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Teatro e rivoluzione: "l'azione vera"

di Altre Velocità

Revolutija organizzata dal MaMbo, sono tante le iniziative nate per discutere sulle tematiche rivoluzionarie, ormai considerate appannaggio di un mondo che ci sembra lontano. ERT (Emilia Romagna Teatro Fondazione) e l’Università di Bologna hanno voluto dare un contributo organizzando la conferenza “Dialogo su Teatro e Rivoluzione”, tenutasi nel Salone Marescotti del Dipartimento delle Arti il 21 febbraio, a cura di Marco De Marinis e Fausto Malcovati. Il problema centrale del dibattito si può riassumere nella distinzione proposta da De Marinis tra “rivoluzione del teatro” e “teatro della rivoluzione”, due fili conduttori che solo in rari casi arrivano a coincidere. L’arte è per sua natura libera, ma quando si mette a servizio di una causa rivoluzionaria inevitabilmente scende a compromessi. Nel caso specifico della rivoluzione russa, fare teatro rivoluzionario significava aderire a un’estetica di Stato (realismo socialista) che, servendo esigenze puramente propagandistiche, andava in realtà a mortificare il potenziale innovativo di quel teatro. Malcovati ci fornisce le direttive storiche necessarie per cogliere il passaggio fondamentale dall’ottobre al febbraio, con la proclamazione della dittatura del proletariato da parte dei Bolscevichi. Una delle conseguenze più importanti fu la “proletarizzazione” del pubblico che assiste agli spettacoli: con particolare sorpresa si scopre che il pubblico proletario preferisce Cečhov a Majakovskij, un teatro tradizionale rispetto a uno rivoluzionario. Nel terzo atto de Il bagno, opera di Majakovskij del 1929, l’ottuso burocrate Pobiedonosikov grida indignato al regista: «E io, invece, a nome di tutti gli operai e contadini vi pregherò di non turbarmi. Guardalo un po’ che vuol far da sveglia! Mi dovete accarezzare l’orecchio e non turbarmi: il vostro compito è di accarezzare lo sguardo, non di turbare». Diverse sono le forme teatrali nate in quel periodo: il teatro fatto da operai e da contadini (che fu un fallimento perché caratterizzato dallo spontaneismo assoluto e dal dilettantismo), il teatro che si sviluppa dall’ala simbolista in cui si tenta di recuperare il folklore, le feste rurali, i canti popolari (più convincente per il pubblico) e il teatro di massa, che riusciva ad ottenere una partecipazione diretta da parte del pubblico, ma che lentamente perde sempre di più la sua valenza strettamente teatrale. Walter Benjamin, aggiunge De Marinis, analizza il potenziale rivoluzionario della scrittura e chiarisce che lo scrittore può fare rivoluzione solo nel linguaggio e non nei contenuti. Un discorso analogo possiamo riscontrarlo nel teatro: verso gli anni ’60 va in crisi l’impostazione classica del teatro della rivoluzione e si prendono le distanze dalla “polis” per agire con maggior efficacia su di essa. Per incidere profondamente sulla realtà bisogna cambiare il teatro: ed ecco che, negli anni ’70, vengono riformulati in modo nuovo e non ideologico gli “usi politici del teatro” (tra i nomi più significativi: Scabia, Living Theatre, Brook, il parateatro di Grotowski, Odin Teatret). Tutte queste realtà che si muovono da un teatro partecipativo a un teatro che presuppone un rapporto individuale tra lo “spettatore” e l’attore (Grotowski, Barba) sembrano essere eterogenee, ma sono, più di quanto possiamo immaginare, una realtà compatta: propongono un teatro vissuto, sono una risposta teatrale adeguata all’intollerabilità del sistema classico. L’idea di un teatro povero, che mira alla rivoluzione del corpo e risponde alla parola col silenzio, è una rivoluzione apparentemente diversa, ma non caratterizzata da minore intensità. Se un tempo si pensava che il teatro potesse cambiare lo status quo, la storia ci dimostra che non è possibile: per poter innescare negli animi un reale sentimento rivoluzionario bisogna partire dalla nostra interiorità. Nel mondo attuale, del “villaggio globale”, dove luogo di incontro e di confronto privilegiato è il web, il teatro può presentare un valore aggiunto, in cui si può riscoprire il contatto umano, fisico e non virtuale. Il teatro, che nasce come rito della collettività, forse solo così può ritornare ad essere un luogo dove imparare a capire che non siamo soli e che per un reale cambiamento abbiamo profondamente bisogno dell’altro. Oggi queste tematiche non possono che esserci lontane: si discute sulla possibilità di un’estetica nuova che possa determinare un nuovo modo di sentire in senso “rivoluzionario”, che possa permettere all’uomo di porsi come agente attivo all’interno di un contesto, al centro delle cose in senso rivoluzionario, e non al centro del mondo in senso rinascimentale (come disse Wladimiro Zocca). Sono tanti gli esempi di “teatro partecipativo”, ma forse oggi più che mai, piuttosto che nel “teatro rivoluzionario”, è nella “rivoluzione del teatro” che possiamo trovare i germi di un’azione rivoluzionaria, che quindi vada oltre la sola azione rivoltosa. Qui, più che in altro tipo di teatro, vale l’asserzione di Oscar Wilde: non è l’arte che deve imitare la vita, ma piuttosto la vita che imita l’arte.

Flavia Mazzarino

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