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Un patchwork di sguardi: "La classe operaia va in paradiso"

di Altre Velocità

La classe operaia va in paradiso, spettacolo con la regia di Claudio Longhi e adattamento di Paolo di Paolo, in scena lo scorso febbraio all’Arena del Sole di Bologna. Cosa ne è uscito da questa mescolanza di elementi, concetti, riflessioni? Di seguito qualche assaggio dei diversi sguardi della redazione di Bologna Teatri. La fabbrica sul palcoscenico Quando si dice “epico” La questione lavorativa è ormai centrale ai nostri tempi e non riguarda solo le nuove generazioni; il problema legato al diritto del lavoro è tutt’altro che risolto, presente già negli anni Settanta, epoca in cui viene prodotto il film. Il testo che Paolo Di Paolo ha tratto dalla sceneggiatura del film si trasforma in un’operazione di collage testuale attuando una stratificazione dei materiali filmici. Il regista (Longhi) non risparmia riferimenti ai grandi del passato, lasciandosi certamente ispirare dagli autori che operarono nel campo del teatro politico. Il tempo in scena è discontinuo e frammentato; la forma è sicuramente epica (nell’accezione brechtiana) e lo si evince da alcuni elementi registici come: le conversazioni di Petri e Pirro sulla costruzione del film che il regista rende parte dello spettacolo, oppure dai continui passaggi della scena da un luogo all’altro attraverso un mutamento a vista della scenografia (ideata da Guia Buzzo) intervallati dalla proiezione di alcuni spezzoni del film su una grata-schermo frontale allo spazio del proscenio. Ma la grata funge anche da blocco scenico chiudendo lo spazio interno del palco, ricreando simbolicamente una sorta di “ambiente-galera”, uno spazio chiuso, claustrofobico, come adotta lo stesso Petri all’interno del film mettendo in risalto quello “status-prigioniero” della classe operaia all’interno della fabbrica (anche nelle scene all’aperto è sempre presente un cancello o delle sbarre che rievocano quel senso di claustrofobia), che si conferma tematica centrale del film. Le proiezioni sullo schermo, idea presa in prestito da Piscator, rievocano il contesto; questo aiuta il pubblico ad avere un punto di vista analitico e distante permettendo al regista di «raccontare il presente attraverso qualcosa che lo allontana» (Brecht). La musica è eseguita dal vivo recuperando le composizioni originali di Morricone mischiandole a brani dell’epoca, come le canzoni di Fausto Amodei.

Maurizio Dall’Acqua

Una, nessuna, centomila gabbie. Questioni di sguardo su La classe operaia. Un grande reticolato in ghisa e plexiglass chiude lo spazio scenico dello spettacolo. Terminata l’iniziale funzione di schermo per proiezioni e accese le luci di scena, ecco rivelatane l’essenza: una gabbia al cui interno degli operai lavorano a un nastro trasportatore. Il ricordo inevitabilmente va alla terribile e spietata cancellata del film di Petri che chiude e strania il luogo infernale della fabbrica e del manicomio. Eppure, questa rigida struttura scenografica, nel corso dello spettacolo sembra assumere una sembianza altra: quella di un immenso e ingombrante display che “pre-organizza” la visione scenica, fissandola una volta per tutte secondo precise direttive e “intersezioni”. Un pendant della ben più pesante e astratta cornice drammaturgica che con “didascalie” e commenti media continuamente lo sguardo dello spettatore, precludendo la possibilità di lasciar accadere qualcosa in scena. Il reticolato è a tutti gli effetti una cornice-schermo: visibile all’occhio di chi guarda, “incasella” e, forse senza troppa efficacia, “analizza”; e invisibile all’occhio di chi vi sta dentro, ovvero gli attori che, pur condividendone lo spazio scenico, non entrano mai in relazione con essa. Una “gabbia” quindi che sortisce verso lo spettatore un effetto simile a quello della famosa “scatola luminosa”, che nel film di Petri “imbambola” e tinge di blu i personaggi e gli interni domestici. In ogni caso molto lontana dalla “gabbia”, ben più tremenda e reale, che tenne prigionieri gli operai della B.A.N. e contro cui il regista, con la sua telecamera, non esitò invece a “scagliarsi” con tenacia e veemenza espressiva.

Vittoria Majorana

La scenografia: tra Ronconi, Brecht e Piscator La scenografia de La classe operaia va in Paradiso per essere compresa e analizzata va considerata come divisa in due parti: una prima, fissa, composta da oggetti e praticanti materialmente presenti sulla scena; una seconda, mobile, composta da proiezioni di didascalie e video effettuate sulla velina che divide il palco in due aree. La parte fissa è posizionata sul fondo del palcoscenico, comprende un nastro trasportatore utilizzato dagli attori/operai (immagine che rimanda al lavoro manuale alienante delle fabbriche), utensili e postazioni di lavoro, un podio dotato di ruote utilizzato dal supervisore della ditta che, dalla sua posizione sovrastante, sorveglia gli operai. La parte mobile invece viene utilizzata in vari momenti in maniera “straniante”, interrompendo il corso della narrazione per evidenziare situazioni o temi rilevanti. È importante sottolineare che le proiezioni non includevano solo video o filmati ma anche titoli e didascalie, che ricordano il lavoro di Piscator e Brecht, il primo rispetto all’uso del cinema e dei filmati, il secondo per quanto riguarda l’utilizzo di titoli e didascalie esplicitati in scena. Un altro riferimento essenziale a mio avviso è Luca Ronconi (di cui il regista Claudio Longhi è stato aiuto-regista) le cui scenografie, in particolar modo quelle di Lolita, vivono della contaminazione tra praticanti semoventi e proiezioni video.

Francesca Lombardi

Il lavoro degli attori e uno scontro tra Volonté e Guanciale I precedenti interpreti hanno posto l’asticella della bravura molto in alto, tanto da far sembrare impossibile superarla, o quantomeno raggiungerla, invece alcuni ce l’hanno fatta. Questo è il caso di Lino Guanciale, nei panni di Lulù Massa, che nonostante l’imperiale interpretazione di Volonté nel film è riuscito a scrivere una nuova versione del personaggio. I minimi gesti, i tic nervosi, gli improvvisi cambiamenti di voce hanno reso l’interpretazione di Guanciale unica e diversa da quella di riferimento, mostrando un qualche lato “umano” di incertezza e spaesamento, senza perdere però l’identità di Massa-operaio. Ma Guanciale non è l’unico la cui interpretazione è stata degna di nota. Lidia, precedentemente interpretata da Mariangela Melato e ora da Diana Manea, ha perso il ruolo di moglie “passiva” del protagonista, acquistando spessore e diventando un’unione tra la donna sottomessa degli anni ’70 e la donna contemporanea con un minimo di diritti in più. Lo studente (Eugenio Papalia) non ha rappresentato il “ribelle” rivoluzionario, bensì l’istigatore, il cervello dell’operazione, governatore della macchina che travolge le vittime, ossia gli operai oppressi delle fabbriche. Il “cantastorie” (Simone Tangolo) infine è l’unica aggiunta innovativa, inaspettata e non lineare nel racconto, una nota di colore leggera e significativa. Personalmente avrei lasciato intoccata la trama di Petri, aggiungendo semplicemente questo “Cantagallo” coinvolgente e molto apprezzato.

Eleonora Poli

Intermezzo Citazioni di citazioni «Chiunque voglia riflettere sul teatro e sulla rivoluzione dovrà incontrarsi fatalmente con Brecht» – Roland Barthes In questo spettacolo c’è Brecht con i suoi mandolini e c’è la rivoluzione. Nel suo denso groviglio di allusioni e citazioni c’è chi, con Lenin, si chiede «Che fare?», come entrare in paradiso? «Diamo inizio al Paradiso. Siamo pronti per il Paradiso adesso! Non aspettiamo centinaia di anni, non aspettiamo di arrivarci in cinquant’anni o dopo la rivoluzione… Adesso! Questo è il nostro momento rivoluzionario!» – The Living Theatre C’è chi chiede il «Paradiso ora». Ma nel sovrastarsi delle voci che indicano la via, degli studenti, dei sindacati, la voce degli operai rimane poco più che un bisbiglio. Lulù Massa cerca la via per il paradiso, ma la trova solo nel sogno, nell’evasione dalla gabbia della ragione borghese. «Un bellissimo sogno, Rosaura, davvero / un bellissimo sogno. (…) / Ma, quanto a questo degli operai, non c’è dubbio: / esso è un sogno, niente altro che un sogno» – Pier Paolo Pasolini Come il sogno di Rosaura quello di Lulù rimane un sogno. Nella nebbia bianca che si spande per il palco, la classe operaia sfonda le mura del paradiso. Tuttavia sulla catena di montaggio i pezzi continuano a scorrere. Inesorabile la rotaia li conduce, accompagnati dal nostro sguardo, fino ai titoli di coda del film, che nello spettacolo ritornano ciclicamente, come se non dovesse mai avere fine.

Matteo Boriassi

Siamo tutti sulla stessa “fabbrica” In un paese in cui il lavoro costituisce il primo articolo della Costituzione e si pone a fondamento della Repubblica, è il teatro a dare spazio a una discussione costruttiva sul tema, di certo non i programmi elettorali delle ultime elezioni politiche, vaghi e confusi. Il palcoscenico affronta la tematica lavorativa a partire dalla riproposizione del film La classe operaia va in paradiso: sono gli anni ’70 quando viene proiettato nelle sale cinematografiche; è il 2018 quando Longhi e Di Paolo adattano il film al teatro. In scena un nastro trasportatore e un’impalcatura diventano sineddoche di una fabbrica; gli operai si muovono ripetendo sempre le stesse mosse, un tutt’uno con la macchina. A venir meno non è solo il rispetto per la persona, ma la persona stessa, totalmente alienata dai ritmi della produzione. Lulù perde il dito, Lulù impazzisce. Lulù non sopporta più. Si unisce alla lotta! Più soldi e meno lavoro! Lo spettacolo non è una semplice trasposizione nostalgica, il film, scomposto, si fa pretesto per aprire a squarci di riflessione sull’oggi, che portano a chiederci: cosa è cambiato, in fondo? Certo, la catena di montaggio è superata e così il cottimo, ma in cambio ci è stato dato precariato, disparità salariale, poca sicurezza, contratti a chiamata, a giornata, a “vieni in prova, poi chiamerò un altro”. Il rispetto per la persona sempre lo stesso, spesso siamo un numero, nulla più. Lo spettacolo ci scrolla dal nostro sonno, ci porta ad aprire gli occhi: provoca una certa angoscia rendersi conto che, pur muovendoci, siamo fermi. Spaventa perdere ogni speranza in un futuro lavorativo sicuro e conforme ai propri sogni. Per cambiare le cose però bisogna provarci, almeno, uniti, perché, in fondo, siamo tutti sulla stessa “fabbrica”. Negli anni ’70 qualcosa si era mosso. E ora? Perché spaventa così tanto combattere insieme per il Paradiso?

Ilaria Cecchinato

A teatro come al cinema, gli studenti non vanno in paradiso Nel 1971 tra tutti gli angoli di quel vasto assortimento politico che era la sinistra italiana la frangia studentesca e per estensione la sinistra extraparlamentare furono quelli che ebbero più da ridire sul film di Petri. Gli studenti armati di megafoni che dovevano rappresentare limiti e contraddizioni del movimento vennero definiti delle macchiette dai più e Claudio Longhi e Paolo di Paolo hanno ora l’occasione di tornare sul luogo del delitto. In effetti la volontà di decostruire l’opera per riflettere sul contesto di ideazione e di accoglienza del film è presente sin dal prologo, soprattutto nella messa in scena di reali discussioni tra spettatori del passato e del presente. Peccato che questa riflessione non tocchi mai davvero quei personaggi tanto criticati, caricature erano e caricature rimangono. Provano a infilarsi tra il pubblico, lanciano manifesti sulla platea e cercano di farci sentire di fronte al cancello della fabbrica assieme a loro ma nulla di più. La ricontestualizzazione e riflessione sul movimento studentesco non aggiunge nulla a quanto detto al cinema nel 1971, chi ha disprezzato quella concezione allora la disprezzerà anche a teatro. Se l’intenzione era invece una riproposizione fedele dello sguardo eterodosso che Petri e Pirro avevano del fenomeno tutto si riduce a una constatazione piuttosto amara: gli odierni movimenti studenteschi aderiscono sempre di più alla visione macchiettista di quei personaggi. La caricatura non si è avvicinata alla realtà, è stato il tempo ad avvicinare la realtà alla caricatura.

Mattia Napoli

Per non essere un bullone «Questo film pasticcione in cui Petri, Pirro e Volonté infilano di tutto, e in dosi massicce, a blocchi slegati, preoccupati di mantenere le scarpe in più staffe. Borghesi padroni proletari estremisti sindacalisti tutti ci troveranno un po’ del loro, per non contare i vari “teorici” e “specialisti” della condizione operaia, della condizione umana, del sistema (…)» Così Goffredo Fofi commentò il film La classe operaia va in paradiso in «Quaderni Piacentini». Quarantasette anni dopo, Di Paolo, Longhi e Guanciale ripropongono il tema della classe operaia portandolo dalle sale cinematografiche ai teatri italiani. Attraverso il personaggio di Lulù Massa, un uomo privo di coscienza politica, campione del cottimo e dell’etica del lavoro, si esibisce sul palco l’alienazione del soggetto-operaio ripartita fra i macchinari in fabbrica e la televisione nella dimensione domestica, fino all’incidente e la scelta politica di non voler lavorare. A questo, Longhi e Di Paolo aggiungono una serie di elementi culturali che mettono in risalto il contesto sociale e politico in cui nacque il movimento operaio: da La ragazza Carla di Pagliarani a Porci con le ali di Lombardo Radice e Ravera, Ottieri e altri scrittori e poeti “olivettiani”. Il tutto stemperato da un “cantagallo” che ripropone e attualizza alcuni brani di Fausto Amodei introducendo i concetti economici a cui si rifacevano le contestazioni operaie. Per quanto le categorie in scena si rifacciano ad un’idea di lavoro inattuale, i due registi riescono a non chiudersi in una mera celebrazione del passato, ma a offrire lenti per comprendere il presente mostrando come alcune dinamiche non siano del tutto superate ma abbiano semplicemente mutato forma acutizzandosi. Chissà cosa direbbe oggi Fofi sulla riproposta teatrale del lavoro di Petri e Pirro. All’epoca ne riconobbe il merito di aver portato il cinema dentro la fabbrica, ritenendo tuttavia che un vero film sulla fabbrica dovesse ancora essere fatto. Allo stesso modo potremmo riconoscere a questo spettacolo di averci aiutato a ricordare un paese in cui il “volere tutto” fu un obiettivo concepibile, che partiva dagli operai per arrivare al cielo, ma dove ad essere ancora da fare è una nuova idea di “classe” o “movimento”. Cercare di uscire dalle logiche brevi e immediate dei social racchiuse in “tweet” e “mi piace” per riscoprire il senso del confronto, della dialettica, della discussione e costruire visioni alternative che prevedano utopie migliori che quelle di, per dirla alla Lulù Massa, un funzionale bullone, una pompa o una vite di un’unica grande fabbrica quotidiana.

Ornella Giua

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Una risposta

  1. Dispiace vedere scritto Che le musiche sono di Morricone … dispiace perche il lavoro fatto è stato quello di dare allo spettacolo una colonna originale che si muove all’interno della parafrasi … della citazione di altre fonti (Morricone e Vivaldi) e altre musiche in quanto tutto l’impianto narrativo è stato costruito sulla “citazione” che diviene “altro da se”. Ma non c’è solo parafrasi
    Ci dono brani oroginali
    C’e Un discorso conplesso e articolato
    La musica di scena dello Spettacolo de “La classe operaia” si muove su quel terreno Molto Difficile che è la parafrasi …
    L’impianto narrativo musicale è ampio e complesso e si muove su diversi piani narrativi e Sonori. Dal violino al pianoforte all’organo all’ensemble d’archi … Tra la citazione di fonti che hanno fungono Da spunto narrativo (poi rielaborato e riarrangiato) a brani inediti costruiti apposta per la scena (Militina, la Ragazza Carla e il Finale solo prr citarne alcuni)
    mi dispiace e mi rammarica che questo aspetto non sia stato minimamente colto
    Un saluto
    Filippo zattini – compositore, musicista e arrangiatore delle musiche de “La Classe Operaia”

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