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Solo contro il mondo. Nella stanza di "Hikikomori"

di Altre Velocità

Hikikomori, spettacolo andati in scena all’Arena del Sole dal 26 al 28 aprile per la regia di Vincenzo Picone, invita lo spettatore a mettere in discussione se stesso e il mondo esterno, mostrandone la risposta estrema di un “Hikikomori”, ovvero di H., il giovane protagonista che più o meno consapevolmente se ne sta rinchiuso nella propria stanza, rifiutando qualsiasi contatto con il mondo esterno. Il termine “Hikikomori” indica proprio un disturbo comportamentale che colpisce circa un milione di ragazzi nipponici tra i 16 e i 25 anni e che in Europa è in parte simile al fenomeno NEET – Not (engaged) in Education, Employment or Training, ossia la fascia di popolazione giovane che non studia e non lavora. Riprendendo il testo del drammaturgo austriaco Holger Schober, Picone racconta questa condizione psicologica in parte come disagio, in parte come atto di resistenza. Lo spettatore si trova inizialmente lungo due corridoi delimitati da delle inferriate ai due lati della scena buia. Si intravede una donna che parla al telefono: dice di aver avuto un figlio, un tempo. Solo in un secondo momento si nota un’altra figura, che si muove nel buio. Lo spettatore è invitato a entrare nello spazio scenico, ovvero la stanza di H.: pavimento e soffitto sono degli specchi, metafora dell’apparenza e dei canoni a cui ci sentiamo obbligati a aderire. Insieme a H. viviamo il suo isolamento: ci racconta le sue esperienze imbarazzanti a scuola e di una ragazzina dai capelli rossi. H. nella sua stanza appare come un animale nel suo habitat, una scimmia: si arrampica, saltella, mangia una mela, sogna e ricorda, domandandosi tanti perché, urlando, sussurrando. Tiene spesso in mano una tastiera del computer, con cui comanda i due schermi appesi ai due lati opposti della stanza: internet è l’unico contatto con l’esterno, attraverso il quale il suo alter ego può comunicare via chat o Skype con una ragazza, Rosebud (dichiaratamente una citazione a Quarto Potere di Orson Welles) la quale diventa sua confidente e unica sua speranza. Inizialmente H. non sembra lucido, non ricorda perché se ne sta rinchiuso lì eppure, se da un lato odia stare da solo con se stesso ed è confortato dalla presenza in casa della madre, dall’altro qualcosa lo trattiene nella stanza. La madre di tanto in tanto appare da dietro la porta, supplicante, arrabbiata, propositiva, fino a darsi per vinta (son passati ben 8 anni) rinnegando di aver un figlio. Ne esce come una donna sconfitta, si dichiara vittima: dopo tutto quello che ha fatto per H., è questo il modo di ripagarla? Con l’umiliazione? L’atteggiamento della madre, seppur fondato su buone intenzioni, non fa altro che rafforzare la scelta di H. e a fargli ricordare il motivo per cui ha deciso di rifugiarsi nella sua stanza: il giovane vuole opporsi alle convenzioni, alla realtà e alle sue regole che limitano il suo essere; si vuole sottrarre ad un amore oppressivo ed egoista che, per quanto sincero, si preoccupa troppo delle apparenze e di un personale tornaconto. È per mantenere il proprio Io puro e libero, dunque, che H. decide di astenersi dalla società, nutrendo la vana speranza di essere finalmente compreso. Ma per questo c’è bisogno che qualcosa cambi e, purtroppo, un tale cambiamento sembra in là da venire. La condizione di Hikikomori da disagio psicologico diventa un consapevole e voluto atto di resistenza, un atteggiamento che prende anche una deriva politica, di protesta contro il mondo e il sistema del tutto artificiale che lo regola. Di certo bisogna far attenzione a non considerare l’atteggiamento di H. come una soluzione: forse si è voluto mostrare il problema delle nuove generazioni, schiave dei cliché imposti da internet, dai social e dalla televisione; si è voluto criticare la società odierna che ci chiede di essere superficiali, una società che non ammette il singolo, ma solo la massa informe. Lo spettacolo si può dunque leggere come un invito a prendersi il proprio tempo in solitudine e liberarsi dall’assuefazione della realtà così da poterla mettere a fuoco e (ri)prendere coscienza di ciò che sta accadendo a noi e attorno a noi. Un invito a andare a fondo alle cose, smettendola di starsene in superficie. Un invito a essere se stessi, a essere veri.

Ilaria Cecchinato

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