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Teatri abitatori di città. Una cronaca

di Altre Velocità

Teatri Abitatori di Città, tenutosi il 16 febbraio scorso al MAST di Bologna. Anche la giornata bolognese si è caratterizzata per l’eterogeneità degli ospiti e degli interventi, evidenziando così le molteplici connessioni del teatro agli ambiti disciplinari più diversi, alla ricerca di una discussione plurale che non dimentichi la complessità del discorso e della progettazione culturale afferente i due poli del convegno. Dopo un’introduzione del direttore di ERT Claudio Longhi, la parola è passata al regista greco Theodoros Terzopoulos, per proseguire con Chiara Guidi e un successivo confronto tra i due sui concetti di spazio, periferia, centro, teatro e confronto con l’altro. Un caffè per ripensare alle intense parole dei due artisti, e si passa presto a discutere di urbanistica e dell’ideale di “città aperta” insieme a Richard Sennett, ma anche di finanziamenti alla città con Saskia Sassen. Si ricomincia nel pomeriggio con due excursus storici, uno sull’attore e i gruppi anni ’70-’80 nel loro rapporto con la città e l’istituzione teatrale, con gli interventi dei professori Franco Ruffini e Marco De Marinis, e un altro relativo all’evoluzione degli edifici teatrali nei secoli tenuto da Marco de Michielis. Segue un ospite internazionale, l’argentino Alejandro Tantanian che ci propone una riflessione sui teatri nazionali, raccontando la sua esperienza al Teatro Cervantes di Buenos Aires. Conclude la giornata di convegno la presentazione di Federica Rocchi del progetto “Andante” di Modena, e il successivo commento di Lucio D’Amelio e Dario Giovannini. Richard Sennett Città e Teatro in tre movimenti APERTURA/CHIUSURA (De Michielis, Sennett, Sassen) Città aperte e città chiuse. Richard Sennet riporta il discorso all’eterno e indiscutibile principio della democrazia, dell’uguaglianza, della libertà di fare e d’essere dei cittadini. Una città aperta che, come in una polis greca, permetta l’incontro e il confronto dei suoi abitanti e la nascita di una comunità con una coscienza collettiva che superi il marcato individualismo dell’era contemporanea. Apertura vuol dire sperimentare, fallire, aprirsi alla possibilità di scoprire qualcosa di nuovo: una logica della sfida e della progettualità che si oppone all’idea divagante di una risoluzione unilaterale dei problemi, predominante nelle città chiuse. Ma apertura vuol dire, soprattutto, l’abbattimento delle barriere che separano i ricchi dai poveri. Qual è il ruolo del teatro in questo tipo di città, tanto primordiale quanto innovativo? Gli strumenti del teatro, uniti a nuove modalità di progettare l’architettura e l’urbanistica della città, ci permettono di creare luoghi complessi, ambigui e pieni di vita. Aprire la città vuol dire anche teatralizzarla e renderla viva. La città è luogo di frontiera, in cui tutte le culture possono incontrarsi e dialogare, possono avere una loro presenza, diventando soggetti urbani, abitatori. Ma di chi è lo spazio pubblico oggi? Ce lo chiede l’economista Saskia Sassen che, dati alla mano, risponde che è il grande capitale a impossessarsi dello spazio pubblico, snaturandolo. Solo il teatro in tale contesto sembra avere le possibilità di recuperare le coordinate di umanità e urbanità di cui la comunità odierna ha bisogno. Tuttavia non basta più il teatro all’italiana, architettura chiusa che conserva logiche di relazione sociale ormai superate. Il professor De Michielis approfondisce la questione, illustrandoci una serie di esempi di edifici teatrali aperti alla città, capaci in tal modo di osservarla per farsi luogo di indagine sociale e ritrovare il senso comunitario del teatro, adatto al contesto odierno. Tra questi De Michielis ricorda il 2nd Stage Theatre di New York, ricavato dal secondo piano di un edificio preesistente, le cui pareti sono vetrate che aprono lo spazio chiuso alla città che ne diventa scenografia; il Maxim Gorki di Berlino, luogo di confronto per l’immigrazione e la cultura Rom; o in Italia il NEST- Napoli Est Teatro e il Nuovo Teatro Sanità che lavorano a partire dalle zone più complesse e marginali della città; o, sempre su questa linea, il Teatro del Lido di Ostia, il Crest di Taranto, il progetto Clessidra del Teatro Le Forche. Chiara Guidi CENTRO/PERIFERIA (Guidi, Terzopoulos, Rocchi, Sennett) La periferia come luogo cardine per approfondire e conoscere davvero la città nei suoi aspetti più intimi e contraddittori attira il teatro e gli consente di essere strumento indagatore per il confronto con il territorio e le piccole realtà. Theodoros Terzopoulos a tal proposito ci racconta l’insediamento di Attis Theatro nel quartiere popolare di Metaxourgeio ad Atene nel 1984, tra disagio, povertà e prostituzione. Ci è voluto del tempo, ma il teatro è riuscito a integrarsi in questi spazi e ad affiancarsi a tali realtà: «Ora accanto a 70 bordelli» ci svela sorridendo Terzopoulos «ci sono almeno 30 teatri!». Nel progetto di Attis Theatro l’artista greco riconosce il valore dell’incontro con l’altro, con il diverso, tanto da definire Metaxourgeio «il luogo di fratellanza ad Atene». A Terzopoulos si riallaccia Chiara Guidi, secondo cui il teatro è «scaturigine di cultura», un linguaggio che porta l’uomo nel proprio intimo, nel proprio modo di pensare; è una maniera per tradurre le proprie emozioni in una forma. La Guidi calca dunque sull’importanza dell’azione teatrale nei piccoli luoghi, per renderli vivi e, attraverso lo scambio di idee, l’esperienza e l’incontro con l’altro, permette di realizzare una forma di comunicazione autentica e democratica in grado di comportare un cambiamento sociale forte e consapevole. Non siamo lontani dal concetto di “città aperta” di Sennett (vedi sopra) e la sintesi tra questo e il ruolo del teatro nel rapporto tra centro e periferia lo possiamo vedere nel progetto “Andante” di Modena, presentato da Federica Rocchi, il cui obiettivo è creare una rete di comunicazione tra le realtà teatrali che operano sul territorio, il tutto attraverso la messa in comune delle diverse progettualità e competenze artistiche, in spazi diversi e non deputati, in dialogo con i “movimenti” di cui le diverse visioni artistiche sono portatrici. Città e teatro si integrano, facendosi l’uno sostenitore dell’altro, e andando a costruire una mappa fatta di nuove strade e nuovi collegamenti, nel tentativo di non lasciare isolato nulla. Marco De Marinis DENTRO/FUORI (Ruffini, De Marinis) Con Franco Ruffini e Marco De Marinis la riflessione si sposta alle esperienze registiche che hanno riformato il teatro nel corso del Novecento, esperienze caratterizzate da una “fuga dal centro” per ricercare nuovi spazi laboratoriali e di ricerca artistica, lontani dai grandi centri urbani. Conformemente al rinnovamento del teatro che, dall’inizio del Novecento, ha visto la compresenza fisica di attore e spettatore, l’incontro con il corpo dell’estraneo. «Un impulso negatore della città» afferma De Marinis «è presente nella storia del teatro accanto all’archetipo del teatro centro della polis: da Tespi ad Antigone, ai buffoni, al nomadismo e alla diversità degli attori». Il teatro a partire dal Novecento non si fa solo strumento di incontro, ma anche, e soprattutto, di liberazione: libertà dalle imposizioni sociali e dall’anarchia del gesto, per ritrovare un corpo-mente armonico in grado di compiere gesti necessari. L’evoluzione dei principi artistici e antropologici del teatro, unita all’eccessivo immobilismo dei grandi centri urbani, in cui il teatro è uno strumento più economico che culturale e la logica del soddisfacimento del pubblico prevale sulla ricerca artistica, ha portato i teatranti a ricercare la propria libertà fuori dal centro. «Nel Novecento» sottolinea infatti De Marinis, «ci si allontanava dalla città per essere uomini liberi». Di questo già ne parlava Copeau: «Il teatro per essere tale deve smettere di essere commerciale e parigino». Una più consapevole e approfondita “apolitologia”, come la definisce De Marinis sulla scorta del pensiero di Peter Sloterdijk, è portata avanti dal Terzo Teatro, quello di Grotowski e Barba, che si allontana dal centro non attratto da tendenze escapiste e aprioristicamente centrifughe, quanto piuttosto per trasformare la marginalità in alternative identitarie.

Ilaria Cecchinato, Valeria Venturelli

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