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Sulla linea dei conflitti. Conversazione con Serghej Dorofeev

di Francesco Brusa

Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un’altra Europa e di un ciclo di interviste e reportage dedicati all’Ucraina, la cui introduzione è possibile leggere qui.

A maggio del 2014 la città ucraina di Severodonetsk (circa 30 km dall’attuale confine con le repubbliche indipendentiste) è stata per due mesi sotto il controllo dei ribelli separatisti, fino alla riconquista da parte dell’esercito nazionale. A seguito di questi eventi, l’atmosfera della cittadina si è certamente “normalizzata” pur rimanendo comunque tesa per via della vicinanza con le aree degli scontri e per via della consapevolezza da parte degli abitanti di poter ricadere da un momento all’altro in una condizione di instabilità. Nel frattempo, qui sono state riallocate molte delle persone in fuga dai conflitti in corso nel Donbass. Tra questi, Сергей Дорофеев (Serghej Dorofeev), che assieme ad alcuni locali e non, ha rinnovato la sala teatrale della città diventandone il direttore organizzativo. Con il prosieguo della guerra, sono arrivati anche altri professionisti teatrali, prima impiegati nel teatro statale di Lugansk (capitale di una delle due repubbliche popolari indipendenti), tanto che quello di Severodonetsk viene praticamente considerato come una “ricostituzione” in altra sede della struttura di Lugansk.
Abbiamo incontrato Serghej, chiedendogli di raccontarci i dettagli di tale ricostituzione e provando così a indagare le motivazioni profonde di questo “teatro di confine”.

ll vostro teatro viene spesso definito come “il teatro dei rifugiati”…

Ci sono circa 96 persone, tra “interni” e collaboratori esterni, che gravitano attorno alla nostra struttura e di queste 27 sono infatti “sfollati interni”, che si sono appunto allontanati dalla Crimea o dal Donbass. Io stesso lavoravo a Lugansk prima che esplodesse il conflitto e mi sono spostato qui a Severodonetsk. In quel momento la sala teatrale cittadina era praticamente vuota ma, gradualmente, si è unito qualche locale, oltre che altri attori che arrivavano da Lugansk. Allo stesso modo, persone che già avevano lasciato le zone del Donbass trovando rifugio nel resto del paese (Cherkassy, Kiev, Dnepropetrovsk…) hanno fatto ritorno in quello che sentivano come il “loro teatro”. Una volta costituito un gruppo di partenza abbiamo indetto un concorso nazionale per assumere altri professionisti e ora possiamo contare su una troupe fissa di 33 persone, tra cui attori, autori, ballerini e cantanti… Disponiamo insomma di una compagnia in grado di sostenere un intero repertorio annuale.
Si tratta ovviamente di qualcosa che non può che farmi felice. Chi ha lasciato Donetsk e Lugansk l’ha fatto perché aveva perso la propria abitazione nella guerra ed è stato costretto a cercare una nuova vita in altri luoghi. Alcuni avevano magari lavorato nel teatro statale di Lugansk per 20 anni e la nuova situazione di quella zona li ha forzati ad andarsene. È dunque significativo che ora abbiano la possibilità di essere vicini alla loro città d’origini e di riportare in vita questa sala. E – aggiungo – per farlo molti hanno anche lasciato incarichi importanti presso altre strutture. 

Che tipo di spettacoli viene rappresentato nella vostra sala?

Al momento lavorano nella nostra struttura diversi registi e ognuno di loro ha la propria poetica. Direi che la produzione è parecchio diversificata.
Ci sono infatti alcuni registi con lunga esperienza alle spalle, che dunque magari utilizzano un metodo di messa in scena già consolidato da tempo, mentre altri più giovani stanno sperimentando soprattutto sulla base di autori ucraini contemporanei. Fra questi Вероника Слотоверкая (Veronika Slotoverkaja), autrice di uno spettacolo che tenta di analizzare la vita rurale del nostro paese, e Евгений Смерляков (Evghenij Smerliakov), che ha tra l’altro preso parto al concorso britannico “Taking the stage”.
In più, durante l’anno appena trascorso, abbiamo collaborato con il regista di Kiev Андрей Май (Andreij Maj, autore de I diari del Maidain), che ha prodotto uno spettacolo di genere documentario incentrato sulla biografia di quattro dei nostri attori. Si tratta di “sfollati interni”, due dei quali originari di Severodonetsk mentre gli altri da Lugansk e Crimea. Attraverso la loro esperienza personale, nella performance si affrontano i temi legati ai conflitti contemporanei. Sulla stessa linea, abbiamo messo in scena un’opera (Nel terrore) che pone in parallelo gli eventi del Donbass gli inizi della Germania nazista nel ’33. Oppure, ci siamo occupati di elementi del folklore ucraino, con delle commedie che, ad esempio, offrono uno spaccato dell’atmosfera sociale dei Carpazi o della città di Lviv.
Offrire al pubblico la maggior varietà di teatro possibile è certamente uno dei nostri obiettivi.

Pensi che in generale il teatro ucraino abbia assunto un carattere maggiormente politico di prima?

A mio modo di vedere sì, più che in precedenza. Gli effetti dei conflitti in corso si ripercuotono in maniera diffusa nella società, ognuno sta in qualche modo reagendo a questi eventi. Anche teatro, da parte sua, sta reagendo anche se forse non in maniera così ferma e forte come vorrebbe.
Quando abbiamo messo in scena spettacoli relativi a questi temi, le reazioni del pubblico sono state ovviamente molto partecipate. Per una performance abbiamo utilizzato il genere del “cabaret-documentario”, dunque con una accentuata componente umoristica. Ma lo humor è solamente una maschera: basta scostarla un poco per vedere tutta la sofferenza e l’angoscia che c’è sotto, la sofferenza e l’angoscia con cui gli abitanti di Severodonetsk si confrontano ogni giorno.
In ogni zona dell’Ucraina si stanno producendo spettacoli che hanno a che fare con Crimea e Donbass. Abbiamo ospitato Blokpost – una performance del teatro di Ivano Frankovsk – e ricordo che gli spettatori sono usciti da teatro con le lacrime agli occhi. È qualcosa che mi fa pensare che se eventi culturali di questo tipo fossero arrivati prima in questa zona, forse la storia sarebbe andata diversamente.

Esiste dunque un forte desiderio da parte del pubblico di riflettere su questi temi a teatro?

In realtà, direi che la maggiore tendenza qui è quella di non voler assistere a spettacoli che parlino dei conflitti in corso. Per la gente di Severdonetsk si tratta di eventi che fanno parte della vita quotidiana ed è chiaro quindi che i più vanno a teatro per vedere qualcosa di diverso, qualcosa che non porti a soffrire ma a provare delle emozioni “positive”. Da parte nostra, non possiamo non rilevare tale desiderio e non assecondarlo, almeno in una certa misura. Per questo, come dicevo in precedenza, abbiamo inserito nel nostro repertorio anche commedie, favole per bambini, melodrammi… non si può parlare forse di emozioni “positive” ma comunque di emozioni che non sono relazionate con la guerra e in generale con ciò che sta avvenendo ora nel nostro paese a livello politico. Non offriamo allora al pubblico esattamente ciò che vuole, poniamo semplicemente attenzione ad alcuni accenti piuttosto che altri.

Hai idea di come stia proseguendo la vita culturale a Lugansk e nei territori occupati? Pensi ci sia meno libertà d’espressione e creazione artistica che prima?

A mio modo di vedere, assolutamente sì. Nel mio caso ho lasciato Lugansk per un principio morale: non è possibile vivere sotto “differenti bandiere”, con chi viene a casa tua e inizia a dirti come devi condurre la tua vita. Non è giusto da alcun punto di vista. Tutte le persone che sono fuggite l’hanno fatto per restare fedeli ai loro principi morali, per non essere costretti a vivere sotto un potere estraneo. Restando in quell’area ti accorgi di star commettendo un crimine verso te stesso e verso il tuo paese: non vivi normalmente, non dormi tranquillo… è chiaro che al momento ci sia molta meno libertà di espressione e di creazione che prima.
Al contrario, qua sento di avere una illimitata possibilità di fare quello che voglio. Possiamo parlare sul palco di problemi e questioni politiche senza alcun problema, senza la paura di subire punizioni o abusi. Anzi, devo dire che le autorità ucraine ci hanno sempre fornito tutto il supporto di cui abbiamo avuto bisogno.

È stata da poco messa in atto una riforma della cultura. Come vedi il futuro del teatro in Ucraina?

È una domanda complessa. Stanno gradualmente cambiando le tipologie contrattuali di direttori, attori, collaboratori, etc mentre stanno emergendo nuove figure professionali. È troppo presto per dire se si tratta di un processo positivo o meno.
Vorrei però citare le parole di un critico che ha assistito a uno dei nostri spettacoli. Conosceva già la storia del nostro teatro ed è stato stupito dal vedere così tanti giovani attivi nella struttura. Ha detto: “è più facile distruggere il vecchio per creare il nuovo che rinnovare un vecchio sistema”. Quello che intendo è che abbiamo chiamato questo teatro che grazie a noi ora esiste a Severodonestk “teatro di Lugansk” anche se, ovviamente, non corrisponde al cento per cento al vecchio teatro di Lugansk. Non posso affermare che sia meglio di prima, ma posso certamente dire che è qualcosa di nuovo.  
In questo momento mi pare che stiano nascendo interessanti esperienze di teatro “non-commerciale”, come per esempio quella del Дикий Театр (“Teatro selvaggio”). Serve tempo ovviamente, ma esistono segnali che fanno sperare nell’inizio di una nuova era per la scena ucraina.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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