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Teatro e carcere. Visioni a confronto

di Altre Velocità

Era il 16 gennaio 2011, erano le ore 13 e una serie di associazioni che provenivano da diverse parti d’Italia, si stava riunendo per firmare qualcosa di molto importante. Erano lì, nella città marchigiana dove si era appena tenuto un convegno Immaginazione contro emarginazione e le giornate di studio e di lavoro erano state intense. Si era parlato del carcere e quello che si diceva era che gli istituti erano troppo affollati, che il personale era troppo poco, troppi i detenuti per i piccoli reati che, in carcere, finivano per imparare il “mestiere”. Soggetti deboli, strutture fragili che perdevano il senso del proprio ruolo, che non è quello di punire. «Mai più un carcere così», avevano detto i costituenti. E loro, lì, a Urbania, ricordavano: «È nato qualcosa di nuovo. È nato un teatro fondato sull’ascolto dei luoghi».
Nove anni dopo, le cose non sono cambiate di molto. I reati sono diminuiti, la popolazione carceraria è invecchiata, mentre 50.931 sono i posti disponibili nelle carceri italiane, i detenuti che vi risiedevano prima dell’emergenza sanitaria erano 61.230. Questo vuol dire che, mentre a noi dicevano di mantenere un metro di distanza, a loro negavano quelli regolamentari per vivere, già da molto tempo.
Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie dei detenuti, che nel mese di maggio ha pubblicato il suo rapporto annuale, tempo fa aveva realizzato con il service giornalistico next new media, il primo webdoc d’inchiesta sugli istituti penitenziari italiani. Mentre entravano a San Vittore, con telecamere e registratori, trovarono un detenuto che gli raccontava: «Noi siamo chiusi 22 ore al giorno in una cella, senza poter fare niente perché è una cella di sette metri e sessanta. A ogni detenuto toccherebbero sette metri a persona e noi siamo in sei… Perciò siamo costretti a fare quattro a letto e due in piedi».
È in questa stessa occasione che Teresa Mazzotta, la vicedirettrice dell’Istituto, poneva la questione sulle misure alternative alla detenzione: «Se in tutti gli istituti italiani si aprisse alle misure alternative, anche questo Istituto beneficerebbe sicuramente». «È evidente che dove c’è sovraffollamento, è una bomba a orologeria». dice Donatella Massimilla, che a San Vittore ha fondato CETEC Dentro/Fuori, la compagnia teatrale composta da attrici detenute ed ex-detenute.
A Bologna, nella sezione femminile della Dozza, invece, troviamo i progetti diretti del regista Paolo Billi, che in relazione a ciò che è successo in questo periodo, ci dice: «La mia lettura dei fatti è che si sia creata una situazione di isolamento nell’isolamento. Non c’è cosa peggiore che rendere inattive le persone che sono private della libertà. Questo credo che sia stato e che sia ancora il grande problema. Da una parte necessario, ma si è andati a sfociare in quelle che sono state le rivolte, causate, parzialmente, dal fatto che è stato manifestato della mancanza di rapporti con i famigliari. Ma la realtà, purtroppo, è che si era arrivati a una situazione di tensione paurosa perché assolutamente inattivi. Già il vivere in galera ti porta a una infantilizzazione continua della tua giornata. Ogni cosa è imposta, e questo è il lavoro subdolo della galera. Si pensa sempre alla galera come costrizione. In realtà, è molto peggio, in quanto vieni spersonalizzato. Il tuo fare, il tuo esistere, dipende sempre dagli altri. Vieni trattato come una persona che non può essere responsabile, che non può assumersi responsabilità. Questo è nella quotidianità del gergo della galera. Si parla sempre di domandina, cioè, le richieste da fare sono sempre domandine».

E, allo stesso modo, in occasione della Tempesta di Shakespeare messo in scena dalle attrici del CETEC, il Piccolo Teatro Melato, che secondo Donatella Massimilla ricorda il Globe Theater perché completamente rotondo e ricorda un po’ anche la rotonda di San Vittore, realizza un video in cui la Mazzotta ci offre nuovamente uno spunto di riflessione: «Il teatro ha un inserimento nell’ambito delle attività trattamentali che può attestarsi intorno agli anni Ottanta. Il vicecapo dipartimento, il dottor Pagano, attuale direttore di San Vittore, nell’86 iniziò questa esperienza teatrale prima a Brescia e poi a San Vittore, proprio con Donatella Massimilla. Ma il teatro non è soltanto un trattamento a scopo ludico. Serve anche per proseguire il proprio cammino. Significa acquisire una capacità di fare qualcosa di positivo all’esterno. Può essere l’affinità teatrale stessa che ti reinserisce nell’ambito scenografico del palcoscenico, ma può servire anche a darti quelle regole che sono spendibili anche in un’attività ordinaria, perché se tu sai che ogni mattina ti devi svegliare facendo delle cose, che hai degli input e che devi dare degli output, tutto questo lo puoi spendere in qualunque tipo di attività all’esterno, e la recidiva, in questo caso, diminuisce».

A segnare l’inizio di una storia del Teatro carcere fu la Legge Gozzini che aveva reso possibile parlare di permessi premio che consentivano di portare gli spettacoli fuori, aveva reso possibile parlare di detenzione domiciliare, affidamenti in prova, parlare di misure alternative alla detenzione. Le stesse misure che oggi hanno permesso di contenere la pandemia, per ricordarci che l’unico carcere che fa male, che è nocivo e fa paura, è quello che con un giro di chiave chiude i cancelli e si emargina dentro se stesso.

Armando Punzo, che più di trent’anni fa, ha fondato a Volterra la Compagnia teatrale La Fortezza, la cui attività è gestita dall’Associazione culturale Carte Blanche ci fornisce un ottimo esempio in questo senso: «Il carcere di Volterra era uno tra i peggiori istituti che c’erano in Italia, non lo dico io, questa è la sua nomea, questa è la sua storia. Era tra i peggiori, tra i più chiusi, i più terribili, senza speranza. Primitivo, nel senso negativo e inutile. Con l’arrivo del teatro, oggi, è cambiato radicalmente, il teatro ha portato persone esterne, ha portato me, ha portato tanti collaboratori. C’è stata l’intrusione di un occhio esterno, di un occhio attento, di un occhio che è anche progressista, che vede l’applicazione della Legge Gozzini, una legge che dice che la pena deve tendere al reinserimento delle persone, e penso che questo sia un elemento di civiltà straordinaria».
L’ossessione per la sicurezza riconducibile a specifici fattori e a specifiche leggi dello stato ha portato al sovraffollamento di cui stavamo parlando precedentemente e per cui la recidiva contribuisce con numeri importanti. Meno del 10% sono quei detenuti che comunemente si definiscono come pericolosi ma per cui, in ogni caso, chiuderli dentro e dimenticarsi di loro, non sembrerebbe essere una soluzione. Gli studi statistici ci dimostrano, infatti, che la percentuale di ricaduta tra coloro che hanno scontato l’intera pena dietro le sbarre, è molto elevata, mentre si abbassa drasticamente per chi ha avuto la possibilità di accedere alle misure alternative.

Strehler, a San Vittore per un baratto sulla Tempesta, diceva che l’uomo per natura è disperato. Disperata ne è la redenzione, disperata la ricerca di salvezza, disperata ne è la pena e la pretesa di condanna. Ma qual è, dunque, il calore che può ricevere un disperato di fronte a tanta disperazione? Forse un applauso. Il teatro ti restituisce calore con un applauso che dice che non sei solo. Quello è il senso del teatro, dice Strehler ai detenuti. Quel senso che ristabilisce e rinsalda un senso verso una comunità in cui avere ancora, in qualche modo, fiducia.
«Senza vendere fumo, ma essendo molto concreti. I progetti devono essere molto concreti per creare anche piccole opportunità di accompagnamento tra dentro e fuori, perché in questo modo gli stai dando la serenità di non essere da soli». Questa è la visione della Massimilla per cui dal primo spettacolo a San Vittore era nata la sartoria Alice, che ha fatto gli abiti per la Scala e con la sartoria dentro e il negozio fuori è diventata negli anni un modello per tutti gli altri istituti. E poi c’è l’Apecar, il teatrino delle meraviglie alla Cervantes, come lei lo definisce, «quello che ci dà da mangiare», dice, e porta il teatro per strada, fa merende per i bambini, torte di mele e spremute biologiche con la frutta scartata dal mercato.

Il teatro risulta un contesto privilegiato perché permette ad ognuno di trovare una propria vocazione. C’è chi recita ma anche chi scrive, c’è chi dipinge e chi si occupa del parrucco ma in ogni caso è sempre il luogo dove scoprire un talento e concedersi di valorizzarlo. Su questa base Carte Blanche fornisce corsi e attestati sulle competenze, che permettono a tutti gli attori detenuti ed ex detenuti di essere iscritti regolarmente all’Inps e di partecipare con regolare retribuzione e contribuzione alle tournée per cui la compagnia teatrale è ospitata. E così, ancora una volta, i dati sembrano assecondare ciò che riscontrano coloro che giorno per giorno vivono e attraversano questo contesto. Il tasso di recidiva, infatti, che solitamente tra i detenuti delle carceri italiane arriva ad una percentuale del 70%, per chi svolge un lavoro in carcere si abbassa al 19%, mentre per chi ha frequentato i laboratori teatrali, che in Italia sono circa un centinaio, si abbassa addirittura fino al 6%.
Paolo Billi sostiene che su queste cifre si debba andare molto cauti, perché ritiene che sia facile farci dell’ideologia, cioè che: «Quest’idea sulla recidiva è nata da affermazioni fatte anni fa, in relazione all’uscita del film dei Taviani. Poi, come spesso succede, è bello dire che chi fa teatro, non compie altri reati e, quindi, non è recidivo ma questo non è suffragato da alcun riscontro perché certe percentuali non penso siano verificabili, dal momento in cui se si prende in considerazione chi fa teatro in rapporto alla popolazione detenuta, sono percentuali estremamente contenute. Io sono parte in causa che dovrebbe difendere questa affermazione, eppure mi muovo con molto timore. Mi piacerebbe che fosse così, ma non lo so».
Donatella dice: «Io non ne ho perso uno, capito? Questo diventa il momento di dare testimonianza. Perché quando tu mi parli di recidiva… io non ce l’ho avuta la recidiva. A volte, guardare i piccoli numeri è più interessante che guardare i grandi perché se tu vedi come i piccoli numeri vengono costruiti, capisci anche come puoi riprogettare sui grandi, con un’attenzione alla formazione e alla persona. Perché se non c’è quella…».
A Roma, Valentina Esposito, responsabile organizzativo della parte teatrale di Cesare deve Morire, film dei fratelli Taviani che ha reso noto al grande pubblico il fenomeno del teatro carcere, ha fondato Fort Apache, la compagnia di ex detenuti e detenuti in misura alternativa che si propone di affrontare un percorso di professionalizzazione e inserimento all’interno del sistema dello spettacolo. «Il ritorno nei contesti d’origine a seguito della dimissione espone le persone detenute in misura alternativa ed ex detenute al rischio continuo di recidiva. La mancanza di opportunità professionali, la discriminazione, l’esclusione sociale, il contatto rinnovato con gli ambienti criminali di provenienza, lo strascico di problematiche legate alla tossicodipendenza, lo smarrimento emotivo e psicologico che deriva dai lunghi anni di lontananza, compromettono continuamente i risultati trattamentali conseguiti all’interno e rendono l’attività teatrale praticata all’esterno un luogo di resistenza».

Donatella Massimilla parla di una Re-esistenza per cui resistere vuol dire anche pagare le bollette, pagare il bollo dell’Apecar, pagare, a volte, il rimborso alle attrici per permette loro di pagarsi zeromail, l’abbonamento che gli consente di scriversi quotidianamente, resistenza è tutto, dice. «La situazione è faticosa rispetto al fatto di non essere stati più riconosciuti come un corso di formazione professionale, cosa che a Volterra è riconosciuta da sempre. Da quelle che erano le premesse di Pagano e di una legge Gozzini, siamo arrivati a quello che è oggi. E non per volontà dei direttori e delle direzioni, ma per volontà di un sistema politico che ha rimosso. E siccome teatro è fare politica, polis, ma in senso alto ed etico, allora noi vogliamo che le migliori menti si mettano a pensare insieme, e a riflettere su quello che vuol dire un domani, che dev’essere sicuramente un domani di speranza concreta».
Qual è stato, dunque il modo per resistere, per affrontare l’emergenza sanitaria, che ha costretto in un primo momento l’arrestarsi di tutte queste attività?

Armando Punzo, Compagnia La Fortezza (Volterra)

Bisogna pensare al fatto che io lavoro da più di trent’anni all’interno del carcere e questo vuol dire che per mia natura, quelli che sono dei problemi, dei limiti, quelle che sono le questioni difficili, devono diventare per forza delle occasioni, Nel caso specifico, nel carcere di Volterra che cosa è successo? A un certo punto, non è più stato possibile entrare dentro a lavorare e io ho chiesto di poter mantenere un contatto, un collegamento con gli attori dentro. Inizialmente mi è stato possibile mantenere un rapporto via mail, cosa che non rientra nella “normalità” dei fatti. Mi è stato possibile far entrare un telefono, in attesa, che arrivasse un computer, abbiamo preso un 27 pollici, un computer grande, da banco, in modo tale da poterci collegare con la Compagnia e continuare il lavoro in video conferenza. Questo, chiaramente non vuol dire che non ci sia un problema, ma è un modo per non arrendersi. Siamo riusciti a mantenere un rapporto con la Compagnia dentro, e questo è importante. Un rapporto attraverso la piattaforma Zoom, che è diventato un modo per mantenere un contatto con tutti i collaboratori, che sono tantissimi. Abbiamo fatto degli incontri in cui eravamo più di cinquanta. Ci sono molti di loro che vivono in altre parti d’Italia, e si avvicinano e ritornano a Volterra nel mese di luglio, nel periodo prima dello spettacolo. Avere la possibilità di fare questi incontri ha rappresentato un’occasione per mantenere un contatto con tutti. In questo momento stiamo partecipando all’ideazione, alla concezione di questo lavoro. Stiamo andando avanti con il lavoro delle parole, con il lavoro drammaturgico, con il lavoro dei testi, con l’aspetto di tutta la parte musicale, dei costumi, delle scenografie. C’è la costumista Emanuela Dall’Aglio, c’è Alessandro Marzetti lo scenografo, ci sono io, ci sono gli attori, c’è il musicista Andreino Salvadori, che può mettere e condividere musica. Il che non significa che pensiamo che adesso il teatro si faccia online, si faccia in video. Si spera che a un certo punto, ci sarà la possibilità di mettere in pratica tutto il lavoro che stiamo facendo.

Valentina Esposito, Fort Apache (Roma)

Trovare vie alternative al fondamento relazionale del teatro non è semplice e non lo è in particolar modo per le esperienze di carattere sociale, che fanno riferimento a una forma collettiva e comunitaria di lavoro e che solo in presenza dello spettatore, nella dialettica dello sguardo e del riconoscimento, portano a compimento le proprie istanze trasformative. Integrare la produzione video come parte del processo produttivo implicherebbe l’acquisizione di nuove competenze e nuovi strumenti in grado di dialogare con il linguaggio teatrale senza consegnarlo ala reificazione e alla competizione impari con i mezzi e i prodotti televisivi e cinematografici. È un processo lungo dagli esiti incerti che richiederebbe un ripensamento radicale del linguaggio e della formazione professionale degli artisti. L’emergenza sanitaria ha rappresentato e rappresenta un momento di sospensione molto difficile, un tempo critico senza né direzione né forma, che si sovrappone a quello della pena per coloro che sono ancora reclusi e al quale invece gli attori ex detenuti conferiscono un senso legato al passato, al ricordo degli arresti domiciliari, della solitudine, dell’isolamento. Anche dal punto di vista economico è diventato ancora più complicato continuare a sostenere queste persone attraverso quella che dovrebbe essere la loro seconda opportunità lavorativa, un’alternativa concreta ai contesti criminali. In questa situazione siamo faticosamente impegnati a superare lo smarrimento attraverso soluzioni quotidiane che permettono agli attori di restare ancorati alle esperienze e alle scelte maturate.

Paolo Billi, Teatro del Pratello (Bologna)

Io lavoro alla sezione femminile ormai da anni. La sezione femminile ha la possibilità di fare degli abbonamenti mail con cui hanno la possibilità di comunicare con l’esterno. Se all’inizio erano semplicemente lo strumento per sapere come stavano, si sono poi trasformate in uno strumento di lavoro. Abbiamo inventato un epistolario teatrale. Ho rimandato il copione, la redistribuzione delle parti, sono state date delle consegne di scrittura, sono state date delle indicazioni di esercizi da farsi. Questo ha innescato un meccanismo di risposte estremamente prolifica. Adesso riceviamo tre, quattro mail al giorno. Da questo, è nata una rubrica radiofonica su radio Città Fujiko, una rubrica settimanale di sette minuti, che va in onda ogni mercoledì alle 17.30, sulle scritture dell’epistolario. L’abbiamo chiamata Prove a distanza. In quei sette minuti si dà conto del lavoro fatto in quella settimana. L’idea per il “dopo” è quello di fare una trasmissione che abbia un impatto pubblico, informativo su quest’attività che si sta facendo dentro la Dozza.
Durante questi dieci anni il Coordinamento si dà dei progetti triennali in cui viene definito un tema. C’è stato il tema de La Gerusalemme liberata, mentre la successiva biennalità è stata dedicata alle Patafisiche di Jarry, ora è in corso un progetto dal titolo: Padri e figli. Il tema è stato scelto due anni fa ma, in questo periodo di allontanamento, risulta molto attuale. A volte, capitano queste coincidenze che possono aprire inediti scenari.

In quell’istante, ho scoperto un uomo segnato dalla vita, dalla lotta con le proprie figlie, dalla guerra con il re che eri e dalla scoperta dell’uomo che sei. Ho visto le tue spalle scosse dai fremiti, di un freddo nell’anima. Lo sguardo, perso nel vuoto. Poi, la scoperta che qualcuno al mondo ancora ti amava. Si ascolta nella puntata del 29 aprile

Donatella Massimilla, CETEC Dentro/Fuori (Milano)

Questa quarantena nella quarantana è stato sicuramente un momento molto duro, molto difficile per noi. Devo dire, che io, Gilberta Crispino, la nostra attrice pedagoga che collabora con noi da oltre quindici anni, gli attori che lavorano con me fuori, siamo sempre stati molto presenti. Da parte mia, è successo in modo molto naturale. Abbiamo cominciato a scriverci. Lo scambio di mail è diventato come le storie del Decameron, come un dentro e un fuori che si rincorrevano. Ad un certo punto, io ho cominciato a chiedere loro di scrivere delle cose che riguardassero il Coronavirus, che riguardassero questo momento di tempo sospeso, all’interno di un luogo dove il tempo è sempre sospeso. Mi sono arrivati degli scritti davvero molto belli. Per noi ottobre-novembre, sarebbe un momento di festeggiamento perché ci riporta ad un trentennale di lavoro, e l’idea sarebbe quella di arrivarci avendo creato all’interno di un blog, che vogliamo mettere nel nuovo sito del CETEC, Le voci di dentro, un momento di riflessione, da aprire anche ad altre realtà, sia italiane che estere. Elena, che da Bollate è stata trasferita da San Vittore, perché è vicina al periodo di uscita, per cui a settembre verrà fuori a lavorare con noi, ha suggerito il titolo: Sbarra#Menti.
E adesso, sul piano drammaturgico, siamo nella fase due. Per cui, dopo uno scritto di Elena, che si intitola #Killer, che corrisponde alla fase uno, adesso siamo a #Life che corrisponde alla fase due.

È arrivato in silenzio. Si è svelato in silenzio. Ci ha colpito in silenzio. E quel silenzio ha fatto un gran rumore. Come le nuvole cambiano il cielo, il vento smuove le onde, l’inverno fa cadere le foglie Anche noi siamo caduti impotenti sotto il suo volere, nell’ incoscienza del suo essere con la coscienza di voler resistere. Prepotente ci ha diviso, arrogante ci ha imposto, bastardo ha ucciso.

Io chiedo, infine, ai registi se secondo loro sia possibile una società nella quale immaginare di non avere carceri.

Paolo Billi risponde riprendendo le riflessioni di Gherardo Colombo, e l’ultimo libro dell’ex magistrato per cui si è impegnato a promuovere l’informazione dell’assoluto fallimento dell’istituzione carcere e dice: «È chiaro che, quello che implica non è la chiusura delle carceri perché è facile chiudere, è economico chiudere. Economico in quanto energie. La soluzione è che cosa costruisci come azione alternativa alla reclusione e che cosa significa sostituire un paradigma con un altro paradigma. Gli ultimi ordinamenti penitenziari parlano del fatto che il carcere abbia una funzione ri-educativa, ma a pensarci bene… anche questo concetto della rieducazione è un concetto assolutamente fragile. C’è questa presunzione di essere dei rieducatori. Il problema è intervenire alla base, lavorare sulla persona. È un lavoro estremamente impegnativo e complesso. Molto più facile è chiudere tutti dentro e buttare via la chiave».

Donatella Massimilla ricorda quando nel ’98 a un convegno teatrale europeo che lei organizzò al Pietrasanta, venne Judith Malina, quello stesso anno in cui venne anche Eugenio Barba. Racconta che, a un certo punto, lei disse che le carceri non dovevano esistere e, così, Donatella prosegue: «Il concetto che la rieducazione, fare trattamento nel momento in cui tu privi della libertà le persone e le rinchiudi in una cella, dove non hanno nemmeno il bagno o vivono in otto, o in sei, o in quattro, tu capisci che è veramente difficile, perché quella realtà di cattività, in realtà non fa che incattivirti di più».

Valentina Esposito cita il prologo del reportage che Anton Cechov scrisse alla fine dell’800 andando a visitare la colonia penale dell’isola di Sakhalin, un testo che nel carcere di Rebibbia portarono in scena dieci anni fa: «Io sono profondamento convinto che tra cinquanta o cento anni si guarderà alla pena dell’ergastolo con la stessa perplessità ed imbarazzo con cui oggi guardiamo l’applicazione della tortura. (..) Sakhalin è un luogo di intollerabili sofferenze per ciascun uomo, sia esso recluso o custode. Io oggi parto con la convinzione che il mio viaggio forse non darà un pregevole contributo né alla letteratura né alla scienza, ma sono sicuro che in tutti questi mesi avrò l’occasione di vivere momenti di gioia, o di amarezza, che ricorderò fino alla fine dei miei giorni».

Noi chiamati dalla scienza Umani. Vorremmo essere Dei ma non lo siamo… Siamo carne e sangue. Sangue e carne, dice Elena.
Shakespeare dice: Come per ogni colpa implorate il perdono, così la vostra indulgenza metta me in libertà

Donatella mi racconta che quando Shakespeare si era ritirato a Stratford, a Londra, l’ultima parola che ha scritto era Libertà. «Amo la storia del teatro, amo la mia formazione», incalza. E anche se le tempeste nelle carceri italiane sono state molte, e molto faticose, «Se noi qui diciamo siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni», dice Donatella, «Allora, sappiamo veramente che stiamo facendo un viaggio insieme per sognare un fuori diverso».

Marta Pezzucchi

(Foto di copertina: Maurizio Buscarino, Cetec – Viaggio con Alice San Vittore, 1989)

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