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illustrazione di Marco Smacchia
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Sovraccarichi, abusi, paghe basse: il teatro che non rispetta chi lavora

di Alex Giuzio

Contratti irregolari, straordinari non pagati, sovraccarico di lavoro, sfruttamento eccessivo dei dipendenti, pressioni psicologiche: sono problemi che abbiamo sempre sentito associare a multinazionali senza scrupoli come Amazon o a settori specifici come la ristorazione e il turismo stagionale, e invece riguardano anche una parte significativa del teatro italiano, quella delle realtà più grandi e finanziate dal pubblico. Il tema del lavoro eccessivo, sfruttato e irregolare è diventato di grande attualità grazie alla pubblicazione del brillante saggio di Francesca Coin Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi 2023), e più in generale, si iscrive nel contesto della competizione neoliberista in cui tutti noi viviamo, quello che vede le aziende e gli individui impegnati a contribuire a una “crescita” perenne e sfrenata, senza riflettere troppo sulle cause e sulle conseguenze distruttive di questa corsa. Le grandi realtà teatrali non sono certo colpevoli di tutto ciò, ma nemmeno possono considerarsi delle isole felici, come invece porta a pensare una certa postura piuttosto frequente fra chi dirige teatri e festival, quella di chi ritiene lo spettacolo dal vivo un settore progressista e intoccabile in quanto dà voce e spazio alle fasce più deboli e marginali, solleva questioni sociali, è sempre corretto e dalla parte dei “giusti”. Al contrario, alcuni grandi teatri non sembrano affatto esenti dai meccanismi di abuso e sfruttamento dei lavoratori tipici dell’economia capitalista. Abbiamo perciò ritenuto necessario dedicare un’inchiesta a puntate al tema del lavoro nel teatro, decidendo di partire dai problemi di chi è impiegato nelle mansioni d’ufficio: perché le irregolarità sembrano troppo diffuse, perché negli ultimi mesi sono aumentati i casi di scioperi e dimissioni volontarie, e perché per una persona che se ne va, ce ne sono molte altre che continuano ad accettare o subire in silenzio. Le varie testimonianze che abbiamo raccolto fra le scrivanie degli uffici stampa, promozione, organizzazione e amministrazione di alcune grandi realtà teatrali in tutta Italia hanno fatto emergere umori e preoccupazioni, ma anche abusi e illeciti che abbiamo deciso di restituire nella loro complessità, senza per ora coinvolgere le parti datoriali, che saranno interpellate per un successivo articolo, e nemmeno gli artisti, spesso in condizioni ancora più svantaggiate e precarie che meritano di essere trattate a parte.

Un’ultima premessa è doverosa: la situazione che tratteggiamo non riguarda tutto il teatro italiano; anzi la maggioranza degli enti, festival e compagnie lavora secondo dinamiche oneste e rispettose nei confronti di chi lavora. Tuttavia, alcune prassi sono tanto diffuse da rendere alcune irregolarità una norma per entrambe le parti. E con l’aumentare delle dimensioni delle realtà teatrali, e quindi del numero di produzioni, repliche e personale, sembra che aumentino anche le logiche aziendalistiche che guardano più al profitto e meno al benessere dei dipendenti, soprattutto giovani. Una conseguenza, questa, anche dei meccanismi di finanziamento ministeriale che incentivano l’iperproduttività, e che sono parte del problema. Tuttavia, ciò non giustifica certe realtà dall’approfittare della loro condizione di vittime per farsi carnefici: difendersi dietro le motivazioni della necessità della cultura, del teatro come settore fragile e precario, dei vincoli ministeriali che impongono di iperprodurre e rendere, non può essere un motivo sufficiente per coprire lo sfruttamento e le irregolarità che andiamo ora a raccontare. Non con l’intento di difendere aprioristicamente una categoria che gode comunque di un buon contratto nazionale e di adeguate tutele rispetto ad altri tipi di lavoratori, bensì per evidenziare come alcuni grandi enti cerchino sistematicamente di calpestare tali diritti. Con l’aggravante che non si tratta di imprese private, bensì di realtà ampiamente finanziate da soldi pubblici.

Contratti irregolari e straordinari non pagati

Uno degli abusi più diffusi nelle grandi realtà teatrali è l’utilizzo improprio dei contratti di scrittura. Si tratta di una forma prevista dal contratto collettivo nazionale per il personale artistico, tecnico e amministrativo strettamente legato a una singola produzione, che serve in sostanza ad assumere chi si occupa di uno specifico spettacolo e va in tournée con esso. Tuttavia, la scrittura viene ampiamente utilizzata da alcune realtà per assumere gli impiegati ordinari che si occupano di organizzazione, comunicazione e promozione in maniera continuativa. Se un dipendente ha un orario di lavoro, una scrivania e delle mansioni trasversali su più spettacoli, significa che non è uno scritturato bensì un impiegato, perciò andrebbe inquadrato come tale, ma molti teatri non lo fanno per risparmiare su contributi previdenziali, tassazioni, maggiorazioni, sanità e previdenza integrativa. A confermarlo sono le lavoratrici del teatro che abbiamo intervistato: «Il mio contratto di scrittura prevede una totale autogestione degli orari e dei luoghi di lavoro, invece sono costretta dai miei superiori a recarmi ogni giorno in ufficio e a rispettare i tempi indicati da loro», racconta Sonia, 30 anni, che si occupa di promozione in un teatro nazionale (le generalità di tutte le persone intervistate sono state omesse per loro tutela, NdR). Lo stesso problema di Ada, 42 anni, ex organizzatrice teatrale: «Ho avuto per sei anni un contratto di scrittura molto vago sulle mie mansioni, che riportava solo un prospetto di ore settimanali in base alle quali veniva calcolato un misero stipendio fisso, senza tredicesima né straordinari». Peggio ancora per Irma, ex scritturata in un altro teatro nazionale: «Ho lavorato cinque anni da precaria per almeno 200 ore al mese, con un contratto irregolare e un solo giorno di riposo a settimana, senza ferie né permessi retribuiti. Il meccanismo era reiterato sia per me che per altre colleghe: a luglio la scrittura scadeva, ad agosto percepivamo la disoccupazione e a settembre venivamo riassunte. Eravamo inquadrate come amministratrici di compagnia, ma avevamo l’obbligo di timbrare il cartellino e ci occupavamo di varie altre mansioni strutturali, come gli accordi di co-produzione, la gestione dei budget, la compilazione dei bandi, la direzione di sala, la distribuzione degli spettacoli. Non maturavamo TFR, premi di produzione né tredicesima, e avevamo diritto solo a quattro giorni festivi all’anno».

Uno dei problemi principali del contratto di scrittura è che le ore di lavoro extra non vengono riconosciute: «Straordinari, tournée e impegni serali o nei giorni festivi non sono mai stati oggetto di retribuzione aggiuntiva, nonostante mi venissero richiesti ogni mese per tutto l’anno», riferisce Ada. «Il mio ente pretende che il lavoratore accetti la flessibilità del contratto di scrittura, ma non è disposto a contraccambiarla», aggiunge Sonia. «Ci vogliono in teatro la sera e nei fine settimana, ma non ci concedono lo smart working nei giorni in cui dobbiamo solo stare davanti a un computer; ci obbligano a fare gli straordinari, ma non ce li pagano». Ancora più grave sembra essere la situazione di Barbara, 25 anni, dipendente di un centro di produzione teatrale: «Ho un contratto da lavoro part time da tre ore al giorno, mentre mi viene richiesto di farne otto per meno di mille euro al mese. Senza contare le aperture serali e nei weekend, a cadenza settimanale ma mai retribuite».

Nel teatro, gli straordinari non sono un’eccezione bensì la normalità: questo lavoro è infatti per sua natura composto anche dai viaggi per le tournée e dagli eventi serali o nei fine settimana, non solo per chi sta sul palcoscenico ma anche per chi si occupa di promozione, comunicazione, organizzazione e ufficio stampa. Ore che però dovrebbero essere retribuite di più in busta paga, mentre invece vengono fatte rientrare nello stipendio mensile di base. Per compensare gli straordinari, fra gli enti teatrali è ampiamente diffuso il meccanismo del “monte orario”: per ogni ora di lavoro extra, si tiene nota internamente del tempo da recuperare con riposi e ferie autogestite. Ma questa pratica appare piuttosto squilibrata: non è infatti giusto equiparare un’ora di lavoro serale o nei fine settimana, che “vale” di più, con un’ora di riposo in un giorno normale. Lo straordinario andrebbe semplicemente pagato, ma soprattutto, riferisce Sonia, «abbiamo sempre così tanto lavoro da fare, che non c’è mai il tempo di recuperare». Anche Ada afferma che ogni mese accumulava così tante ore di straordinario, che «non c’era la possibilità reale di poterle recuperare. E la mia vita familiare restava tremendamente indietro». Secondo Barbara, «si tratta di una profonda mancanza di rispetto del tempo libero. Spesso vengo trattenuta in ufficio oltre le 19 per occuparmi di urgenze che in realtà potrebbero essere sbrigate il giorno successivo, oppure ricevo telefonate fuori dall’orario di lavoro e durante le mie mezze giornate di riposo, per non parlare delle richieste di lavorare da casa quando sono in malattia. Non ho la forza di oppormi, ma dovrebbero essere i nostri superiori ad avere la correttezza di non invadere certi confini». Irma e le sue colleghe non avevano nemmeno il monte ore per il recupero degli straordinari: «Il nostro contratto ci imponeva di stare in ufficio tutti i giorni dal lunedì al sabato, e la regola per poter chiedere due giorni consecutivi di riposo era quella di lavorare due settimane di fila».

Abbiamo interpellato Viviana Gardi, responsabile del settore produzione culturale in SLC-Cgil, che assiste centinaia di lavoratori e lavoratrici del settore, la quale conferma: «Nel teatro le retribuzioni sono piuttosto basse e c’è la tendenza a non pagare gli straordinari. Sembra che le parti datoriali guardino solo le tabelle dei minimi: ma i contratti nazionali obbligano solo a non andare sotto quelle cifre, e non impedisce certo di aumentarle». Secondo la sindacalista, «le retribuzioni minime possono essere comprese nel caso delle piccole compagnie e associazioni culturali, che hanno finanziamenti insufficienti per potersi permettere stipendi adeguati, ma non può essere accettata nei grandi enti super finanziati. Questi ultimi si giustificano affermando che “non ci sono i soldi”, ma spesso è una scusa: la questione sta solo nel come si decide di spenderli. Anzi, ritengo che le realtà sostenute con molti finanziamenti abbiano il dovere morale di favorire le retribuzioni corrette e i percorsi di crescita professionale dei dipendenti. Basterebbe cercare di ridurre gli sprechi e i costi delle grandi produzioni per stabilizzare i lavoratori più precari, far crescere di livello i dipendenti storici, migliorare gli stipendi di chi occupa la stessa scrivania da dieci o vent’anni senza avere mai ottenuto un aumento. Nelle grandi realtà teatrali, il benessere e la crescita professionale dei lavoratori restituiscono la fotografia di una direzione artistica e organizzativa lungimirante, che ha compreso come la qualità del lavoro porti beneficio all’ente stesso. Quando questo non avviene, è anche perché le direzioni delle realtà più importanti sono in mano a direttori artistici e organizzativi che, insieme ai responsabili di primo livello, sollecitano i dipendenti a sforzarsi di aumentare il pubblico, migliorare la presenza sui media e ottenere più finanziamenti e sponsorizzazioni, in modo da far sì che la direzione possa essere riconfermata e avere quella visibilità che consente anche il ritorno dei finanziamenti; ma poi i frutti di questo traguardo non vengono condivisi fra tutta la forza lavoro. I contratti nazionali di settore prevedono la possibilità di istituire dei “premi di risultato”, che però vengono istituiti molto raramente».

Sovraccarico di lavoro e disparità di genere

Il tema delle scarse retribuzioni si somma a quello del sovraccarico di lavoro, che è un altro problema sollevato da tutte le persone intervistate. Questo tema non riguarda solo i dipendenti precari, ma anche gli impiegati con contratti regolari: soprattutto tra i livelli inferiori, un’organizzatrice può arrivare per esempio a occuparsi anche di allestimento, promozione, vendita, bandi, fatture e rappresentanza. Nelle realtà di piccole dimensioni, agli inizi è normale che ci sia un solo dipendente a occuparsi di tutte queste mansioni; mentre nei grandi enti iperfinanziati, che avrebbero la possibilità di assumere qualche persona in più, il sovraccarico è ingiustificato. Dice Sonia a questo proposito: «Mi viene richiesto di fare di tutto, senza concedermi nemmeno il tempo per pensare. Il mio ente ha un organico insufficiente per la sua mole di attività; ciò significa che i dipendenti sono sovraccarichi e non fanno mai pause. Quasi ogni giorno, vedo le mie colleghe mangiare un panino davanti al computer anziché prendersi la pausa pranzo. Ma in questo modo, ci perdono anche i teatri per cui lavoriamo: per esempio, se io che mi occupo di promozione devo fare la distribuzione dei volantini, non ho abbastanza tempo per i compiti specializzati per cui sono stata assunta, come scrivere i testi dei volantini stessi, che richiedono un certo grado di professionalità e concentrazione che non ho mai il tempo di maturare. E così tutto il lavoro viene svolto in fretta e male, quando invece basterebbe assumere uno stagista per le mansioni meno qualificate».

Il sovraccarico e gli straordinari sono dati per scontati, come fa notare Barbara: «Molti teatri omettono di chiedere in anticipo la disponibilità a lavorare anche la sera o la domenica; anzi la considerano normale, applicandosi alla clausola di flessibilità prevista nei contratti dei lavoratori dello spettacolo. Tuttavia si dimenticano che la flessibilità deve anche essere retribuita adeguatamente, e invece questo non avviene». Nei suoi tentativi di conciliazione prima di rassegnare le dimissioni, Ada ha proposto di recuperare alcune ore di straordinario “scambiandole” con delle giornate in smart working: in sostanza, si è dichiarata disponibile a rinunciare a una parte di ore di riposo, a patto che ogni tanto potesse lavorare da casa. Ma nemmeno questa possibilità le è stata concessa: «Dopo il covid lo fanno tutte le aziende, mentre nel teatro sembra sia ancora un tabù», racconta. «Nonostante avessi dimostrato di non lasciare mai nessuna mansione indietro e di fare tutto al meglio, non mi veniva concessa la fiducia dell’autonomia con qualche giorno di smart working». Irma ha addirittura dovuto intraprendere «una battaglia durata alcuni mesi per ottenere un giorno alla settimana di smart working, che spesso peraltro coincideva con il sabato, quando di norma nemmeno si lavora».

Un altro degli aspetti problematici, nei casi che abbiamo approfondito, è la richiesta di occuparsi di più mansioni contemporaneamente, senza un tempo adeguato per farlo. In aggiunta al sottodimensionamento degli organici, ciò riversa sulle lavoratrici un automatico sentimento di iper-responsabilità. Spiega Giovanna, ufficio stampa di un teatro stabile: «Scrivere un buon comunicato non è un lavoro semplice, bensì è un compito che richiede cura, tempo e concentrazione. Ma questo non viene compreso dai miei superiori, che pretendono la qualità ma ci costringono a lavorare di fretta e a districarci fra troppe impellenze diverse». Aggiunge Ada: «Dopo diciotto anni di lavoro nel teatro, ero giunta a un livello professionale per cui non volevo più occuparmi di mansioni semplici e poco qualificate, che avrebbe potuto fare chiunque altro al posto mio. Non lo dicevo per vezzo: volevo semplicemente smettere di occuparmi “di tutto”, in modo da avere il tempo necessario per portare avanti al meglio le mie competenze organizzative specifiche ed esclusive». Secondo la trentenne Viola, ex dipendente di un teatro nazionale, questa «è anche una questione di gap generazionale: nel teatro italiano c’è una corazzata di dirigenti over 50 che ritengono giusto che i giovani facciano una lunga gavetta e ringrazino perché stanno lavorando, senza riconoscere le competenze di chi entra in un ente dopo cinque o sei anni di studio e formazione altamente qualificanti, in scuole che trent’anni fa nemmeno esistevano. Inoltre, sembra che il sistema teatrale fatichi ad adeguarsi a come funziona oggi il lavoro: lo dimostra la mancata disponibilità generale allo smart working. Ma il fatto che il lavoro possa essere più agile, non significa che non venga effettuato».

Secondo Viviana Gardi, queste dinamiche gerarchiche e di sovraccarico sono uno dei principali problemi del teatro italiano e sono correlate a un’imperante disparità di genere. «Fra teatri, cinema e fondazioni, le posizioni di potere nel settore culturale sono occupate quasi solo da uomini. Direttori artistici, organizzativi e del personale, presidenti e dirigenti sono quasi solo maschi, mentre la forza lavoro è composta per circa l’80% da donne che lavorano in modo veloce e razionale, con cognizione di causa e senso di responsabilità. Al loro comando si trovano invece dei dirigenti che, per mantenere una posizione di potere, non condividono informazioni e linee guida per dare la necessaria autonomia lavorativa. In tal modo le dipendenti sono costantemente sotto pressione, fino a contrarre patologie di stress da lavoro correlato. I numeri sono in aumento esponenziale e riguardano soprattutto le donne, che si vedono costrette a chiedere un part time o a presentare le dimissioni perché non viene loro consentito di gestire la propria vita privata. La situazione è allarmante».

La questione del sovraccarico lavorativo e degli straordinari non pagati non può tuttavia prescindere dal contesto del turbocapitalismo in cui viviamo, che ha portato molti individui a far coincidere la propria vita col lavoro, ad autosfruttarsi in ritmi sempre più elevati, a sentirsi in colpa se ci si prende del tempo libero o non si produce abbastanza, portando molte aziende ad approfittare di questi meccanismi psicologici per i propri interessi – comprese alcune realtà culturali. Una condizione che non riguarda solo i lavoratori autonomi, per i quali l’essere “imprenditori di se stessi” lascia una totale libertà di scelta del tempo dedicato al lavoro, ma anche i dipendenti, che spesso sono i primi ad accettare un carico di lavoro eccessivo a causa del senso di colpa, di competizione e di produttività, prima di arrivare al collasso. Nel teatro, la questione è poi ancora più complessa: la natura di questo lavoro ha sempre previsto una dedizione totale della propria vita, richiedendo la disponibilità anche la sera e nei fine settimana, la mescolanza dei confini tra pubblico e privato nonché tra i propri interessi e il dovere professionale, l’appartenenza a un senso di comunità e di missione. Ma se oggi sono aumentate le sofferenze e le proteste anche da parte delle lavoratrici dello spettacolo dal vivo, è forse anche perché questo “atto d’amore” per il teatro è diventato meno sostenibile per vari motivi: perché le nostre vite sono più insoddisfatte, perché viviamo nell’era definita della “policrisi” (Adam Tooze) tra guerre, pandemie e catastrofi ambientali che ci portano a ridefinire le nostre priorità; e forse anche perché l’arte teatrale stessa, schiacciata dai meccanismi ministeriali dell’iperproduttività, non riesce più a ricambiare l’amore restituendo poesia e senso di comunità, essendo diventata – volente o nolente, nei casi delle realtà più grandi – un comparto produttivo simile alla fast fashion: non si fa in tempo a finire la stagione, che il lavoro precedente deve essere messo da parte perché occorre farne uno nuovo. E di conseguenza si penalizzano la qualità artistica e il tempo dedicato al confronto e al perfezionamento. Rispetto alle insoddisfazioni per il sovraccarico lavorativo e gli straordinari non pagati, al di là degli evidenti abusi commessi da alcune realtà teatrali, ci sarebbe insomma da porsi una riflessione collettiva sui meccanismi sociali e sistemici che sono arrivati a rendere i lavoratori dello spettacolo così insofferenti e insoddisfatti.

Pressioni psicologiche e problemi di salute

Sta di fatto che le conseguenze di tali condizioni lavorative sulle condizioni fisiche e psicologiche personali sono frequenti fra tutte le lavoratrici che abbiamo intervistato. Irma riferisce che «sia io che tutte le mie colleghe abbiamo iniziato un percorso di terapia a causa del burnout in cui ci trovavamo», mentre Ada racconta così il momento di rottura con il teatro in cui lavorava: «Tra febbri, mal di schiena e ansia, il mio corpo mi stava dicendo di fermarmi. Se il sovraccarico di lavoro fosse stato un’eccezionalità, relegato per esempio a un mese di festival o di tournée più fitta del solito, sarebbe stato sopportabile. Invece era diventato la norma durante tutto l’arco dell’anno e questo nel tempo incide anche sulla qualità dei rapporti trasversali tra colleghi, tutti stanchi e meno disponibili alla cooperazione per il “progetto comune”. Nessun essere umano riesce a reggere una mole del genere per troppo tempo. Mi sono interrogata a lungo sulla reale necessità, che hanno certi teatri, di far girare i motori sempre al massimo ma con un numero inadeguato di dipendenti: a mio parere c’è qualcosa che non funziona non solo nei contratti e nei compensi – che spesso non corrispondono al lavoro prestato – ma anche nella verticalità dei rapporti. Il “noi collettivo” di cui spesso si parla nelle imprese culturali è ormai inesistente; oggi anche nel teatro sono i vertici che impongono ai dipendenti, e non si fa più l’esercizio di fermarsi, di chiedersi se ha senso continuare a produrre e fare numeri in questo modo. Sembra ci sia la paura che tutto possa crollare, soprattutto per chi ha importanti volumi di attività». Come accennato, questa è anche la conseguenza dei meccanismi ministeriali del FUS che si iniettano fino a dipendenti, rendendoli simili a operai in fabbrica, tanto che in alcune realtà si ha la sensazione che il turnover sia messo in conto, proprio come fa Amazon: per ogni persona che abbandona per sfinimento, ne arriverà un’altra da spremere allo stesso modo. Lo confermano Viola e Irma: «Già al primo colloquio per l’assunzione, ci è stato detto scherzando dai futuri colleghi che ce ne saremmo andate dopo pochi anni per esaurimento. Poi abbiamo capito che era vero: abbiamo sostituito persone che si erano dimesse per quel motivo, e dopo di noi ne sono arrivate altre che probabilmente faranno la stessa fine».

Nei casi esaminati, direttori e quadri dimostrano di disinteressarsi del sovraccarico lavorativo, dell’elevata quantità di ore passate alla scrivania e dei problemi di salute dei dipendenti, come dimostra un significativo episodio riferito da un’impiegata in un grande teatro: «Durante un’ispezione in ufficio, il responsabile della sicurezza sul lavoro ha fatto presente che le nostre scrivanie erano troppo basse, le sedie scomode e i monitor vecchi e dannosi per la vista, invitando la direzione a sostituirli per favorire il benessere dei dipendenti. Ci è stato risposto che non c’erano soldi per farlo, ma dopo qualche giorno abbiamo visto arrivare dei tappeti personalizzati con il logo del teatro. Una questione di priorità». Che siano gli zerbini brandizzati, il gigantismo delle scenografie, i voucher per i taxi o gli alberghi a cinque stelle per gli ospiti, poco cambia: gli sprechi sono meno tollerati dai dipendenti, se questi si trovano in condizioni di sofferenza e sfruttamento.

Anche le dimissioni volontarie, a cui sono arrivate alcune delle lavoratrici che abbiamo intervistato, rappresentano un momento di dolore. Dice Viola: «Sono andata a fare un lavoro che mi piace meno, perché non ho potuto fare quello che amavo a causa del contesto che me lo ha impedito. La fine del calvario nel teatro è stata liberatoria solo in parte, perché mi sono resa conto di avere investito cinque anni di vita e sacrifici senza essere ricambiata». Prima di decidere di dimettersi insieme ad altre due colleghe, Viola ha tentato di far notare i problemi ai loro superiori, ma – dice – «ci veniva replicato che avremmo dovuto essere onorate di lavorare in un teatro nazionale, perciò non dovevamo lamentarci». Anche ad Ada è accaduto lo stesso: «Le risposte del mio datore di lavoro si rifacevano sempre alla necessità dell’essere un gruppo che lavora unito per lo stesso scopo. Ma non si può procedere uniti senza assicurarsi che tutti stiano bene e in condizioni per farlo». L’appellarsi al senso di collettività è molto frequente nel teatro, che chiede alle lavoratrici un “atto di fede” sempre più insostenibile, se rapportato alle condizioni di lavoro sopra descritte. In qualsiasi ambito lavorativo, per i dipendenti è difficile manifestare le proprie difficoltà ai superiori, a causa del rischio di venire emarginati o di peggiorare la propria situazione; ma nel teatro, sembra scattino ulteriori meccanismi psicologici legati alle specificità di questo lavoro e alla retorica del sacrifico e della missione in un settore precario ma importante come la cultura. «Quello della “famiglia” che deve portare avanti lo stesso obiettivo è un espediente usato in molti ambiti lavorativi, soprattutto nello spettacolo», conferma Gardi. «Ma il concetto del lavoro dovrebbe essere diverso: il fatto di sentirsi parte di qualcosa non deve giustificare lo scarico di responsabilità sui dipendenti. Questi meccanismi, se protratti a lungo, vanno a erodere lo stato emotivo e la passione di chi lavora nello spettacolo dal vivo, portando alle dimissioni o ai problemi psicologici. Purtroppo si tratta di casi diffusi e non isolati».

Riferisce Ada a questo proposito: «Alle mie prime richieste di attenuare il sovraccarico di cui ero vittima, mi è stato fatto presente che il lavoro dell’organizzatrice teatrale è fatto così, e che se ero andata in crisi, forse è perché stavo capendo che quello non era il mio lavoro ideale. Il rapporto si è incrinato proprio perché ho osato esporre i problemi, al contrario di altre persone che, nonostante condividessero le mie stesse insofferenze, non trovavano il coraggio di parlare. È vero, il lavoro nelle arti sceniche richiede di sposarne il progetto artistico, ma i matrimoni devono essere reciproci: se una delle due parti non rispetta le esigenze dell’altra, c’è qualcosa che non va». Aggiunge Camilla (ma analoghi meccanismi sono stati riferiti anche da tutte le altre precarie intervistate): «Il timore più grande era che se avessi protestato, non mi sarebbe stato rinnovato il contratto, come accaduto ad altre colleghe, soprattutto tra quelle a partita Iva che in realtà svolgevano mansioni da dipendenti. Iniziavamo a chiedere i rinnovi con due mesi di anticipo, ma le parole di rassicurazione non erano seguite dai fatti, finché non si arrivava a ridosso della scadenza o addirittura oltre. In questo, i quadri di primo livello si sono dimostrati più complici della direzione che solidali con le dipendenti di rango inferiore. Arrivate all’esasperazione, durante il nostro ultimo anno abbiamo iniziato a presentare le nostre istanze tutte insieme ripetutamente, ma le nostre superiori si sono disinteressate e sottratte al confronto in modo omertoso. È stata una reazione che ci ha provocato dolore e che ci ha fatto capire quanto il problema fosse strutturale».

Che fare?

Nelle testimonianze che abbiamo raccolto, gli atteggiamenti di omertà, silenzio, sudditanza psicologica e mancanza di forza a opporsi sono molto frequenti. Viviana Gardi sottolinea che il problema ha due facce: «È vero che in certe realtà culturali esistono dei gravi abusi nei confronti dei dipendenti, ma non possiamo nascondere che questo avviene anche a causa della connivenza dei lavoratori stessi. Da una parte ci sono i datori e i dirigenti che si disinteressano del valore della professionalità, degli straordinari, della formazione, della continuità e del benessere; ma dall’altra parte, le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo amano profondamente il loro lavoro, e quindi sono disposti a farlo anche sotto condizioni economiche e contrattuali molto sfavorevoli. A scapito di loro stessi e dei loro colleghi». Le affermazioni della sindacalista sono confermate da Viola e Irma: «Fatichiamo ad accettare che i nostri ex colleghi continuino a subire in silenzio gli stessi abusi a cui ci siamo opposte, ed è ancora più difficile pensare alla situazione di chi ci ha sostituito: come noi all’inizio, si tratta di giovani professionisti infuocati dall’innamoramento per il teatro, che ci metteranno un paio d’anni solo per capire le malefatte a cui saranno sottoposti, per poi cercare di trovare la loro strategia di resistenza prima dell’inevitabile resa».

Sostiene in conclusione Gardi: «Le testimonianze di sfruttamenti e imbrogli che ricevo sono quasi all’ordine del giorno, ma le persone coraggiose che denunciano e si oppongono sono pochissimi. Il settore culturale ha una percezione del sindacato come semplice ufficio di servizi, invece possiamo aiutare i lavoratori a discutere e ottenere il rispetto dei loro diritti, ad agire con consapevolezza, perché la rappresentanza sindacale è il valore dell’intermediazione e del dialogo. Se all’interno degli enti c’è solo una persona che si oppone e tutte le altre stanno in silenzio, il datore di lavoro sarà più facilitato a isolarla; mentre se tutti i dipendenti si mettono insieme, possono essere più forti. La paura di perdere lo stipendio è comprensibile, soprattutto in un settore molto ricattabile come questo; ma se tutti i lavoratori sono in burnout e si uniscono, è ovvio che il direttore non potrà licenziarli in massa e si siederà al tavolo a discutere. Più si è, più aumenta il potere di contrattazione». Viola però testimonia un esempio di inefficienza del sindacato: «Negli ultimi mesi di lavoro, la mia situazione lavorativa si è aggravata e ho deciso di iscrivermi al sindacato, che però, nel teatro per cui lavoravo, non è riuscito a mettere insieme azioni di senso. Gli incontri con la direzione avvenivano a porte chiuse e né i contratti né le condizioni lavorative sono mai migliorati». Nessuno è insomma esente da colpe, né i sindacati storici che in passato non sono riusciti a tutelare abbastanza i precari, né tantomeno i gruppi informali che hanno scavalcato i meccanismi di rappresentanza e intermediazione per farsi giustizia da sé. Ma al di là di questo, l’unica azione utile sarebbe quella di superare l’omertà, trovare il coraggio e mettersi tutti insieme: solo così è possibile interrompere gli abusi e ottenere soluzioni. Anche bypassando i singoli enti teatrali, per arrivare fino al ministero: le istituzioni devono infatti capire che non possono più dare certi input e pretendere certi numeri, poiché l’iperproduttività compromette i lavoratori e non tiene conto della natura del sistema teatrale. Che non sia giunto il momento di iniziare a mettere tutto in discussione?

(continua…)

L'autore

  • Alex Giuzio

    Giornalista, si occupa di teatro e di economia ed ecologia legate alle coste e al turismo. Fa parte del gruppo Altre Velocità dal 2012 e collabora con le riviste Gli Asini e Il Mulino. Ha curato e tradotto un'antologia di Antonin Artaud per Edizioni E/O e ha diretto la rassegna biennale di teatro "Drammi collaterali" a Cervia. È autore de "La linea fragile", un'inchiesta sui problemi ambientali dei litorali italiani (Edizioni dell'Asino 2022), e di "Critica del turismo" (Edizioni Grifo 2023).

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