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Sopravvivere al capitalismo (riuscendo persino a ridere). Avere 30 anni in Est Europa

di Francesco Brusa

Questo articolo fa parte della rubrica “Nostra patria è il mondo intero. Segnali di ri-generazione (o degenerazione)”, che guarda alle realtà cresciute nel nostro secolo, artisti trentenni e quarantenni di cui ci interessa comprendere meglio gli elementi di cambiamento e di rottura. E soprattutto le contraddizioni che rappresentano.

Il banale è politico. Così esordiva a pochi anni dalla caduta del muro la giornalista croata Slavenka Drakulić nel suo Come siamo sopravvissute al comunismo (riuscendo persino a ridere), uno dei testi chiave del femminismo d’oltrecortina. Il banale è politico perché «il potere politico può passare di mano nel corso di una notte, la vita economica e sociale può seguirlo a ruota, ma le persone forgiate dai regimi comunisti sono più lente a cambiare. […] il comunismo, più che un’ideologia politica o un sistema di governo, è una condizione della mente». Questa consapevolezza – talmente introiettata da diventare praticamente sottaciuta – è uno dei punti di partenza più evidenti di tanto teatro dell’Est Europa (in particolar modo negli stati che hanno fatto da “periferia” all’Unione Sovietica, dalla Moldavia a quelle repubbliche baltiche che hanno conosciuto un’esplosione teatrale con pochi eguali durante gli anni ’90 e i cui grandi nomi si sono rapidamente affermati anche a ovest).

«Do the Soviet walk!» dice uno dei personaggi di Forest Brothers al protagonista dello spettacolo. L’ultimo lavoro di Valters Sīlis (visto anche a Santarcangelo nel 2013 con Legionnaires e nel 2014 con War Now!, in collaborazione con Teatro Sotterraneo) racconta, con il piglio da “archeologo della scena” che è proprio del giovane regista lettone, la vita del partigiano lituano Jãnis Pīnups, uscito dalla latitanza solo nel 1995. Reclutato forzatamente nelle file dell’Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale, Pīnups riesce a sottrarsi ai combattimenti in maniera fortuita e a far ritorno nel suo villaggio. Per timore di essere giustiziato dalle autorità sovietiche vive però nascosto nell’arco di 50 anni, facendo spola fra la foresta e la casa dove vivono suo fratello e sua sorella, gli unici a sapere che è ancora vivo. Solo nel 1980 decide di correre il rischio di recarsi in città, per ricevere assistenza medica. È qui che la sorella lo istruisce su come passare inosservato: cappotto, colbacco e «do the Soviet walk!». Il corpo tutto proteso in avanti, a richiamare lo sferzare del freddo e del vento, le mani infilate in tasca con una posa plastica e l’attore si esibisce in una iconica “camminata da regime”, in quello che è uno dei momenti più ironici dello spettacolo.

Borse della spesa stracolme, furgoncini caricati a dismisura e “quotidiani stereotipi da mercato” sono anche gli elementi che compongono molte delle performance del Teatru Spalatorie di Chisinau (Moldavia), praticamente l’unica esperienza indipendente della piccola repubblica est-europea. Nicoleta Esinencu (classe 1978) e il suo collettivo di attori si sono fatti interpreti negli anni di un teatro semplice e diretto, ma immediatamente riconoscibile: se FUCK YOU, Eu.Ro.Pa! (2005) l’ha portata alla ribalta internazionale, con residenze in Germania e Inghilterra, i successivi lavori (da Moldova, independentă erată ad American Dream, da Uneducated a Ficţiune) si collocano tutti nel solco di un teatro-documentario molto in voga nell’area. Sotto la lente della sua scrittura scenica ci sono quasi sempre temi d’attualità (le proteste del 2009 che terminarono con l’irruzione nel Palazzo del Governo da parte dei manifestanti e con abusi della polizia, l’emigrazione che coinvolge quasi un quarto della popolazione, la retorica nazionalista…) oppure argomenti storici che rappresentano ferite ancora non rimarginate (l’Olocausto rumeno, la guerra con la regione della Transnistria…).

Eppure, è evidente che non siano i fatti in sé a interessare l’approccio di Nicoleta Esinencu né quello di Valters Sīlis. Avvenimenti politici e problematiche sociali vengono infatti costantemente filtrati da una proliferazione di livelli rappresentativi che li “passano al setaccio”: ciò che resta sul palco dei fatti non è che un precipitato, un gioco di rifrazioni. Il regista lettone fa esplicito riferimento al teatro post-drammatico. Gli attori di Legionnaires non mettono in scena alcuna “azione”, non drammatizzano appunto gli eventi, ma si fanno “corpi di transito” per una miriade di ri-narrazioni differenti, talmente neutre e distaccate da sembrare referti. Sono, in fondo, attori onniscienti. Ma, con l’incedere dello spettacolo, la loro onniscienza si rivela non un vantaggio bensì un ostacolo nel voler dare un giudizio sulle vicende raccontate. In questo la domanda reiterata (“potete immaginare che…?”) diventa un (benefico) atto di crudeltà verso lo spettatore, che è così messo di fronte sia alla necessità di costruire da sé il senso di ciò che vede sia alla consapevolezza che la sua non potrà che essere una ricostruzione parziale, monca, ma che proprio in tale parzialità si rivela come estremamente urgente. Allo stesso modo, in Forest Brothers siamo guidati dentro alla vita del “partigiano” Pīnups dalla figura di un giovane studioso/antropologo, che sembra quasi ricalcare il metodo del regista. Con dedizione chirurgica e completo distacco emotivo, egli sminuzza il materiale narrativo in tante tessere, le scompone e le ricompone fino a che sono gli stessi protagonisti a chiedere: «Perché lo fai?». «Per capire come vivete», risponde lui, e su tale dichiarazione d’intenti si chiude lo spettacolo, a suggerire ancora la necessità da parte del pubblico di una visione che non sia semplice assistere ma interpretazione incessante e viva, in tempo reale.
Per il Teatru Spalatorie, invece, il “filtro” è quello del discorso pubblico, talmente spinto verso il basso da apparire come una sorta di “chiacchiera sociologica”. Sul palco non troviamo quasi mai i reali protagonisti degli eventi ma dei personaggi minimi e multiformi, non già persone bensì opinioni e prospettive “comuni”. Gli attori sono continuamente un passo indietro rispetto al filo narrativo. Lo tirano e lo strattonano in varie direzioni ma con una delicatezza che lo mantiene intatto nei suoi intrecci costitutivi. «Prima volevamo tutti staccarci dalla Russia e, ora che siamo finalmente indipendenti, facciamo carte false per andare a viverci», viene detto in uno spettacolo che parla appunto dell’emigrazione di massa verso la vicina Federazione. Ecco dunque che abbiamo a che fare ancora una volta con brandelli e frammenti, che rimandano non ai fatti ma a ciò che di questi è rappreso nella memoria comune nonché nelle concrete e quotidiane esigenze della popolazione. Viene in mente quel fortunato connubio fra teatro e giornalismo che ha interessato anche la scena italiana non troppo tempo fa, da Genova 01 di Fausto Paravidino ad Alfabeto birmano di Stefano Massini, dai cosiddetti “narratori dei primi novanta” (Baliani, Curino, Paolini) a Errata Corrige di Gianluigi Gherzi, e che si è intensificato proprio nel periodo successivo al crollo dei comunismi storici (come spiegato nel numero di Prove di Drammaturgia dedicato al tema, 1/2008). Si capisce allora come la scrittura di Esinencu e dei suoi attori sia non tanto un modo per portare alla luce verità nascoste o decostruire quelle ufficiali, quanto un tentativo di “stratificare il presente”, di mostrare come il “banale” sia comunque un’articolazione della Storia e forse fra le più importanti.

Sia il collettivo di Spalatorie che Valters Sīlis (ma è un discorso che potrebbe essere allargato anche al progetto Platforma de Teatru Politic, nell’area rumena, nonché ad alcune proposte del celebre regista lettone Alvis Hermanis passate al festival VIE, come The graveyard party o Onegin. Commentaries) rifiutano il dramma e il lirismo, in favore di un approccio ironico e di una ricercata prosaicità che definiscono i  parametri di ciò che potremmo definire un teatro insieme (post)storico e (post)conviviale. Si tratta di una linea scenica non certo inedita, che discende appunto dal Verbatim inglese e anche dalle esperienze del Teatr.doc russo, ma che forse (soprattutto in Moldavia) si carica di una forte prossimità con lo spettatore e di una feroce disillusione sull’oggi. Solo così è possibile arrivare al cuore della contraddizione che si delineava in apertura: la sensazione di essere in qualche modo in ritardo rispetto ai grandi movimenti politici, la sensazione cioè – come dice sempre la Drakulić – di essere intrappolati in un “principio di realtà” diverso dalla realtà stessa.
In queste aree più che altrove si consuma una frattura fra società (o meglio l’immagine che viene data di essa) e comunità. Dopo l’indipendenza, le repubbliche baltiche si spostano con decisione sotto l’area di influenza occidentale, entrando a far parte della NATO e avviando così un processo di separazione netta dal periodo di occupazione sovietica. Tuttavia, la presenza di minoranze russe (nei confronti delle quali ciascuna delle repubbliche ha messo in atto diverse strategie di integrazione) rimane significativa e con essa anche un timore diffuso di una possibile invasione da parte della superpotenza confinante (in Forest Borthersdi Sīlis vengono ricordati i fatti del gennaio 1991). La politica putiniana del cosiddetto “Russkiy Mir” poi, attraverso cui i legami fra le minoranze e il loro luogo d’origine si sta rinsaldando anche in termini di cittadinanza, sembrerebbe acuire il problema (proprio mentre scriviamo, nella zona si verifica un’intensificazione di operazioni militari con invio di ulteriore truppe da altri paesi del patto Atlantico, che sta provocando una crisi diplomatica). In contesto simile ma non sovrapponibile (e con esiti diversi), dalla caduta del muro in avanti anche in Moldavia si avvia un processo di avvicinamento all’Europa. Ma soprattutto si avvia una massiccia ondata di riforme e programmi per favorire l’ingresso della repubblica nell’economia di mercato. Un territorio prevalentemente rurale, fino ad allora diviso in fattorie collettive, viene privatizzato in tempo record sotto la guida degli Stati Uniti; le attività economiche sono redistribuite ai cittadini sulla base di un sistema di cupon mentre organismi internazionali e una miriade di associazioni iniziano a comporre quella che viene chiamata “società civile”; la Chiesa Ortodossa, riemersa dalla semi-clandestinità, acquista un ruolo di primo piano nella società facendosi custode di imprecisati “valori tradizionali”. Il tutto non senza conseguenze: il paese entra in una lacerante recessione economica e nel 1992 scoppia un conflitto con la regione separatista della Transnistria, che si risolve con la nascita di uno stato indipendente de facto non riconosciuto a livello internazionale (in cui sono ancora presenti truppe russe). Ancora oggi la repubblica vive in un clima di forte polarizzazione fra spinte “pro-russe” e “pro-europee” (ben visibile nelle elezioni presidenziali che si terranno questo 13 novembre), che certo monopolizza il dibattito pubblico più di quanto sia effettivamente radicata nella mentalità dei cittadini ma che non è del tutto peregrino invocare quando si analizza la società del paese.

Un teatro che si voglia agganciato al presente non può che tener conto di tali divisioni. La condizione dei giovani che stanno muovendo i propri passi nelle scene di quest’area ha sì a che fare con un disorientamento di fondo, come avviene in Italia o in Cile (La Resentida), ma è un disorientamento per così dire più “orientato”, che sottende un aut-aut già dato in partenza. Se è evidente l’esigenza di fare definitivamente i conti con il passato sovietico, andandolo a sviscerare in ogni sfumatura e soprattutto nei sedimenti che ancora persistono nel quotidiano, altrettanto forte è la volontà di rifiutare i palliativi pret à porter e i “buonismi” (anche artistici) che arrivano da ovest. Perché dunque l’insistere sul banale (Spalatorie) o l’estenuante caccia al “bagliore del dettaglio” (Sīlis)? Perché in un contesto dove i grandi campi d’azione della politica e dell’attivismo sociale appaiono già presi, forse è nel piccolo che si annidano i germi di una possibile rivolta, perlomeno individuale. Anzi, necessariamente individuale. Più che in altre zone, nei paesi est-europei l’io è già un noi, o meglio, l’io non si costituisce se non come punto di transito di un fitta rete di discorsi collettivi e su di essi è chiamato a imperniare il senso del proprio agire. La costruzione delle identità nazionali (più o meno mitiche), il richiamo alla “tradizione”, i tentativi – in conclusione – di trovare un modello sostitutivo a ciò che è stato definito homo sovieticus sono elementi che hanno un peso innegabile nella vita pubblica. D’altronde lo stesso Kislorod di Ivan Vyrypaev – opera seminale per l’intero spazio est-europeo – pur con tutt’altri accenti e codici esprimeva una “visione cosmologica” dell’individuo, in cui anche il più ordinario moto interpersonale è già sussunto in un insieme più ampio di ideologie e valori. La malinconica ferocia dei protagonisti, che li spinge verso una fine tragica, è in fondo il segno di una resistenza quasi nietzscheana (o camusiana) a tutto questo: lo sforzo estremo di porre nel sé più intimo e carnale il significato delle proprie scelte (Sasha uccide sua moglie perché non “può ottenere ossigeno”).
Le nuove leve teatrali raccolgono dunque tale urgenza, declinandola in linguaggi scenici non certo dirompenti ma comunque sinceri. Al contrario di ciò che avviene in linee appartenenti all’ovest europeo o all’area maghrebina, la quotidianità autobiografica (di un autobiografia senza soggetto però) è allora più un punto d’arrivo che di partenza. L’abbassamento del registro drammaturgico così come il “distacco” dai fatti che ne consegue sono funzionali a recuperare una dimensione dell’io non ci azzardiamo a dire più “originaria”, ma almeno più autonoma rispetto ai discorsi che lo imbrigliano a livello collettivo. In questo senso scrittura e recitazione, l’attore e la sua parola, formano un tutt’uno inscindibile, soprattutto se rapportati al metodo documentario di preparazione dello spettacolo. Il lavoro sul campo e l’impegno diretto nel processo di ricerca sono infatti mezzi per rafforzare il segno della propria alterità personale evitando però il rinchiudersi di essa in un privato senza sbocchi, refrattario all’errore e al debordare verso nuove direzioni.
Non si è mai davvero oltre il dramma e la storia: semplicemente, li ritroviamo parcellizzati e diffusi nei micro-conflitti di una generazione che, nel raccontare minuziosamente sul palco la realtà in cui si trova immersa, prova a re-immaginarsi per successive e imprevedibili addizioni identitarie.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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