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Un diario per l’estate #5. Ossessioni e fuliggine

di Altre Velocità

Appunti, pensieri non ancora del tutto formalizzati, suggestioni, ipotesi di discussione a partire dagli spettacoli visti. Una forma aperta, non saggistica, un racconto per frammenti ospitato una volta alla settimana, una scrittura quasi in presa diretta per provare a testimoniare la complessità e diversità delle proposte teatrali del presente.

Da un giardino coi muri alti

All’autore non bastano i personaggi né le didascalie che vanno esplicitamente recitate. All’autore servono anche le note a piè di pagina, è lì che si rivolge a noi e indica piste, e suggerisce accostamenti. Ho “ascoltato” per la prima volta Cenere di Stefano Fortin alla Sala d’Armi della Biennale Teatro 2023, nella mise en lecture a cura di Giorgina Pi, con il suo ensemble di attori e attrici dislocati come in un studio di registrazione, quasi un radiodramma dal vivo per un’evocazione plurifonica di voci. In Cenere, ci viene detto, cade costantemente una grigia fuliggine che rischia di riempire tazze e bicchieri. Si tratta di un testo che ha vinto la sezione drammaturgia della Biennale College Teatro 2022 (insieme a Addormentate di Carolina Balucani), frutto di una selezione della direzione e dopo che il suo autore ha preso parte a un workshop con Davide Carnevali. Cenere l’ho poi letto una prima e una seconda volta, e chissà se quello che racconto proviene dalla prima impressione “dal vivo” o dalla seconda o dalla terza lettura, o ancora dall’invenzione autonoma della memoria. Cade una grigia fuliggine, quella del vulcano islandese di qualche anno fa, ma attenzione a non pensare ai film apocalittici, non è questo lo scenario, avverte l’autore. Gli dobbiamo credere? Nel primo quadro ci sono due genitori, uomo e donna, che discutono dell’allontanamento del loro figlio, ormai divenuto grande. Al cinema con loro non ci vuole più andare. Nel secondo, dopo che il primo si è concluso con un “tonfo” al piano di sopra (dove vive il figlio), sono tre poliziotti a dialogare. Stanno seguendo un protocollo: segnalazione, sopralluogo in casa, fotografie e comunicazione per aggiornare i dati ufficiali; tra le righe si intuisce che i dati sono quelli di persone scomparse, come non pensare ai bollettini quotidiani del Covid? No, non è il Covid. C’entra invece qualcosa il figlio, c’entra quel morto al piano di sopra. Ogni trenta/quaranta secondi squilla il telefono, nessuno risponde. Sibilo acustico della segreteria, l’ansia cresce, sono i genitori che vorrebbero avere qualche cenno dal figlio. Terzo quadro, come un lungo nastro di Krapp. Ascoltiamo la voce del personaggio chiamato «vittima», ha la stessa voce dell’autore, nella mise en lecture il notevole Valentino Mannias, con lui Sylvia De Fanti, Giampiero Judica, Francesco La Mantia, Alessandro Riceci, Giulia Weber e con l’ambiente sonoro generato live da Valerio Vigliar, un’impressionante orchestrazione di suoni che gradualmente leva aria. Il testo si chiude, dicevamo, con un soliloquio stream of consciounnes dove affiorano le ritualità di provincia di una vita vissuta in camera al piano di sopra, emerge un rancore generazionale e si comprende che c’è stato un suicidio, con l’agnizione della cronaca nera (il Messaggero Veneto: un trentenne si è tolto la vita scrivendo una lettera ai genitori) e con la rivelazione che tutte queste parole, quasi un nuovo teatro di parola Pasoliniano, sono state scritte per noi dall’autore nella solitudine del suo ordinato giardino.


Fortin è autore e interprete del suo testo. È lui che parte da Pasolini, il primo quadro dovrebbe infatti aprirsi con una tv accesa sui funerali del poeta, e così dare alle parole l’impronta di quel corpo cancellato, di una memoria che fa difetto perché non può comporsi. Nel quadro dei poliziotti Fortin interviene per suggerirci Carlo Giuliani (e almeno anche Federico Aldrovandi, e Stefano Cucchi, giusto autore?), si spinge verso l’autocontestazione dell’onnipresente uso dell’io, ammettendo l’impossibilità di parlare di qualcosa che non lo riguardi in prima persona (non riusciamo più a parlare degli altri, come scrive Simonetti a proposito dell’autofiction in La letteratura circostante); resta però ad altezze letterarie e mai critico-cronachistiche, addirittura convocando Heiner Müller e l’immagine di stanze cieche piene di specchi («Io non sono Amleto», così inizia Hamletmaschine, «Io sono Ofelia e non ne posso più di parlare di me in prima persona», si ascolta in Cenere). Eppure non è una visione della catastrofe, non è solo crisi climatica e non è del tutto legittimo rifarci alle narrazioni che forse un po’ ci consolano (viene in mente Senza trauma di Daniele Giglioli): è sempre Fortin a portarci lontano dalla post-apocalittica Strada di McCcarthy, per esempio, o dalla nevicata che uccide dell’Eternauta. No, non siamo in quelle sponde, ma scrutiamo i luoghi dove manca l’aria tutti i giorni senza i cataclismi, senza alcun surplus di esperienza. Siamo forse nel giardino dell’autore, a Este, provincia di Rovigo, con i muri alti per proteggersi dagli sguardi dei vicini, siamo con lui dentro a giorni senza relazioni, senza ambizioni, senza obiettivi. È da lì che ci parla Fortin, con una voce che ha tratti comuni con la ritmica di Vitaliano Trevisan, con le monologie di Thomas Bernhard, con le confessioni di Spike Lee. È da lì che ogni giorno ci scrive, stracciando tutte le parole alla fine della giornata.

E ora, proprio adesso, dove siamo, per te, Stefano? Ora che ascoltiamo, ora che queste parole si sono fatte pubbliche, ora che abbiamo capito, come ci dici, che il teatro è l’unico luogo dove non esiste la morte, ora che ci hai portato con Giorgina anche di fronte a quell’iperoggetto che è Roma oggi (c’è una didascalia che parla di Roma, e sembra scritta apposta per essere “ri-detta” da chi ha fondato l’Angelo Mai, da chi ha occupato il Valle, nella città dei gorghi della politica e dell’iper-rappresentazione), ora che ci hai instillato questa ipotesi del fine vita come forma di paradossale vitalistica protesta generazionale, ora che hai rischiato tutto facendo, unico forse in Italia, un nome e un cognome di un “responsabile” del disastro (teatrale) in cui viviamo. Ora, Fortin, cosa ci chiedi dopo averti ascoltato? Scrivici ancora. Lorenzo Donati

Courtesy La Biennale di Venezia ph. Andrea Avezzù

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Immerse nella penombra e avvolte in pesanti vesti grigie, tre figure sostano distese come salme, l’una accanto all’altra, quasi fossero una sola entità. Abitano la penombra di un’atmosfera fredda e algida, come anime recluse, incatenate, sospese in uno spazio-tempo immobile. Sussurrano affannate, quasi incapaci di prendere pieno fiato, sussultano in cerca di una voce chiara che metta ordine a parole e pensieri confusi.

Si apre così Cuspidi di Valerio Leoni, vincitore del bando Biennale College Teatro Registi under 35, spettacolo che ha debuttato lo scorso 17 giugno in occasione della 51esima edizione della Biennale Teatro di Venezia. È il racconto di tre individualità rinchiuse in loro stesse, al culmine di un dolore che le ha portate, ciascuna, a un’ossessione da cui non riescono – o forse non vogliono – uscire. Il bozzolo dentro il quale sono aggomitolate si scioglie e, come particelle di uno stesso atomo, si spargono nello spazio come se ognuna fosse attratta da un proprio personale centro di gravità, talmente forte da immobilizzare. Anche lo spazio si spezza, frammentandosi in tre sezioni, abitacoli di queste anime intrappolate nell’emozione che le tormenta: c’è Urla (Sofia Guidi), che vive in una perpetua confusione espressiva, impaurita dalla relazione con l’altro e con il mondo esterno, cade a terra, si ricompone, barcolla come stordita o forse ubriaca, ha bisogno di aiuto ma non lo chiede e si rassicura dicendosi che ce la può fare; c’è Polvere (Sara Giannelli), incapace di lasciare andare il passato, si stringe a un baule impolverato pieno di ricordi, cimeli di un tempo che non può esistere più, e attende invano qualcuno che «arriverà domani»; e infine c’è Scatole (Jacopo Provenzano), ossessionato dal controllo, dall’ordine e dalla perfezione, spaventato da tutto ciò che non ha nome e definizione, etichetta e cataloga ogni cosa compulsivamente illudendosi di poter avere in questo modo una qualche presa sul mondo. Sebbene la recitazione risulti eccessivamente caricaturale, l’intento è restituire, nella voce sconnessa e interrotta e nelle posture scomposte e goffe, la fragilità di queste identità.

Sono tre interiorità paranoiche, ingabbiate in loro stesse tanto da non riuscire a vedere fuori dal Sé: disagio e malessere hanno preso il sopravvento sulla persona, trasformandola in un fantasma sospeso in un loop destinato a ripetersi all’infinito. È un tempo collassato su sé stesso, quello di un presente dettato dallo “scroll” incessante di migliaia di dati e di informazioni che, a un certo punto, piovono impazziti e incontrollati sui pannelli rettangolari posizionati al fondo di ogni “abitacolo-teca”. A governare il flusso – e così il pianeta e l’uomo – sono strambe figure vestite di nero e dagli enormi occhi bianchi a palla, buffe e inquietanti al tempo stesso, che registrano su taccuini le vite tradotte in numeri e metadati. Ma è solo una parentesi (un po’ didascalica) nella “cabina di comando virtuale” che presto si dissolve tornando a dar spazio a tre “solitudini” che riappaiono di fronte al fluire incessante della pioggia di informazioni: ne vengono travolte senza riuscire ad afferrare nulla e scivolano, senza trovare voce, nemmeno quella per chiedere aiuto; ma forse perché, in fondo, non lo cercano.

Raggiunto l’apice estremo dell’ossessione, le tre solitudini sono guidate dalla stessa rivelazione: per uscire dall’impasse serve rompere con certe concezioni sociali e culturali ingabbianti, quelle che definiscono un’identità sulla base del saldo del conto in banca, del lavoro, o di ciò che non è in grado di fare. L’unica soluzione per ritrovare la propria essenza di individui complessi e unici, per ritornare a un’autenticità dell’esistenza, si rivela d’un tratto lucida e disperata: le tre anime non possono far altro che azzerarsi, scomparire. Annullarsi per ricominciare. È una morte quella a cui vanno incontro mentre si spogliano e si fanno ombre, conquistando un silenzio che le rende finalmente leggere. La voce che andavano tanto cercando non può trovarsi nel brusio e nella condizione presente, perché quel che davvero ricercano è una Parola fondativa («in principio era il Verbo», dice Scatole), in grado di affermare e definire, di investire d’esistenza cose e identità. Così, come falene nel buio, le tre anime sono attratte da una luce lontana e intensa, calda. Cuspidi si rivela un ritratto distorto ed estremo di un presente sul punto di esplodere e di una generazione che desidera liberarsi dagli obsoleti canoni e dagli assolutismi socio-culturali, oppressa da un dolore dovuto a un senso di costrizione. È una generazione disorientata e paranoica, ma pronta ad assecondare l’oblio e le macerie di una catastrofe ritenuta necessaria per ricostruire un mondo nuovo. Tuttavia il finale non è consolatorio: il fuoco in cui si immergono può essere visto come un falò attorno al quale ritrovarsi come individui o come il miraggio di una possibilità di rifondazione. In fondo, qualcuno da lontano tuona che quei corpi «ardono freddi». Ilaria Cecchinato

Courtesy La Biennale di Venezia ph. Andrea Avezzù

Gli spettacoli

Cenere di Stefano Fortin; mise en lecture per la regia di Giorgina Pi, con Sylvia De Fanti, Giampiero Judica, Francesco La Mantia, Valentino Mannias, Alessandro Riceci, Giulia Weber; ambiente sonoro di Valerio Vigliar; produzione La Biennale di Venezia, testo vincitore del Bando Biennale College Teatro Drammaturgia Under 40 (2022-2023)

Cuspidi regia e drammaturgia Valerio Leoni; con Sara Giannelli, Sofia Guidi, Francesco Jacopo Provenzano; cura drammaturgica e del movimento Antonio Tagliarini; costumi Gianluca Sbicca; scene: Federica De Tora; disegno luci Sander Loonen; digital design: Boyd Branch; visual art Martina Carbone, Giulia Vietti; composizione e disegno sonoro Davide Umbrello; assistente alla regia Davide Ventura; tutor del progetto Stefano Ricci e Gianni Forte; con il supporto aggiuntivo di Labirion Officine Trasversali; Coventry University Faculty of Fine Arts and Humanities; si ringrazia Juliana Azevedo per l’assistenza al canto; produzione La Biennale di Venezia, vincitore del Bando Biennale College Teatro Regia Under 35 (2022-2023).

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