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2023-07-18 12.19.06

Un diario per l’estate #3. Danza di relazioni, coreografie del cosmo

di Altre Velocità

Appunti, pensieri non ancora del tutto formalizzati, suggestioni, ipotesi di discussione a partire dagli spettacoli visti. Una forma aperta, non saggistica, un racconto per frammenti ospitato una volta alla settimana, una scrittura quasi in presa diretta per provare a testimoniare la complessità e diversità delle proposte teatrali del presente.

Le memorie dei corpi

Il pubblico arriva a cascata per My body of coming forth by day di Olivier Dubois, spinge all’entrata della Calibratura nell’area dell’ex Ceramica Vaccari a Santo Stefano di Magra, si fa avanti con desiderio. Tra le mura di cemento grigio prende posto nella platea che circonda il palco, come colonna sonora un chiacchiericcio diffuso e il lieve rumore dei ventagli sventolati. Olivier aspetta a fine palco, davanti a un piccolo tavolino occupato dal computer e da alcuni faldoni beige. È in giacca, camicia e pantalone, scarpe nere e lucide, un look formale. Fuma in continuazione, quasi senza tregua. Mano a mano che le sedie si riempiono il performer si rivolge al pubblico in un italiano stentato, mischiato ad alcune parole in francese e a termini inglesi italianizzati. Tira fuori dei bicchieri da champagne, li riempie e li offre. Gianni, terza fila lato sinistro, è un signore sugli ottant’anni molto magro, Olivier chiede come stanno, se sono stati bene al festival, se hanno domande. Gianni tira su il dito ossuto: «Mi dica solo una cosa prima di cominciare, lei è un danzatore o un danz-attore?». Olivier ride, la domanda è molto azzeccata, Gianni ha pagato il biglietto per assistere a uno spettacolo di danza, alle meraviglie di «uno dei 25 migliori danzatori al mondo».

Olivier scherza, alimentando il clima di gioia da fine festival. Ride su alcuni topos del teatro contemporaneo: la mancanza di un vero momento di inizio, la divisione inesistente tra danzatore e performer, la quarta parete che rompe costantemente facendoci dimenticare che esiste. Il pubblico è agganciato, il performer chiede tre volontari, che andranno a posizionarsi in altrettante sedie a fondo palco. A ognuno dei partecipanti viene consegnata una busta, all’interno il titolo di una delle 60 coreografie che Dubois ha interpretato o creato durante tutta la sua vita, una musica casuale, e un indumento da togliere dal costume. Ai malcapitati è richiesto di aprire una busta alla volta, di leggerne ad alta voce il contenuto, e, nel caso del costume, di procedere alla svestazione del capo citato in causa. La situazione diventa grottesca: Olivier, sdraiato supino sui primi due partecipanti, incita il terzo a toglierli una scarpa, il tallone però non ne vuole sapere di scivolare, e il ragazzo deve alzarsi in piedi per riuscire nell’impresa. La scarpa finalmente viene via, il ragazzo traballa a seguito del rinculo, perdendo quasi l’equilibrio. Il pubblico ride entusiasta.

Appena la musica inizia, la temperatura in sala cambia. Il performer entra e esce da frammenti di coreografie, sia pensate come soli che come scene d’insieme, per tre volte ripete l’esperimento, sempre più affaticato, sempre più nudo. Il suo corpo non conforme si trasforma, la grassezza diventa quello che è: una caratteristica fisica. L’emozione cresce, fino a esplodere quando, ricoperto di glitter e con indosso solo un’ampia pelliccia, invita il pubblico a invadere il palco e a creare insieme il finale dello spettacolo. Salto in piedi emozionata, calpesto il tappeto danza, mi faccio spazio tra decine di persone che come me hanno raccolto l’invito. Olivier mi cade addosso mentre saltiamo insieme, scivola per terra e inizia a gattonare, il pubblico applaude a ritmo di musica. Dubois non lascia spazio a tempi morti, i movimenti si intersecano e rispondono a quelli dei partecipanti, manovra l’azione a seconda degli ostacoli che trova. Poi la musica si affievolisce, al suo posto un applauso scrosciato, totalizzante.

Mentre osservo le sue trasformazioni mi domando come un concetto così semplice come la memoria corporea possa aprire a interpretazioni così diverse. Nessuno in sala può veramente empatizzare con Dubois che per carriera artistica, status e cultura vive condizioni materiali diametralmente opposte a quelle di quasi tutti i presenti. Se il suo corpo, passato attraverso decine di scritture fisiche differenti, è un’opera d’arte in sé per sé, lo è anche il mio? Anche se quelle scritture non le ho vissute, anche se non sono un’artista? Le cose che viviamo non se ne vanno da noi, entrano nei nostri tessuti, ma dove risiedono? Posso accedere a questa memoria? Manometterla, usarla, recuperarla?

Non riesco a trovare delle risposte soddisfacenti alle mie domande. Vado a bere una birra attraversando l’ampio piazzale della Ceramica Vaccari. Forse nel mio corpo rimarrà solo questa memoria, l’avanti e indietro. (Francesca Lombardi)

*Questo diario nasce a seguito della visione di My body of coming forth by day di Olivier Dubois a FisiKo! Festival internazionale di azioni cattive nell’Area dell’Ex Ceramica Vaccari a Santo Stefano di Magra (SP), progetto con cui l’autrice del pezzo collabora.

(foto di Francesco Capitani)

C’eravamo appena ricongiunti dopo un’ennesima fuga

I circa 26 km che separano la città di Bologna dal comune di Ozzano dell’Emilia li facciamo in auto sotto una pioggia torrenziale. C’era da aspettarselo: il mese di luglio si presenta con una scarica d’acqua improvvisa, che picchia lungo tutto il tragitto e si arresta al nostro arrivo nel piccolo borgo di San Pietro a Ozzano poco prima dell’inizio dello spettacolo. Il gruppo trentino Azioni Fuori Posto scongiura l’aquaplaning e porta in scena, nell’ambito del festival La Torre e la luna, il lavoro Ombelichi tenui, mettendolo al riparo tra le reliquie le panche in legno e le epigrafi presenti nella navata unica della parrocchia di San Pietro e abbandonando gli ambienti all’aperto del cimitero non lontano. Nonostante il cambio repentino di spazi, sembra che i corpi di Filippo Porro e Simone Zambelli conoscano a memoria, come da un tempo antico, gli interni di quell’aula, adattandosi scrupolosamente alle strane leggi di quella casa disabitata: la sua ampiezza afona, assorta, nobilmente inadeguata. Eccetto una traccia musicale in chiusura, esitazioni, attimi di impazienza, respiri, affanni, parole sorde, fino ai bisogni più ovvi, come quello del mangiare, compongono il sonoro di questa coreografia.

Prigionieri l’uno dell’altro di una lenta tirannia, inesorabile scopriamo nel finale, ciascuno rappresenta per l’altro il compagno di giochi, la vittima occasionale, il nemico imprevedibile. I due non sono mai delle presenze estranee. In scena la relazione è tutta giocata nelle violazioni di territorio che si susseguono da una parte e dall’altra, procedendo uniti in una ricerca faticosa e ostinata e in una lotta incrinata che si anima, naturalmente, di intenzioni diverse. I corpi si sciolgono in intervalli di strana quiete oppure si muovono, sfruttando i pieni e i vuoti dell’aula sacra, sbucando fuori da alcune cavità e agendo bruscamente anche su alcuni arredi. Ciascuno finge di assecondare l’altro.

E con il progressivo succedersi delle azioni, lo spazio sembra svuotarsi, ritrarsi e farsi inappropriato: la memoria dei due protagonisti – e anche quella di noi spettatori – sembra allentarsi. Come se a mancare alla fine è il senso di adattamento e di orientamento di queste due figure nello spazio. Più che un rapporto di parentela, a unire le due figure, in un tempo incessante, raggomitolato e contratto, sono le distanze e i ricongiungimenti, costruite per lontananze, salti, rincorse e grandi vuoti. A unirle, ancora, è una lunga attesa che le separa dal momento estremo della scomparsa dell’altro. (Damiano Pellegrino)

(foto di Giulia Lenzi)

In cima

Difficile dire quale sia la sensazione che si prova a danzare a quasi tre metri d’altezza su una superficie così ristretta da sembrare più un piedistallo che non una pedana. Da terra, cioè dal palcoscenico del Teatro Rosignano Solvay, dove lo spettacolo ha debuttato per il festival Inequilibrio, l’ultimo lavoro di Claudia Catarzi (Company Blu), ha qualcosa di intimo e spudorato. Spudorato perché lo spettatore, spinto a tenere gli occhi all’insù, ammira l’abilità tecnica, esplicita ed evidente, di una figura che non fa dell’acrobazia, ma comunque costruisce una coreografia tesa e scultorea, fatta di posizioni plastiche, di gesti netti e definiti, perfino di salti. Anche se il tono è tutt’altro che barocco – prevale una certa austerità, mai algida però – c’è qualcosa di trionfale in questo costruzione che somiglia al basamento per una statua equestre rinascimentale. In effetti nell’arco drammaturgico dello spettacolo è percepibile la soddisfazione che si trasmette per essere arrivati in cima. Come fossimo in montagna. Guardare dall’alto riempie di soddisfazione, ma mette anche i brividi. Non solo perché è facile cadere, ma forse perché a un certo punto da questo apice non si potrà fare altro che scendere.

Ed è questa l’altra dimensione intima che attraversa l’intero spettacolo e che ci parla di fragilità e di forza, di cambiamento e di resistenza. Il titolo dello spettacolo è 14.610, un numero che indica qualcosa a cui non si accenna mai esplicitamente. Ma è una chiave d’accesso, come il codice di una stanza d’albergo, per entrare facilmente dentro lo spettacolo. È un piccolo e sofisticato enigma da sciogliere. Non così difficile a dire il vero, ma lo vogliamo lasciare irrisolto, per non rovinare il gusto della scoperta. Nella seconda parte del lavoro, il piedistallo si mostra come ripido scivolo, e la scesa diventa una sorta di lotta, il corpo muscolare è teso a sconfiggere il peso della gravità, come accade nei vortici di qualche statua del Giambologna; anche se l’estetica è tutta legata a una sobria normalità, cosa che rende l’immagine ancor più intima e comune. Una decina di anni fa Catarzi aveva debuttato nel suo assolo 40.000 centimetri quadrati, ancora un numero per titolo, colpendo per presenza e potenza nello spazio ristretto disegnato sul palco di soli quattro metri quadrati. Dieci anni dopo questo spazio si è ristretto, ma si è alzato in aria. Non un trampolino da cui tuffarsi, ma una montagna – come la vita – da abbracciare e da arrampicare. (Rodolfo Sacchettini)

(foto di Antonio Ficai)

Il mondo fatto a coriandoli

Chiara Bersani ci attende ai margini della scena, una figurina seduta sull’orlo di uno spazio bianco punteggiato da tanti marshmallow, come particelle solide sospese in un universo non ancora definito. Siamo (nel) SOTTOBOSCO, creazione nata da un laboratorio per adolescenti con disabilità, presentato al pubblico al podere Acerboli durante il Festival di Santarcangelo.

Lentamente la coreografa inizia la sua esplorazione, scava lo spazio, sposta la materia mentre il corpo si avviluppa in spirali placide, si distende in girandole schiacciate a terra, si incrina e si scioglie tracciando un sentiero che subito svanisce nel caos primordiale di questo universo privo di centro. Poi, nella luce del tramonto, una figura si staglia avanzando lenta tra le stoppie. All’inizio è solo un’ombra grigia tra il grano mietuto, poi si fa sempre più concreta, e luminosa. Si tratta di Elena Sgarbossa, la danzatrice che accompagna la coreografa in questa creazione. Sul paesaggio sonoro orchestrato da Lemmo le due danzatrici dipanano il loro movimento fatto di vortici concentrici e di improvvise accelerazioni, di traiettorie centripete e di arti che emergono dall’indefinito del corpo su un panorama che le contiene e insieme le magnifica, e si stende larghissimo e potente come la promessa di un futuro. A un certo punto l’incontro, deflagrante. I due corpi si avvicinano e si attraversano con una lentezza struggente e con una cura quasi dolorosa nella sua abbacinante evidenza. L’immagine appare tersa, come un Big Bang privato, solo per noi, o un’alba che sorge sull’universo della scena. Le monadi diventano una diade, e l’universo si apre alla pluralità e alla differenza mentre lo spazio pare esplodere nella potenza della relazione. Insieme, ascoltiamo le parole della coreografa, che ci racconta come è iniziato il mondo, senza contorni, solo bagliori densi, fatti di intensità. E lei sceglie di chiamarli cuori, quei punti incandescenti, che in un certo momento, per errore o per coincidenza, singhiozzano all’unisono.

Tra le danzatrici inizia così una cantilena dolcissima di gesti proposti e copiati, scambiati come in una conversazione sottile e privata che lo sguardo a un certo punto squarcia, invitando altre presenze al dialogo. Lo spazio allora accoglie, uno alla volta, i partecipanti al laboratorio che arrivano a popolare questo mondo fatto di gesti minuti eppure essenziali, di sguardi che si toccano e di sorrisi, di presenze che creano lievissime tessiture di senso. Ed è una scena plurale e grata quella che ci saluta, colma di una modalità della presenza magnifica e potente, di posture sghembe e umanissime adagiate tra il pulviscolo di marshmallow, come quello che resta della materia dopo che si è agglomerata, o come coriandoli, come la festa che deve essere stata la creazione di questo mondo. (Lucia Oliva)

(foto di Pietro Bertora)

Gli spettacoli


My body of coming forth by day Creazione e interpretazione Olivier Dubois; suoni e coordinamento luci François Caffenne; produzione Compagnie Olivier Dubois, coproduzione Festival BreakingWalls, Le Caire; Le CENTQUATRE-PARIS

Ombelichi tenui di e con Filippo Porro e Simone Zambelli, suono Isacco Venturini, scene e costumi Silvia De Zulian, consulenza scientifica Cristina Vargas, Marina Sozzi, Consulenza Drammaturgica Gaia Clotilde Chernetich Co-produzione Armunia/Festival Inequilibrio, Balletto Civile, C&C Company con il sostegno di KommTanz progetto residenze Compagnia Abbondanza/Bertoni; Lavanderie a Vapore/Centro di Residenza per la danza Vincitore Bando AiR 2021 Spettacolo vincitore Call Supernova 2022 di PergineFestival

14.610 di e con Claudia Catarzi; musiche Julien Desprez; produzione Company Blu

(nel) SOTTOBOSCO azione, creazione, testi Chiara Bersani; azione, performer Elena Sgarbossa
suono e consulenza drammaturgica Lemmo; disegno luci, scena e direzione tecnica Valeria Foti
costumi Ettore Lombardi; drammaturgia Chiara Bersani, Giulia Traversi; consigli e occhio esterno Marco D’Agostin; assistente Simone Chiacchiararelli; cura e produzione del workshop Chiara Boitani; promozione, cura, booking Giulia Traversi; comunicazione e press kit Dalila D’Amico
video e foto Alice Brazzit; logistica, organizzazione, produzione Eleonora Cavallo; amministrazione Chiara Fava; produzione corpoceleste c.c.0.0#; con il sostegno del MiC – Direzione Generale Spettacolo; versione site-specific sviluppata per Santarcangelo Festival all’interno del progetto europeo BE PART Art BEyond PARTicipation co-finanziato dal programma Creative Europe

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