrale sin dall’inizio; in un altro luogo, lo stesso Punzo divora e vomita Genet, mescolando le sue frasi a quelle di Carmelo Bene, di Checov e di altri autori.
Molte le voci e molte le maschere: gli attori sono uomini vestiti da donne, vestiti da cappellaio matto, da Amleto, da Ofelia, nera battona in rosa con rossi stivali di vernice. Sadicamente si offrono allo spettatore in tutta la loro bellezza, al massimo della seduzione, trascinandoci nel profondo della loro finzione. “Ma non cercate storie da noi. Noi siamo la storia. I racconti, le storielle, quelle cercatele a casa vostra!”
Siamo sedotti e abbandonati, coinvolti e respinti, autorizzati ma a tempo determinato. E il senso del tempo è la prima cosa che perdiamo. Perdiamo il conto delle stanze, perdiamo il conto dei personaggi, perdiamo il conto degli attori, il conto degli spettatori, ma ancora di più perdiamo il tic tac dell’orologio, dimentichiamo che non trascorreremo lì un tempo infinito, e non sappiamo dosare i nostri morsi, non sappiamo equilibrare il primo, il secondo, il terzo… rincorriamo le scene senza fretta ma con ansia. E quando suona la sveglia e la fine giunge improvvisa (per qualcuno desiderata), siamo di nuovo fuori dal labirinto (Potremo rientrare, dopo? Adesso che sono tutti fuori? Sarà permesso?).
Siamo di nuovo nel cortile. Gli attori costruiscono la foto finale, una foto di gruppo a colori misti, tridimensionale. Ora sono tutti davanti a noi, fermi, a dirci con quella posa che è finita. Lo spettacolo è finito. Il tempo è scaduto.
Ogni spettatore ritrova il suo gruppo, i volti familiari, le voci confidenziali. La società riappare intatta davanti ai nostri occhi, mentre i fantasmi variopinti di poco prima scompaiono in silenzio, inghiottiti dalle spesse mura di un altro incrollato labirinto.

di Serena Terranova

(foto di Stefano Vaja)

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