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“Shakespeare. Know Well” e la città sospesa della Fortezza. Cartolina da Volterra 

di Lorenzo Donati

Un manto sabbioso ricopre il suolo. È un fondo friabile e permeabile, temporaneamente depositato, in contrasto con la fissità delle pietre della Fortezza Medicea di Volterra, carcere di massima sicurezza. Croci, croci e ancora croci. Stanno a terra e in alto, sono poste in cima a intelaiature di legno, sono conficcate dentro a scale e scalette che sembrano destinare chi le sale a una caduta nel vuoto.
Un letto al centro, due donne attorniano la sua imponente testiera di legno. Un’altra donna vestita di nero tende le braccia con in mano un fazzoletto, ripetendo più e più volte l’ostensione della stoffa. Uomini indossano cartamodelli bianchi, decorati con trame ripetute rosse, altri giacciono al suolo adagiati sulle croci, un uomo di colore indossa un copricapo creato con un libro e declama versi in inglese, un altro occupa una pedana rialzata sul fondo zoppicando, inciampando, sorreggendosi con un bastone il cui puntellare il suolo produce un rimbombo.
Armando Punzo sta al centro del paesaggio, osserva, si sposta dando la voce agli attori, ai quali avvicina il suo microfono applicato al bavero senza mai dire una sola parola in prima persona. Così ci pare assuma le sembianze momentanee di Prospero, Amleto, Iago e di altri personaggi mentre gli attori e le attrici usano le battute di Riccardo II, Riccardo III, Calibano o semplicemente “stanno” nei panni di Desdemona, Lady Anne, Ofelia e di altri personaggi. Intuiamo la loro identità da frammenti di testo proferiti, da azioni ripetute (il fazzoletto di Desdemona), ma non udiamo mai i loro nomi. Sembra di stare in un camposanto popolato da ombre, come se potessimo vedere cosa si cela dietro al muro di cinta da dove compare lo spettro di Amleto padre. Le ombre paiono intrappolate nella ripetizione, l’azione non procede anche se tutti ne hanno memoria, quello che resta sono lacerti di dialoghi, statements, sentenze. Shakespeare. Know well non si situa però in un un mülleriano “dopo”, bensì in un limbo che sospende gli accadimenti, ne studia le intenzioni, come a tentare di risalire alle cause, alla scaturigine.

Veniamo accolti e Punzo guarda di fronte a sé, ci pare come incredulo. Lascia cadere una coppa di ferro vuota, con rimbombo elettronico. Più e più volte. Udiamo montare un sottofondo di pioggia, o di Tempesta. Un attore/Calibano si approssima al letto e grida alle spalle di Punzo/Prospero: «Mi avete insegnato a parlare come voi, e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire.» Entrano altri personaggi. Spiriti, becchini, messaggeri con gorgiere nere e grandi maniche a sbuffo, provenienti da una “Wonderland” questa volta frontale, che possiamo “solo” osservare, non più da attraversare districandoci fra stanzette con azioni drammatiche simultanee (le celle di Hamlice, spettacolo del 2000 o di Santo Genet, del 2014, spettacoli nei quali grande peso era dato alla necessità di uno sguardo peripatetico). Ora siamo di fronte a una superficie che pare a due dimensioni, al cospetto di personaggi impigliati in un loop, in una storia immobilizzata, il cui finale procede verso il vuoto, o verso le croci conficcate in cima e in mezzo alle scale. Il Grande meccanismo della Storia (Jan Kott) è sul punto di ripartire, il ciclo di violenza di una Storia che usa i personaggi come ingranaggi non aspetta altro che compiersi: si ascende al trono, nel cammino sarà necessario uccidere, giunti in cima inesorabilmente si cade e tutto ricomincia. Eppure qui tutto è fermo e per questo i sensi sbandano, invano proviamo a cercare appigli, restiamo lì seduti come in trance di fronte a un miraggio, abbagliati dal lucore della luce pomeridiana di un piazzale delimitato da sbarre di ferro.

Attorno al tavolo due donne sembrano brindare, Riccardo II è un attore che giace a terra su una croce, Punzo si piega sul suo volto, lui discetta su una «fortezza che la natura si è costruita, contro ogni contagio o minaccia di guerra», caricando di domande la stasi, riportandoci alla sua deposizione, alla tragedia shakesperiana della presa di coscienza, della consapevolezza di una Storia che deve fare il suo corso; una processione di uomini col mantello fa il suo ingresso da quinte nere sul fondo, le voci rimbombano amplificate, le due donne adesso piangono, Otello il moro grida chiedendo a Desdemona di giurare sulla sua onestà, le note cadenzate del pianoforte di Andrea Salvatori caricano l’ambiente di tensione, per poi farla quasi esplodere quando il musicista suonerà un harmonium ricavato con bicchieri di vetro. Ora il nostro sogno lucido riacquista contorni più nitidi: è entrato un bambino che si apposta nei paraggi delle azioni, osserva e sorride, le donne piangono, i personaggi si sistemano dietro al letto come un coro, Punzo strappa da un grande tomo pagine e pagine e pagine, scavando dentro al Canone Occidentale (come vien scritto nelle note di regia) ma anche tentando disperatamente di differire l’inizio dell’azione, la ripartenza della tragedia. Il bambino riappare dal fondo, spinge una grande sfera color cemento, immagine di folgorante ambiguità su ciò che “in potenza” si appresta ad accadere (o no) per mano di un bambino.

Shakespeare. Know Well è il primo movimento di un progetto che vuole mettere in scena tutto il lascito del drammaturgo, riportando al centro personaggi laterali, immaginando e dando corpo non alle azioni visibili ma all’ombra che queste emanano, come scrive Punzo nelle note di regia. Lo spettacolo è stato anche il centro di un festival che si è svolto dal 20 al 26 luglio 2015 e che si irradiava dal carcere ai suoi dintorni, da Volterra a borghi limitrofi, con particolare rilievo dato al percorso Pilade/Pasolini della compagnia Archivio Zeta. Dopo il progetto di autonarrazione della città del 2014, La Ferita, quest’anno il gruppo bolognese ha abitato il festival mostrando in anteprima alcune tappe del percorso (Pilade/Camposanto e Pilade/Nascita di Atena) e creando appositamente la tappa Pilade/Campo dei rivoluzionaricon cittadini di Volterra, di Bologna e con alcuni operai della fabbrica Smiths Biths di Saline Volterra, a rischio di chiusura. Tutte queste creazioni erano ospitate in luoghi non convenzionali definiti «vicino all’infinito» (un cimitero, una rocca, una salina all’interno di un architettura industriale paraboloide), assecondando il nome di questa edizione XXIX edizione di Volterra Teatro, La città sospesa. Scrivono gli organizzatori che il tentativo è recuperare un tempo per la non produttività, un momento per «osservare le nervature della propria andatura e sottrarle alla mortificazione del fine, dell’efficientismo contemporaneo». Dichiarare un “tema” a partire dall’affermazione poetica della Compagnia della Fortezza, facendo dunque ruotare il percorso attorno alla creazione che impegna Punzo e i suoi attori per 12 mesi, ci è parsa una maniera credibile di procedere, corroborata da sostegni teorici e di approfondimento culturalmente densi. Ci riferiamo al Ro Ro Ro delle edizion Clichy prodotto appositamente per il festival e curato da Rossella Menna, studiosa e dramaturg. Si tratta di un “giornalone” stampato in rotativa sul quale la casa editrice pubblica solitamente classici, qui preziosissimo strumento che permette di entrare in dialogo con le idee del festival, che così esposte assumono la forma del discorso in atto e non della chiusura dello slogan. È stato infatti chiesto a tutti gli artisti presenti di lasciare un pensiero attorno alla parola “sospensione”, da Chiara Lagani di Fanny & Alexander a Chiara Guidi, dal fotografo Stefano Vaja a Giuliano Scabia. Molti sono i contributi, non poche le illuminazioni (Mariangela Gualtieri che associa la sospensione a quello stato prodotto dalla meraviglia, che appunto sospenderebbe il respiro) e altrettanti gli scritti di artisti fra poetica e racconto artigianale, come la «sospensione continua» vissuta durante la creazione descritta da Mario Perrotta, o come la Nubicuculia di Aristofane evocata da Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni di Archivio Zeta in quanto “archetipo” della loro stessa ricerca teatrale, «all’inizio del nostro teatro, nel 1999». La pubblicazione ospita inoltre un’intervista a Roland Barthes sull’idea di ozio che scorre sul piede di ogni pagina, da leggere e rileggere per tutta l’estate.

foto di Stefano Vaja

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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