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Antropolaroid di Tindaro Granata (foto di Pietro Bondi)
Antropolaroid di Tindaro Granata (foto di Pietro Bondi)

Tre spettatori e una comunità per il Collettivo Hospites

di Altre Velocità

Collettivo Hospites in Concerto – Un’invenzione teatrale è il nome della performance presentata la sera di martedì 4 febbraio a L’Altrospazio di via Nazario Sauro, all’interno della rassegna Spazi Migranti e promosso dall’associazione Artemigrante Bologna. Protagonisti i nove performer della giovane compagnia teatrale Collettivo Hospites, nata a Bologna nell’estate del 2008 da una collaborazione con l’Open Program presso il Workcenter of Jerzy Grotoski and Thomas Richards – il regista della compagnia, il brasiliano Eduardo Landim, è infatti un attore dell’Open Program.

Il canto e l’azione dell’attore, elementi peculiari nella ricerca del Workcenter, si inseriscono nel percorso del Collettivo come strumenti e materiali volti alla creazione di contesti teatrali e drammaturgie. Il concerto, attraverso un flusso di canti e melodie, originali e tradizionali, e azioni performative elaborate dal Collettivo, si apre alla comunità bolognese nella prospettiva di un incontro autentico che accoglie le differenze culturali, linguistiche e individuali degli attori e coinvolge il pubblico attraverso la vicinanza fisica, la condivisione dello stesso spazio e l’eliminazione di barriere che separano gli spettatori dall’azione performativa.

Martedì 4 febbraio, ore 21.30. Un noto locale del centro storico bolognese affollato da decine di persone, gruppi di amici che si ritrovano, tavoli pieni, gli ultimi arrivati bevono qualcosa al bancone del bar. Penso che anche loro abbiano avvertito il desiderio impellente di uscire di casa per fuggire alla prospettiva di una serata davanti alla TV a guardare la prima puntata del Festival di Sanremo con i coinquilini.
Poi, tra il chiacchiericcio e il tintinnio generale di calici, le risate e il rumore di ghiaccio versato nei bicchieri, un canto corale esplode dal centro della sala e tutto si ferma. Nell’aria si respira una trepidante attesa, quella che ti coglie quando qualcosa di positivo e inaspettato irrompe senza invito nella tua quotidianità e la sconvolge. Di cosa stavamo parlando, non ce ne importa più e non ce lo ricorderemo.
Un gruppo di ragazzi, cantanti e performer in abiti ostinatamente eleganti, riempiono l’ampio spazio con le loro voci in un flusso di canti originali e tradizionali, una commistione di lingue e dialetti che fa propria e attualizza una popolarità folclorica che non ha mai perso la sua forza comunicativa. Quello che segue lo dimostra: questi ragazzi folli, che con sconsiderato coraggio si fanno latori di una tradizione così lontana e dissacrata dalle logiche della modernità, conquistano lo spazio con le proprie voci e i propri corpi, muovendosi tra i tavoli e gli spettatori. E anche quando i corpi scompaiono nell’una o l’altra sala del locale a due piani, la voce continua a raggiungerci tutti.
Chiudo gli occhi per qualche minuto, lascio che la musica mi trasporti in uno spazio e un tempo così lontano ma, paradossalmente, più reale della quotidianità. Poi li riapro e ci vedo: noi, che con lo sguardo cerchiamo la fonte di quel canto e, senza trovarla, ci guardiamo negli occhi gli uni e gli altri, sconosciuti ma senza imbarazzo, perché c’è qualcosa in quello che stiamo vivendo che fa appello alle nostre radici e ci rende davvero una comunità.


Tra un’attesa e una risata, seduta al tavolo con un’amica e con persone che fino a qualche minuto prima erano sconosciute, inizio a osservare gli attori che camminano tra di noi, che ci salutano e ci stringono come se la scena appartenesse a tutti, anche agli spettatori, agli amici e ai baristi.
È un attimo dall’iniziale e breve silenzio che trasuda curiosità al viaggio che i performer del Collettivo Hospites ci fanno percorrere intimamente in tutta Italia e più lontano. Ci spostiamo leggiadramente con canti dialettali in Sardegna, in Sicilia, in Campania, in Toscana e anche altrove. L’utilizzo prezioso che ne fanno della loro voce rende quest’ultima uno strumento con infinite possibilità: voci maschili, voci femminili, voci esotiche e voci delicate, voci terrene, forti e voci eteree, sottili. Poi ci sono i loro spostamenti, i loro andirivieni con i quali non si allontanano mai troppo dal centro energetico che hanno creato in quella piccola sala popolata: si aggirano intorno vagando in mezzo a noi del pubblico: noi li circondiamo, seduti su sedie e pavimento nudo e loro tra di noi cantano, camminano, ballano e ci accarezzano con lo sguardo.
Due spettatori poco lontani da me chiudono gli occhi segretamente e li immagino lontano, lì dove i canti possono portarci, lì dove quelle storie diventano parole e canzoni. Alla fine dello spettacolo gli sconosciuti con i quali dividevo il tavolo non sono più volti nuovi, insieme abbiamo affrontato questo viaggio in un atlante immaginario e io sento il bisogno di guardarli, di salutarli. Ecco… la vicinanza tra i performers e il pubblico ha reso il pubblico stesso più intimo, più coeso, più “caldo”.


Oggi come altri giorni è facile sentirmi solo, cammino per le strade calde di Bologna e mi sento lontano da tutti. Nascoste dalle luci e dalle colonne, vite di altri così distanti da me, le provo ad avvicinare in una passeggiata senza meta che deraglia continuamente da una parte all’altra della via. Ondeggio tra uno spezzone di conversazione e l’altro, fino ad arrivare all’Altro Spazio. Sono le 21.30 e la gran quantità di gente accatastata all’ingresso mi incuriosisce, entro.

Mi siedo al bancone, dando le spalle al caotico resto che mi circonda. Nell’aria c’è un chiacchiericcio diverso dal solito, sento dietro di me parole trascinarsi dietro le labbra incurvate nei sorrisi. Un battito di mani, poi due, tre, molte mani battono a ritmo. Si fa improvvisamente silenzio e in tutto il locale risuonano schiocchi di palmi portati qua e là da persone che si muovono. Cerco di ignorarli, ma sembrano picchiettare proprio la mia spalla, non resisto, mi volto.

Davanti a me si apre un mondo senza tempo, giovani ragazze e ragazzi si inseguono per i corridoi e le scale cantando in dialetti conosciuti e sconosciuti storie d’amore, di rabbia, di incontri e di scontri. Qualcuno sparisce oltre la rampa sulla sinistra, ne inseguo la voce, che si affaccia dal piano superiore costringendomi ad alzare lo sguardo. Mi guardo intorno. Siamo in tantissimi ipnotizzati da questo canto, nessuno parla eppure sui visi di tutti si legge la stessa partecipazione. Vedo un tipo che chiude gli occhi, faccio lo stesso e lascio che queste inaspettate canzoni mi portino dove è difficile da soli arrivare, tra gli altri. Li riapro solo al tintinnare dei bicchieri, gli attori brindano come vecchi amici e, senza parlare, alzo anche io il bicchiere, sorrido.

Chiara Capizzi, Emma Pavan, Valeria Venturelli

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