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Il teatro è l’ornitorinco del digitale?

di Giuseppe Di Lorenzo

Questa riflessione si aggiunge al report della giornata di studi “Lo spettatore digitale” organizzato dal Festival dello Spettatore.

Nella tarda serata di venerdì 23 ottobre al Piccolo Teatro Verdi di Monte San Savino, durante la quinta edizione del Festival dello Spettatore, è nata una vivace discussione subito dopo la conclusione dello spettacolo Segnali di allarme – La mia battaglia VR di Elio Germano. La pièce, scritta assieme a Chiara Lagani e con la partecipazione di Omar Rashid alla regia, si presenta nei suoi primi istanti come uno spettacolo leggero di riflessione sulla società odierna, per poi progressivamente contaminarsi di sempre più inquietanti connotati retorici. Alla fine del lungo monologo di Germano il pubblico viene spiazzato nei confronti delle premesse iniziali, ovvero di immaginare una società allo stato brado, dove gli spettatori in sala sono ipoteticamente bloccati tutti assieme su un’isola deserta, trasformando un esperimento in stile Il signore delle mosche in un comizio politico. Per fruire di questo spettacolo (registrato originariamente al Spazio Tondelli di Riccione) ci è stato fornito un visore di realtà virtuale e delle cuffie, alimentando così il senso di solitudine nella platea. Guardavamo lo spettacolo seduti assieme ad altri spettatori virtuali, ma quelli che vedevamo attorno a noi erano altre persone, quelle originariamente presenti allo spettacolo di Riccione. Eravamo quindi soli nella folla, che poi è proprio la sensazione che Germano voleva produrre.

Ciò che però ha senso analizzare in virtù dello stato attuale delle cose non è tanto la qualità dello spettacolo in sé, quanto la sua difficile categorizzazione. Germano ha più volte precisato come per lui l’esperienza di realtà virtuale (VR), sebbene collocata in un teatro, non sia considerabile come uno spettacolo teatrale vero e proprio, bensì qualcosa di altro. Verrebbe da pensare che se esiste un teatro digitale allora esiste uno spettatore digitale, ma è un errore logico che rischia di inficiare qualsiasi tentativo di risposta. La stessa parola “teatro” si potrebbe tradurre come “ciò che è fruito da uno spettatore”; fu Aristotele a metterci in mezzo anche l’attore in azione e altre questioni, ma il teatro di Aristotele non è quello di Bharata Muni né assomiglia a quello di Sarah Kane. Ciò che però è rimasto immutato nel corso dei secoli è la centralità dello sguardo.

Si potrebbe controbattere a questa semplificazione facendo notare che sono esistiti e sempre esisteranno centri di potere che determinano cosa è teatro in un dato luogo per un dato periodo di tempo: chiamiamo storicamente “teatro” anche le processioni medievali volute dalla chiesa cattolica, così come la massoneria ha influenzato buona parte delle drammaturgie europee di fine ‘700, e ovviamente all’interno di stati dittatoriali chiamiamo “teatro” le opere di propaganda. In questi esempi lo sguardo non può scegliere, non può decidere che quello spettacolo non gli è piaciuto e premiarne un altro, magari andandolo a vedere nella replica successiva. Questa però è una visione che si limita a prendere in considerazione un aspetto della teatralità che è quello ufficiale e imposto, e non solo: implica una percezione parziale del fenomeno stesso, relegando a ogni epoca un’etichetta che sottintende che tutto il teatro seguisse quella direzione (quando persino Aristotele nella Poetica descriveva la scena ellenica come eterogenea ed eclettica, molto più di quanto ci testimoniano i testi antichi). Le categorizzazioni sono utili strumenti per lo studio e l’archiviazione, ma la realtà è molto meno univoca e molto più mutevole di come tendiamo a raccontare per amor di sintesi, per cui mentre in Cina oggi c’è un teatro filtrato dalla sensibilità del Partito Comunista Cinese, in Nuova Zelanda un’altra idea di teatro esiste, così come durante il rinascimento o nel periodo del teatro elisabettiano. Se c’è un elemento che ha definito il teatro in ogni epoca e in ogni luogo è che questo è illusione, e come tale necessita di almeno uno spettatore che ci creda. Senza lo sguardo “del bambino”, come si soleva dire negli anni delle avanguardie, non c’è illusione che tenga, per cui non c’è teatro.

Dunque, se esiste un “teatro digitale”, è perché esiste uno “spettatore digitale”. Ciò che rende diverso lo spettatore digitale da quello tradizionale è l’uso della tecnologia, non più come amplificatore della messa in scena, bensì come parte integrante dell’estetica e della drammaturgia. Ma se la presenza dello spettatore digitale anticipa quella del teatro digitale, significa che questo teatro si dovrà confrontare con delle nuove urgenze. A Monte San Savino sono state sottolineate dal pubblico due criticità, che potremmo a posteriori definire come dei limiti espressivi del genere:

  1. La solitudine dello spettatore, non più calato (necessariamente) in una dimensione sociale.
  2. La mancanza di una relazione, seppure effimera ed estemporanea, tra spettatore e attore.

Se la seconda è una considerazione fortemente opinabile, perché esistono già diversi spettacoli che propongono interazioni più o meno dirette con l’attore in scena o in streaming, in modi e forme anche più immersive di quelle del teatro tradizionale, la prima si pone come un problema di natura ideologica. Se infatti la premessa necessaria è che il teatro è pedagogia e come tale si definisce esclusivamente nel suo ruolo civile, allora uno spettatore “solitario” non può essere uno spettatore di teatro: questo perché il teatro deve essere elaborazione, discussione, scontro anche, ma comunque immerso nel sociale. Ma questa idea è fortemente legata a una peculiare interpretazione, dovuta certamente all’influenza che le opere elleniche hanno tutt’oggi sul teatro occidentale, che non è però condivisa in tutto il mondo performativo. Nel teatro indiano per alcune cerimonie spirituali vengono utilizzate persone della casta degli “intoccabili” per rappresentare le divinità, l’ultima tra le caste, persone che normalmente sono destinate a vivere una vita di miserie. In quelle poche ore di rappresentazione, gli “intoccabili” sono realmente avatar degli dei stessi e vengono adorati come tali, per poi tornare alla normalità, ovvero alla totale ininfluenza socio-politica. Pur non essendo un teatro a funzione civica, c’è comunque una funzione di storytelling nel teatro indiano, che propone sempre lo stesso canone (Nātyaśāstra) senza cambiare sostanzialmente gli equilibri sociali né proponendo rotture. In sostanza, è un teatro in cui lo spettatore può essere l’attore in scena, e non sarà teatro come lo intendiamo noi, ma è comunque teatro.

Ciò che lascia perplessi molti spettatori, così come tanti artisti, critici e semplici appassionati, è la contaminazione di aspetti immersivi tipici degli ambienti videoludici con quelli artistici. Il “teatro digitale” mette in crisi la dicotomia tra intrattenimento e arte, fondamento ideologico fortemente presente nell’asse franco-italiano. Ma lo spettatore “immerso”, come nel caso dello spettacolo di Elio Germano, non necessariamente è uno spettatore non consapevole. È vero, cambiano le dinamiche sociali, ma l’immersione è anche quella cosa che differenzia enormemente l’esperienza dello streaming seduti davanti a uno schermo, a una partecipazione multi-sensoriale autentica. Nel momento in cui riconosciamo come teatro solo una serie limitata di elementi che abbiamo postulato nel ‘900, è normale trovarsi di fronte all’ornitorinco del digitale e definirlo altro. A cavallo tra ‘800 e ‘900 la scoperta dell’ornitorinco compromise buona parte delle classificazioni scientifiche fin lì ritenute onnicomprensive di qualsiasi cosa potesse vivere sotto o sopra l’acqua. Essenzialmente per decenni gli scienziati non hanno riconosciuto l’esistenza dell’ornitorinco perché non rientrava in nessuna delle specie conosciute, e rimandavano indietro le prove autentiche credendole assurdi collage di animali imbalsamati. Alla fine gli zoologi si videro costretti a inventare un nuovo ordine, i monotremi, che a tutt’oggi comprendono solo l’ornitorinco e l’echidna. E il problema delle categorizzazioni in arte non è cosa nuova: John Dewey ne scrisse lungamente nel suo trattato Arte come esperienza del 1934:

Le arti che oggi hanno maggiore vitalità per l’uomo medio sono cose che egli non considera arti: per esempio, il cinema, la musica jazz, le strisce umoristiche e, fin troppo di frequente, i resoconti giornalistici di intrecci amorosi, omicidi e imprese banditesche.

Se c’è una parola che ben definisce l’urgenza digitale che attraversa le arti performative (basti pensare a YouTube, TikTok e ora anche Reels su Instagram), quella è la vitalità. Non è ideando nuove sottocategorie che si fermerà la trasformazione del teatro, né imponendo dei modelli dall’alto tramite editto del Ministero. Invece di chiedersi se è possibile o se è morale un “teatro digitale” bisognerebbe far sì che esso possa avere la possibilità di prosperare e farci cambiare opinione sulle cose, desideroso di ridefinire ancora il confine verso il quale lo sguardo si perde per ritrovarsi.

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