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Sulla soglia. “King Size” di Cristoph Marthaler

di Altre Velocità

Un tempo sospeso, armonizzato da tinte gialle e blu. Un colore caldo e un colore freddo, che si alternano nei dettagli di una stanza d’albergo. Quando entriamo in sala, un attore (Bendix Leffsen) è sdraiato nel grande letto a due piazze e sorride con gli occhi chiusi. Ora la luce gialla si alza e anche lui lentamente si sveglia, fischiettando mentre si veste, entrando e uscendo dalla porta a soffietto del bagno interno. Guardandosi nello specchio accanto al letto, con un pettine e una mano si liscia la testa completamente calva e, raddrizzato papillon e colletto della camicia, esce da una porta per rientrare in proscenio e sedersi al pianoforte. Basta questo attacco per introdurre il discorso di Cristoph Marthaler. Non c’è un dentro e non c’è un fuori. Ovvero: il confine è permeabile, e quanto sta all’interno di un sogno o di un pensiero può sfuggire e liberarsi facendosi materia altra. Il segno scivola, il significato si trasforma.
Entrano in camera due inservienti, un uomo (Michael von der Heide) e una donna (Tora Augestad), che rifanno il letto al nostro pianista e intanto cantano I go to sleep, un singolo di fine anni ’60 dei The Kinks che aggiunge questa alla lunga coda di cover che si sono susseguite nei decenni. Piegano il lenzuolo, accomodano il cuscino ma in realtà – e il canto dovrebbe già averci avvisato – ciò che fanno è prepararlo per se stessi, per entrarvi dentro e uscirne nuovamente.
Da qui in avanti, la coppia accompagna lo spettacolo con una lunga track list di canzoni d’amore che una dopo l’altra costruiscono un racconto possibile, una storia d’amore (o tante storie precipitate dentro un’unica coppia) attraversata da entusiasmo e nostalgia, da condivisioni e distanze, divertimento e malinconia. I due modificheranno il loro abito più volte, avvicinandosi all’armadio svestendosi e rivestendosi di fronte a noi o scomparendo dietro le quinte, per riproporsi sempre diversi e sempre identici, portavoce di stati d’animo archetipici, recuperati da brani musicali e canzonette più o meno celebri, tra cui Mélie Mélodie (1969) e I’ll be there dei Jackson 5 (1970).
Ma il surrealismo di Marthaler insidia questa storia di ordinaria passione, e il primo elemento a essere sabotato è l’ambiente che osserviamo: le ante del grande armadio a parete funzionano da porte per un altrove, nelle quali gli attori entrano per poi comparire in altri punti della scena; alcuni dettagli hanno collocazioni fuori dalla portata dell’uomo, in alto a sinistra un piccolo frigo bar di cui è possibile aprire lo sportello ma dal quale non è possibile afferrare niente; così il bagno, che è in grado di fagocitare non uno ma tutti gli attori insieme.

Ma non è tutto qui. Se i tre attori comunicano solo attraverso note musicali e canzoni d’amore, un quarto personaggio è pronto a costituire l’eccezione a una regola espressiva a tratti incatenante. È una signora anziana (l’attrice Nikola Weisse), con un tailleur blu scuro, borsa di pelle marrone alla mano, che entra ed esce di tanto in tanto dalla scena. Scruta i personaggi attorno a lei, o li ignora platealmente. Spia negli armadi, si siede comodamente sul pouf che arreda un angolo della camera. Il suo strumento è la parola detta, un parlato lento e pensoso che genera silenzio e un nuovo tipo di ascolto. Dalla sua borsa, anch’esso un varco spaziale degno di un cartoon americano, da quella piccola ma capiente borsa la signora estrae un leggìo pieghevole, che con calma apre e posiziona di fronte a sé. Lo osserva un paio di volte mentre gli attori cantanti si avvicendano attorno a lei per poi dileguarsi lasciandola nel silenzio, e la sentiamo dire «Ci sono leggii che non hanno ancora mai visto una nota», come a rivendicare il senso della pazienza e dell’attesa, il senso del foglio bianco il tempo diverso per ciascuno di far nascere un pensiero o un sentimento.
Nello scorrere dello spettacolo, quella borsa si fa recipiente per un pranzo a base di spaghetti, consumati con due bacchette cinesi perfettamente maneggiate, e strumento di saccheggio: un telefono fisso con tutta la sua cornetta vi entra dentro per poi non ricomparire mai più, sottratto all’arredamento della camera d’albergo come alcuni di noi dalla toilette si impossessano delle saponette.

King Size è un’opera sottile, che con estrema leggerezza conduce gli spettatori nel tempo dilatato di un sogno ambientato in una stanza di ghiaccio e oro. È forse un lavoro che per la sua pacatezza non ammalia come altri lavori del maestro svizzero, ma proprio per questo atteggiamento minore, per l’appoggio che propone (il confine del sogno, la soglia tra realtà e irrealtà) costituisce la piccola perla di una grande regia.
Di chi sono questi sogni? A chi appartiene questa vista intonata? Quale vita raccontano tutte queste canzoni? A un certo punto dello spettacolo, la signora anziana ci dice «Sono sempre stata quella che sono, eppure sono così diversa da quella che ero. Sono, diciamo, ora l’una ora l’altra». Questa battuta fa balenare l’idea che l’attrice giovane sia lei, sia stata lei, in un’improvvisa linearità narrativa dove sia la signora anziana, per tutti noi, a ricordare e sognare, ad aver vissuto o aver fantasticato tanti istanti per ciascuna canzone cantata. Ma questa non è una certezza, e forse non ci basta per smettere di rincorrere un filo che procede da un personaggio all’altro. Chiunque essi siano, sono compagni di un viaggio alle soglie dell’irreale. Un fatto possibile soprattutto a teatro.

di Serena Terranova

foto di Christophe Raynaud De Lage

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