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INTRODUZIONE
Cosa accade se agli sguardi del giovane pubblico viene affidata la moderazione di un incontro sul giovane teatro emergente? La terza edizione di “Tutta la vita davanti. Festival di teatro per vecchi del futuro” diretta da Alice Sinigaglia negli spazi del Dialma di La Spezia dal 9 all’11 maggio 2025 ha ospitato durante la giornata di sabato 10 maggio “Appunti per un teatro giovane”: un incontro tra giovani artisti, compagnie, spettatori e spettatrici. La redazione di Stratagemmi Prospettive Teatrali ha accompagnato questo tentativo di scambio portando temporaneamente a convergere nel progetto SOTTOBANCO quattro laboratori dalle scuole superiori di Milano, Firenze, La Spezia e Sarzana per immaginare un racconto corale del festival a partire da visioni, confronti, domande insieme ad artisti e compagnie ospiti.
Un primo dato che forse vale la pena registrare può essere individuato in questa stessa premessa. Durante le tavole rotonde delle due precedenti edizioni, i tentativi di un confronto attorno alle poetiche e alle linee che intersecano i percorsi della giovane generazione teatrale si sono sviluppati attorno alla mediazione e agli interventi di artisti, compagnie, critici, operatori. In questo caso, forse lo sguardo esterno, ma interessato e critico, e la differenza generazionale degli interlocutori ha agevolato l’articolarsi di un discorso in grado di fare emergere diverse strade, possibilità, consapevolezze di un teatro giovane, riflesse in processi creativi e intenti poetici riscontrabili durante la visione degli stessi spettacoli in programma. Da un lato, per rispondere alla percezione del giovane pubblico, legata a una certa concezione del teatro, in continuità con una modalità tanto monotona quanto frenetica di abitare la scuola e lo spazio dell’istruzione. Dall’altro lato, invece, un affondo sul lavoro teatrale di fronte alle innumerevoli, e non trascurabili, questioni materiali, economiche, strutturali, che ne sminuiscono tanto la fatica quanto le possibilità.
5. Tentativi di equilibrio precario: lavoro e formazione teatrale
I ragazzi della redazione propongono la domanda sul lavoro teatrale in modo molto personale, da una prospettiva esterna. Forse proprio per questo le considerazioni di risposta dei teatranti a cui abbiamo assistito ci sono sembrate molto più dirette di quanto se ne parli solitamente in convegni o situazioni più formali ma rigorosamente lamentose.
Si parte con una domanda di approccio individuale, che da subito si affaccia a un discorso più ampio e d’insieme sulla natura del lavoro nel settore, su quale fosse stata la cosa più difficile della formazione artistica e teatrale dei presenti.
Per Nicoletta Nobile, in scena nella performance Call of Beauty attraverso un’indagine sullo sguardo sul corpo e sul corpo femminile in particolare, il momento più difficile è stato anche quello più decisivo, delcapire cosa realmente le interessasse portare in scena.
Claudia Russo (Usine Baug) indica come parte più dura e delicata nella formazione e nel lavoro teatrale il dare e il produrre senza sosta, arrivando a sfiorare il burnout, anche a causa del ritrovarsi datori di lavoro di se stessi, e assegnandosi sempre meno tempo, in questa prospettiva.
Si introduce così una questione di cui si parla sempre troppo poco: prendersi cura di sé è un privilegio sempre più raro. Il che, se vogliamo, va di pari passo con il mancato riconoscimento di una classe lavorativa pagata solo quando contrattualizzata per progetto e per nulla tutelata durante percorsi creativi di mesi o anni – si pensi solo ai mancati risarcimenti durante e dopo il lockdown.
Ermanno Pingitore (Usine Baug) precisa che il lavoro coperto in quanto attore è minimo rispetto a quel che serve per stare dentro una compagnia, con le sue domande e discussioni. La formazione di chi lavora a teatro è continua e condivisa. Stefano Rocco (Usine Baug) mette, infatti, in dubbio l’utilizzo del passato per riferirsi alla formazione, poiché forse non esisterebbe mai un vero punto di arrivo, trattandosi di un lavoro, quello teatrale, di continua formazione.
La giovane redazione arriva quindi a domandarsi e domandare perché il lavoro teatrale venga in qualche modo sminuito, suggerendo di provare a lasciare da parte la dimensione economica.
Nicoletta Nobile sottolinea fin da subito l’importanza di non tralasciare l’aspetto economico, poiché si tratta di un lavoro, e del proprio lavoro, per cui si necessitano tutele e compensi, come accade in Francia o in Germania, al contrario rispetto all’Italia, dove andrebbe riconosciuta la natura precaria di questo lavoro.
Dino Lopardo mette subito in relazione la mancanza di riconoscimento lavorativo strutturalmente legata all’ambito culturale con un vuoto di interesse e di sostegno da parte del settore pubblico. Ci sarebbe bisogno di maggior sostegno da parte dell’ente pubblico verso i lavoratori, soprattutto i lavoratori di un certo tipo. Per esempio, se guardiamo a sanità e istruzione, dovrebbero configurarsi come settori cardine e in qualche modo indice di una prospettiva di cura ad ampio raggio rispetto alla popolazione di un certo territorio, mentre stanno subendo una non gestione da parte della politica, la quale visibilmente non sente l’esigenza di questi settori, e dunque non li finanzia né li sostiene. Da qui, bisognerebbe provare a parlare della funzione del teatro: se il teatro deve esistere, dal punto di vista lavorativo, deve avere un senso, una funzione. E prima di tutto va ridefinito il ruolo dell’attore nella società: cosa cura l’attore? Mentre dall’alto non ci si pone affatto questa domanda.
E Alice Sinigaglia prosegue su questa via: si viene sminuiti perché non si è indispensabili. Tuttavia, continua, questo lavoro, con precarietà annessa, è una scelta e va rivendicata, come una battaglia che si sceglie, in un paese che si sceglie. La precarietà risulta, quindi, un fardello che però è giusto rivendicarsi come spazio del possibile, come lavoro che piace, che è anche vocazione. La condizione di un lavoro non valorizzato permette una visione di gioco e uno spazio di alterità necessariamente fantasioso, se non è necessario nella società in cui si vive. Ci sono evidentemente dei problemi in termini lavorativi, ma se ne evitano altri che altre categorie non possono schivare – fa l’esempio del lavoro d’ufficio.
Ermanno Pingitore (Usine Baug) si dimostra d’accordo sul lato politico delle risposte, da cui emerge una strutturale condizione di precarietà, ma manifesta, d’altra parte, la necessità di ricongiungere le problematiche del lavoratore culturale anche a quelle dell’impiegato, con cui condivide il passare gran parte del tempo davanti al pc nella compilazione di bandi o progetti. Questo per far emergere una comunione d’intenti contro l’insostenibilità della precarietà e comune a gran parte dei lavoratori. Così facendo, viene evidenziata anche un’affannosa ricerca di riempimento dei vuoti scavati dalla precarietà e dalla scarsa considerazione del lavoro culturale, ben radicata nell’immaginario collettivo.
Da un lato è importante parlare di lavoro, evidenziare chiaramente rivendicazioni necessarie attorno alla totale condizione di precarietà che coinvolge in particolar modo le giovani generazioni, ben oltre la dimensione culturale che a sua volta si ritrova in una situazione di estrema crisi nel suo non risultare necessaria in un certo tipo di società. Dall’altro lato, forse, l’impossibilità di approfondire problematiche specificamente settoriali in un dialogo tra sguardi interni e sguardi esterni, ha permesso durante l’intero scambio di superare il rischio della stagnazione dentro questioni economiche che, pur se fondamentali, da sole non possono bastare a fare emergere un discorso sull’arte, a sua volta fatto di scelte, necessità, interessi, sguardi e voci, come precedentemente sottolineato. Questa condizione di partenza sembra aver traslato il discorso sul teatro, con i suoi lati negativi e i suoi lati positivi, verso diverse visioni legate alla dimensione artistica, verso scelte che sviluppano percorsi di poetiche, le quali inevitabilmente confluiscono in una dimensione socio-politica, culturale, che riguarda questo paese e la valorizzazione di settori lavorativi e di sostegni pubblici, ma superando, al contempo, la stasi che questo contesto rischia di generare, per provare ad aprire un discorso condiviso su sentieri e strade del nuovo teatro emergente.

6. Quale politica nel teatro: spunti di riflessione ad ampio raggio
Lo spazio di confronto inizia ad avviarsi verso la chiusura a partire da una domanda legata alla dimensione politica dell’arte, che sembrerebbe collocarla specificamente a sinistra: perché l’arte sarebbe di sinistra?
Stefano Rocco (Usine Baug) prova a rispondere individuando innanzitutto una distinzione tra dimensione politica e ideologica: ogni narrazione è una scelta, e in quanto tale è una scelta politica. Il raggiungimento di una narrazione neutrale è un’illusione. L’arte deve avere una coscienza critica, portare uno sguardo diverso, che forse spesso ha in comune il fatto di schierarsi contro il potere.
Francesco Toscani, tra i drammaturghi di Progetto Orlando, aggiunge che forse in questo momento storico non si tratta necessariamente di collocare a sinistra la dimensione artistica in toto, quanto piuttosto osservare come una parte di esponenti politici screditi esplicitamente, da anni, il valore di sguardo critico, l’elaborazione artistica, la produzione e la condivisione culturale – inevitabilmente parte della formazione e della creazione artistica – indicando, comunque, l’esistenza di artisti di destra con molto seguito, come Michel Houellebecq.
Su questa indicazione tematica si aggiunge la considerazione di Sara Carmagnola (Ecate Cultura), lavoratrice nel campo dell’organizzazione teatrale e frequentemente alle prese con file Excel e scrittura di bandi: anche la comunicazione è politica, nella misura in cui, ad esempio, un certo linguaggio inclusivo non viene accettato nella stesura di bandi e documenti burocratici, per cui si è costretti ad adattarsi anche a direttive non rappresentative, giustificando questa scelta in base a una certa formalità da dover seguire, che rimane in ogni caso una disposizione politica.
Ulteriore spunto in questa prospettiva appare osservando gli spettacoli in programma durante le tre giornate spezzine, in una traiettoria che ha toccato un sostrato sociale, un discorso politico, su varie direzioni, a segnalare un’urgenza evidenziata da tempo e strettamente legata a un reale da indagare, scardinare e, semmai, rovesciare.
Per quanto non sia possibile circoscrivere dei binari di esaustività sulla nuova generazione teatrale italiana partendo da questi momenti tanto importanti quanto ancora piuttosto isolati, ci sembra di poter affermare che il sasso gettato in acqua attraverso questo momento di confronto possa permettere la vibrazione di piccole onde concentriche, forse in grado di irradiare, per lo meno, una modalità di incontro in grado di portare il discorso fuori da un impasse cui sembra costringere la strutturale condizione di precarietà teatrale e culturale. Per quanto fondamentali e necessarie, alcune rivendicazioni rischiano di esulare dalle effettive possibilità di un mestiere che da tempo dovrebbe essere maggiormente riconosciuto e valorizzato, ma che forse vale la pena non abbandonare. Senza giustificazioni o risposte predeterminate, ma continuando a esplorare strade e sentieri che possano diventare a loro volta condizioni, parte di un discorso, che possa essere un discorso sull’arte; superandone, almeno con lo sguardo, l’impossibilità.