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Una questione di prospettiva. “Lolita” di Babilonia Teatri 

di Francesco Brusa

Ancora una volta, è una sfida più che uno spettacolo quello portato sul palco da Babilonia Teatri che, dopo il recente Pinocchio, affondano ora la propria ricerca nello scandaloso romanzo di Nabokov.
Una sfida ai codici, sia linguistici che visivi, com’è consueto nella già sufficientemente delineata poetica della compagnia. Una sfida all’atto recitativo e ai processi di significazione del corpo, che alla mediazione del gesto antepone costantemente la spontaneità di un esserci fisico e concreto. Una sfida, infine, allo spettatore e alla sua comprensione di quale sia la giusta collocazione rispetto a ciò che viene mostrato. Perché, in fondo, questo sono le creature sceniche dei Babilonia: dei non-personaggi in cerca di luogo, indubbiamente al di fuori della classica quarta parete ma non del tutto ancorati alla realtà (o a una dimensione fittizia che la ricalchi fedelmente).

Olga Bercini, 11 anni, attraversa le suggestioni del libro o, per meglio dire, ne è attraversata. Lo spettacolo è lei, né più né meno, con le sue fattezze, i suoi tormenti anagrafici, i suoi dubbi e le sue fantasie che, con grammatica incerta, riversa su un diario proiettato sullo sfondo. Entra in scena reggendo un gelato, mentre vengono annunciate le regole del “gioco” che farà col pubblico. Il “gioco” è appunto un’esposizione di se stessa tanto sincera quanto asettica, priva di qualsiasi compiacimento o complicità. Scandita da quattro canzoni (che la ragazza di dice di voler dedicare agli spettatori), essa si snoda tra parole, sempre pronunciate a mo’ di elenco ritmato, e azioni, mosse da arti marziali e “playback” improvvisati, fino al suicidio finale della protagonista. Lolita, quella che è una figura dell’immaginario collettivo ancor prima che il personaggio di un romanzo, non c’è.

Si dirà, Lolita è un pretesto, una provocazione, un fantasma della nostra mente. A essere precisi, Lolita è la presunta immaturità del desiderio e il desiderio, lungi dal rappresentare una mancanza e una tendenza definite, è la capacità di immaginare il proprio futuro scegliendone il senso, cosa che la pedagogia legislativa fa coincidere con la conta dei compleanni. Se in Nabokov tutto ciò assume una connotazione sessuale, arrivando in maniera più diretta, ma in fin dei conti più facile, allo scandalo, nella Lolita di Babilonia Teatri quest’ultimo ha invece a che fare con la reale biografia di Olga, non con l’incerto doppio che, pur tenendosene a distanza, inevitabilmente crea sul palco. Anzi, ha a che fare con la pretesa di creare tale doppio e con la fatale impossibilità di riuscirci completamente. È uno scarto infinitesimale, ma prezioso, poiché su di esso si impernia tutto il peso dell’operazione e il significato di ciò che vorrebbe comunicare.
Il turbamento nei confronti dello spettatore, se mai ce n’è uno, deriva infatti dall’insinuarsi sempre più incalzante della domanda: ma non sei troppo piccola per (interpretare un ruolo, giocare col sangue, sia esso dovuto al menarca o a una ferita, immaginare la tua propria morte?), che slitta ben presto nella consapevolezza di essere noi troppo grandi per (credere alla finzione, fare i conti con la sessualità, decidere della nostra propria vita), scoprendo che l’immaturità della protagonista è in realtà figlia della nostra presunzione. Si genera così un’inquietudine ancipite, al tempo stesso teatrale, perché è sul teatro e sul suo farsi che verte, e reale, perché è dalla tangibile giovinezza dell’attrice e dai limiti che essa comporta che trae linfa e vigore.

Tuttavia, se questa impostazione di fondo è chiara e efficace, meno lo sono i mezzi che dovrebbero sostenerla e darle forza nello spettacolo, il quale, invece di crescere, si affievolisce col suo sviluppo (nonostante il finale faccia di tutto per  scongiurare tale possibilità). L’apparente amoralità con cui vengono inseriti elementi “pop” e “trash” (che nelle produzioni precedenti diventava intelligente cinismo) rischia ora di degenerare in un paternalismo diffuso, a tratti stucchevole quando non direttamente volgare. Il rifiuto di ogni maschera si rivela infatti essere, anch’esso, una maschera e la critica verso i meccanismi della spettacolarizzazione del sé scompare, lasciando in piedi solo il proprio simulacro. Tanti sono i nodi irrisolti perché i presupposti iniziali possano dispiegarsi in tutta la loro dirompenza: a quale realtà ci si rivolge, una volta usciti dalla finzione? Fino a che punto viene respinta l’autorialità? Che ruolo è riservato allo spettatore?
I Babilonia sembrano voler evitare tali questioni, sperando forse che a sviscerarle sia il pubblico, il quale rimane invece disorientato di fronte ad armi espressive eccessivamente spuntate nonché indecise nei confronti dei loro bersagli. Lo shock si stempera allora in perplessità e lo scandalo in moralismo rassicurante, poiché manca, sia da parte di chi assiste che di chi agisce, l’adesione a una prospettiva che li alimenti, proprio nel momento in cui se ne avverte maggiormente l’urgenza. In altre parole, l’assenza di un “dispositivo” (o, tocca dirlo, di un “codice”) che tramuti in come il cosa si è visto, rischia di impedire una fruizione che, oltre al risultato compositivo, possa tener conto anche del processo per arrivarvici, dando così un senso, col valore aggiunto del secondo, alle carenze del primo.  

(foto di Sara Castiglioni)

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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