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Viaggio al termine del sonoro. "Il regno profondo" di Claudia Castellucci e Chiara Guidi

di Altre Velocità

vuoto che in essa si avverte. Viene il dubbio che quest’ultimo riesca a incarnare l’assenza divina – la forma propria del “trascendente” – più delle sacre funzioni di officio religioso, lì un tempo svolte. Ancor più suggestiva è apparsa l’ex chiesa di San Mattia, bene culturale del Polo Museale dell’Emilia Romagna, quando, per volere dell’associazione culturale Xing, il 14 marzo è divenuta scenario della lettura drammatica di Claudia Castellucci e Chiara Guidi Il regno profondo. Perché sei qui?. Quel vuoto impercettibile, una volta penetrato dalle vigorose onde sonore delle storiche fondatrici della compagnia Sociètas Raffaello Sanzio, si è manifestato in solida e plastica presenza. La scena della performance è semplice e diretta: le due attrici, Castellucci e Guidi, sono in piedi una accanto all’altra vestite uguali, con grembiule e fazzoletto in testa, e tengono nella mano sinistra un quaderno nero. La lettura che prende il via nel giro di pochi attimi è simultanea e in sincrono, secondo una scansione timbrica e ritmica che in breve tempo assume le sembianze di un coro ancestrale, quasi sciamanico. Le due donne sono avvolte in un unico respiro, in una voce doppia che parla “in coro” e crea un sottile effetto di riverbero continuo, orchestrato dal solfeggio che la Guidi impartisce con i movimenti della sua mano. Ciò che dicono ha un sapore antico e incontrovertibile. Si comprende che “parlano” a qualcuno, ma il discorso è rivolto verso un “Tu” troppo estraneo, altro da sé, che non ha corpo, non ha carne e che le voci inseguono, cercano di raggiungere al di là di ogni concreto visibile. Sono parole di Claudia Castellucci, in parte tratte dal suo componimento Uovo di Bocca (in C. Castellucci, Uovo di Bocca: scritti lirici e drammatici, Bollati Boringhieri, 2000), scritto negli anni ’90 e oggetto di indagine dell’ultima fatica editoriale di Chiara Guidi (La voce in una foresta di immagini, Nottetempo, 2017). Ciò cui assistiamo, per la regia della Guidi, è la trasmigrazione del segno scritto nel regno del sonoro – della voce umana – che, nel cambiare forma, prende respiro e corpo fino all’invero simile, all’inatteso: suoni vertiginosi e severi, ma anche striscianti, infoiati e rancorosi, quasi che vogliano, all’improvviso, inghiottire tutto, per poi tornare, mansueti, a chiudersi in piccolo su se stessi, come in un «girotondo». Il movimento spiraliforme che contraddistingue parte della lettura è incalzato delle puntuali domande retoriche che disseminano il componimento e sulle quali è giocato questo confronto titanico, quasi “alla fine del mondo”, con un’entità astratta – forse Dio. Due “luogotenenti” in divisa, se si presta attenzione a ciò che è riportato nel foglio di sala e al soundscape di esplosioni di bombe in lontananza, che giunti all’ultima e definitiva guerra “dell’uomo contro l’uomo”, pretendono la rivincita della parola e del pensiero su Chi è da sempre loro – o nostro – creatore e padrone. Un resa dei conti dai toni violenti, quasi sanguinolenti in cui a essere posto in ballo è il senso stesso del mondo, delle cose, a partire dalla propria libertà di esseri umani. La Castellucci e la Guidi inseriscono poi, a mo’ di intermezzo “pubblicitario” della performance, delle proiezioni video in cui, sulla musica degli Autechre (gruppo inglese di sperimentazione elettronica), si susseguono le scritte dei nomi e degli slogan pubblicitari di aziende locali di vario tipo. La contrapposizione tra la parola-suono delle attrici e la parola-immagine fatta di luce crea, a conti fatti, un cortocircuito tra le forme del linguaggio verbale e gli usi che di esso è possibile farne che ironicamente svela la disarmante banalità di senso propria del “visivo” cui il nostro sguardo soggiace quotidianamente. La lettura Guidi-Castellucci procede spedita oltre questi intermezzi perdendo passo dopo passo l’iniziale forma compatta e ieratica, quasi sgretolandosi su se stessa: le attrici si rivolgono l’una all’altra, si muovono nello spazio scenico, ruotano su se stesse, la Guidi gioca con i suoi “effetti sonori” lanciando a terra piccoli petardi che esplodono, facendo cadere l’asta del microfono e urlando. Non c’è rabbia o sentimento, ma è solo l’euforia del gioco a essere messa in scena, con tutta la sua forza distruttrice e allo stesso tempo creatrice. Un gioco forse inutile, senza dubbio infantile – quello di due bambine che si fronteggiano, si scontrano e soprattutto si parlano senza capirsi: danno fiato a parole che si rimbalzano di continuo senza trovare pace, alla ricerca di un significato che si stenta a riconoscere. «Ciao». – Ciao? Che vuol dire Ciao? Dillo meglio perché così non si capisce. Ciao, si ciao l’ho detto. No, così non va bene. Ciao. Si congedano così dal pubblico, ritirandosi nel buio “delle quinte”, Chiara Guidi e Claudia Castellucci. Noi rimaniamo “sepolti” dal vuoto e dal silenzio che avvolge la navata di San Mattia. Sotto gli occhi di tutti lo spazio basilicale si è senza dubbio manifestato nella sua dimensione più sacra, quella immateriale: un’immaterialità estremamente viva e palpabile, dalle pareti robuste, appunto profonda, dove a entrare non sono i nostri corpi ma, forse, ciò che di più umano esista. Il pensiero in forma di voce.

Vittoria Majorana

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