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Dispacci dal vuoto #3: “Stabat mater” di Liv Ferracchiati

di Ilaria Cecchinato

Una figura femminile, nuda, emerge da una luce fioca che ne accarezza ed evidenzia le forme, negate non appena indossa una fascia contenitiva. Dalla bocca sgorgano parole – «sangue», «ovaie», «vagina» – e anche qualche bestemmia reiterata, un tentativo di liberazione dal fastidio provocato da quel ventre dolorante e appesantito dal ciclo mestruale. Così ha inizio Stabat mater della compagnia The Baby Walk, secondo capitolo della trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati (il primo è Peter Pan guarda sotto le gonne, il terzo Un eschimese in Amazzonia).

Lo spettacolo sembra tentare un’indagine non solo del tema della transgenia, ma anche e soprattutto dell’influenza dei legami familiari nel passaggio all’età adulta e nelle relazioni con gli altri. La figura in scena (Alice Raffaelli) si veste, indossando capi maschili. Scopriamo che è un ventisettenne scrittore, o meglio aspirante tale. Sembra non aver mai messo in discussione il suo sentirsi uomo in corpo di donna: fin da piccolo, racconta alla sua analista (Chiara Leoncini), è attratto dalle donne secondo pulsioni maschili e gli altri lo riconoscono come un’identità non prettamente femminile, anche senza operazioni e invasive cure ormonali. Forse l’unica cosa che toglierebbe è il seno, dice, per sentirsi più a proprio agio. La sua “mancanza” la colmerà, sostiene, in altro modo. Centrale è il rapporto con la madre (Laura Marinoni), solo un volto dentro uno schermo a sovrastare la scena, una presenza costante che, come un Grande Fratello, stana la coscienza e obbliga il protagonista a tenere fede al ruolo di figlia che vive una vita normale: biologicamente donna, deve mangiare, non deve andare a letto tardi e deve rispondere al telefono a ogni chiamata materna. È una madre che riporta alla coscienza del figlio la mera realtà fatta di biologia e convenzioni sociali, ricordandogli che in fin dei conti questo suo sentirsi uomo è del tutto secondario alla volontà della voce genitoriale. Solo con la madre, infatti, il protagonista parla al femminile, subendo le sue attenzioni, e anche quando tenta un distacco, subito torna alla remissività. È una lotta continua, per il protagonista, fra l’affrontare il mondo dei “normali”, screditandoli, per la loro banalità e realtà incatenante (come la fede nuziale portata al dito dall’analista) e la necessità di approvazione da quella figura materna che, per quanto ingombrante sia, rappresenta pur sempre un solido e sicuro cordone a cui restare aggrappati. È un mondo, quello dei normali, con cui il protagonista si ritrova a fare i conti, mentre la madre alimenta un senso di insofferenza e un latente senso di colpa, un’intima angoscia data dal sentirsi uno sbaglio in quando non riconosciuto. Allora amarsi è impossibile così come lasciarsi amare, e ogni tentativo della fidanzata (Linda Caridi) di farlo sentire accettato e perfetto così come lui si sente è un peso da combattere a colpi di cinismo. Altrettanto impossibile si rivela il dare amore, visto soltanto come una gara di seduzione per conquistare ciò che pare impossibile, solo per il gusto di lasciare un segno o sentirsi unici e insostituibili per pochi istanti.

Lo spettacolo è accompagnato da una costante patina di ironia capace di farsi arma contro quel senso di inadeguatezza sepolto nell’intimo del protagonista. Ed è così che, tra le pieghe di questo amaro conflitto interiore, emergono momenti di riso e leggerezza, in una costante sdrammatizzazione della propria condizione. Sul palco si alternano quadri scenici, un montaggio di momenti della vita del protagonista intervallati dalle sedute con l’analista che permettono di approfondire la complessità della condizione interiore di lui e ricostruire la storia secondo un ordine temporale lineare. Le scene infatti appaiono in forma di ricordo, di presente o di flashback, dislocate nello spazio scenico, con la madre sempre come presenza costante. Si tentano passaggi provocatori nei confronti del pubblico, anche se i baci appassionati, l’inizio di un rapporto sessuale, la “mancanza” colmata da un pene di gomma «esagerato», le biancherie sensuali e la parziale nudità delle attrici sembrano non riuscire ad acquisire un vero valore di “scandalo”, soprattutto in una realtà in cui sesso e sensualità sono più che integrati e commercializzati.

In un quadro tutto femminile, la donna va in scena sotto il peso delle etichette sociali e dei ruoli che riveste e custodisce: dalla madre, generatrice e custode dei figli e degli schemi all’interno dei quali muoversi per proteggersi dalla società; alla fidanzata, che ama e accompagna il suo uomo nella disperata speranza di renderlo adulto; fino alla psicologa, confidente e poi incarnazione della moralità dei “normali” da screditare, scandalizzare e possedere. In queste dinamiche emergono tutte le contraddizioni intime del singolo, che tuttavia paiono dettate dalla situazione esterna fatta di pregiudizi nei confronti di tutto ciò che non rientra in parametri convenzionali. Lo spettacolo sembra quindi andare oltre la tematica della trangenia, indagando la difficoltà della personalità del singolo individuo di affermarsi ed essere riconosciuta, soprattutto quando rompe con gli schemi convenzionali. Si manifesta un inquietante vuoto comunicativo tra individuo e società, un gruppo che punta il dito contro il “diverso”, il quale a sua volta scredita il mondo dei “normali” con le loro stesse armi. Nell’ironia e nel riso ecco un’amarezza di fondo, l’intuizione dell’impossibilità di comunicare e comprenderci; incomunicazione e incomprensione sia dall’una che dall’altra parte, provocano a entrambe un sentimento di disagio, di dolore. Quella del protagonista è una resistenza narcisista figlia del suo tempo, un vano tentativo di affermare se stesso oltre qualsiasi definizione preconcetta, che finisce tuttavia per essere solo una lotta fra volontà d’affermazione e il bisogno di riconoscimento da parte dell’esterno, dove ogni cambiamento o posizione vengono assunti chiedendo il permesso: «Mamma, vuoi sentirtelo dire?». Coraggioso tentativo, ma senza nessuna nuova risposta.

 

L'autore

  • Ilaria Cecchinato

    Laureata in Dams e in Italianistica, si occupa di giornalismo e cura progetti di studio sul rapporto tra audio, radio e teatro. Ha collaborato con Radio Città Fujiko ed è audio editor per radio e associazioni. Nel 2018 ha vinto il bando di ricerca Biennale ASAC e nel 2020 ha co-curato il radio-documentario "La scena invisibile - Franco Visioli" per RSI.

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