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Schermi liquidi. Uno sguardo collettivo su Residenze Digitali 2021

di Francesca Lombardi

La Settimana delle Residenze Digitali di Kilowatt e Armunia è l’esito dell’unico bando di residenze teatrali in Italia dedicato interamente al digitale, un’occasione per confrontarsi con lo spazio multiforme della rete e per sperimentare nuove modalità di creazione. La visione dei lavori ci ha posto di fronte ad alcune domande rispetto al ruolo e al futuro della produzione digitale in ambito performativo.
Per restituire una panoramica quanto più completa della rassegna, abbiamo deciso di raccontare brevemente i sette progetti e di ascoltare chi il bando lo ha progettato – Angela Fumarola (Armunia) e Gianluca Cheli (Kilowatt) – per comprendere quali urgenze si celano dietro la volontà di fare ricerca con forme teatrali ibride, volte a ripensare il significato stesso di presenza.

La parola agli esperti

A cosa si deve la creazione di un bando per Residenze Digitali?

«La necessità è quella di abitare lo spazio della rete indipendentemente dalla cornice emergenziale dettata dalla pandemia, nell’ottica di un’esplorazione creativa di pratiche nuove, capaci di muoversi nel tempo presente. Il bando prevede un sostegno economico agli artisti selezionati, scelta che, oltre a garantire la sopravvivenza, veicola un segnale forte: il riconoscimento del lavoro artistico come, appunto, lavoro. Esso diventa un tema fondamentale che trascende l’emergenza pandemica e apre a questioni politiche che legano a doppio filo i lavoratori della cultura e le lotte di riconoscimento per il lavoro. Nelle discussioni preventive alla pubblicazione del bando (iniziate nel 2020), l’esigenza emersa era quella di aiutare gli artisti in un modo che non fosse il sostegno economico, manovra che dovrebbe competere al governo e non ai centri di residenza o produzione. La ratio adottata è stata quella di selezionare progetti popolari, capaci di abbracciare diversi pubblici e quindi diverse tipologie di ricerca teatrale. La varietà artistica si riflette nella necessità di parlare al pubblico, di creare uno spazio per il discorso, in cui artisti e spettatori possano ritrovarsi per ripensare insieme la presenza».

Come immaginare il futuro prossimo di questi lavori? Esiste un orizzonte di distribuzione?

«Gli esiti delle residenze digitali non sono spettacoli compiuti per i quali è prevista una circuitazione definita e preventiva. L’esperienza avviata da Armunia e Kilowatt interviene nella relazione con la creazione artistica, arrivando a modificare il modello stesso di produzione dei prodotti artistici. Le programmazioni vanno definendosi in modo più orizzontale e libero, grazie a una pratica progettuale che riesce a sintonizzarsi con il contemporaneo. La vita di queste esperienze, al di fuori di Residenze Digitali, è indeterminata: possono evolversi in spettacoli in presenza o in eventi non teatrali».

La progettualità in ambito culturale come si rapporta al costante invecchiamento dei mezzi tecnologici? E che cosa differenzia gli esiti a cui abbiamo assistito dai prodotti presenti sui social?

«La tecnologia invecchia e si rinnova continuamente, questa accelerazione rischia di escludere una parte del pubblico, senza possibilità di abitare per sufficiente tempo una determinata piattaforma. Cosa fare quindi? L’uso di un particolare mezzo non dipende dalla moda del momento: può essere una scelta pratica, estetica o simbolica, che riprende, anche con nostalgia, determinati modi di comunicare. Nel lavoro degli artisti con il mezzo digitale emerge quindi una differenza sostanziale rispetto allo storytelling tipico dei social network: la drammaturgia, che mette insieme e dà senso alla dimensione apparentemente amatoriale, casalinga, dei progetti. La scrittura per la scena digitale unisce spettatori e artisti in un determinato spazio e tempo, ricreando l’hic et nunc dell’evento dal vivo».

Immagine tratta da Into The Woods, di L. Montanini con S. Di Maio e I. Albertini, Residenze Digitali ed. 2021

Benvenuti a teatro

Dealing with Absence

Un visore ottico, un danzatore e lo spazio. Dealing with Absence di Margherita Landi e Agnese Lanza è un progetto di delivery coreografico intorno al tema dell’assenza. Ai danzatori viene consegnato a casa un visore ottico per la realtà aumentata: spetta a loro, in totale libertà, elaborare una coreografia a partire dagli spezzoni di film selezionati dalle due creatrici e trasmessi in VR. L’esito della residenza restituisce in forma video il tema in oggetto, consegnando allo spettatore un coro di solitudini in spazi urbani, naturali e industriali. Nell’isolamento del corpo, nell’assenza dell’altro, è possibile una nuova forma di comunità? La tecnologia diviene il mezzo attraverso il quale eludere lo spazio-tempo, per ritrovarsi insieme nonostante il vuoto. Ma è comunque presenza? Dealing with Absence non restituisce risposte ma amplia le domande, consegnando un affresco di possibilità con cui tutti, nell’immediato futuro e nel presente pandemico, dobbiamo confrontarci. 

I Am Dancing in a Room

Ricerca di interazione nell’alienazione da scroll down. I Am Dancing in a Room_La Fauna 2k21 è una performance digitale in diretta live-streaming di e con Mara Oscar Cassiani. È possibile accedere allo spettacolo tramite una pagina Tumblr che porta alla diretta Youtube, la quale presenta i performer in finestre formato Zoom. Il progetto esplora il concetto di “fauna” all’interno della rete, sempre più caratterizzato da solitudine e da quel senso di ripetizione continua restituita tanto dall’atto dello scroll down, quanto dalla manifestazione degli attori in scena. Attori provenienti da luoghi fisicamente distanti (Cina, Stati Uniti, ecc.) eppure virtualmente simili, poiché racchiusi nell’habitat delle proprie stanze, a comunicare da uno schermo. Chi prepara gazpacho, chi danza, chi ascolta musica, chi comunica scrivendo, chi suona il piano, chi si trucca e si strucca, si veste e si sveste. Il tutto in un loop, che oscilla tra la monotonia dell’assenza di fisicità e il perseverare di una comunicazione che perde fisicità ma non il corpo, non i gesti. Qualche perplessità rimane, non tanto sul lavoro drammaturgico, quanto piuttosto sulla restituzione, troppo simile alle chiamate zoom del primo lockdown. 

INTO THE WOODS – la finta nonna

Realizzato da Lorenzo Montanini, Isabel Albertini e Simone di Maio, Into the woods- la finta nonna è un dispositivo narrativo che coniuga teatro e riprese e video a 360°. Per seguire da vicino i passi della protagonista ed entrare nel vivo del racconto tratto dalla fiaba di Italo Calvino, al giovane pubblico e a chi lo accompagna sono sufficienti un dispositivo mobile e una connessione Internet. Il prodotto si presenta come una serie di episodi su un canale privato di YouTube: una volta capito il meccanismo di fruizione, per godere appieno dell’esperienza, è necessario, di volta in volta a seconda della scena, ruotare i dispositivi mobili, oppure muoversi con il cursore del pc sullo schermo: spettatori e spettatrici hanno modo di vivere un’esperienza inedita, circondati da boschi spaventosi, cancelli e fiumi affamati e una nonna che dice di essere quello che in realtà non è. Sebbene la qualità dell’audio non consenta una totale immersione all’interno del mondo fiabesco, il  carattere artigianale delle ambientazioni – realizzate con cartoni, stoffe colorate e luccicanti, lana cotta e luci – restituisce un’atmosfera da sogno capace di coivolgere il piccolo pubblico.

Olga legge i critters

Olga legge i critters è un live radiofonico parte del progetto The Critters Room del gruppo Jan Voxel. I critters sono piccoli vetrini pensati per collezionare ciò che non vediamo, gli abitanti dell’aria che respiriamo, dove sperimentare la presenza dei mostri e dei fantasmi dell’Antropocene. In Olga legge i critters lo spettatore ascolta persone reali descrivere i critters, nella loro forma e colore, abbandonandosi al pensiero laterale. Le storie abbracciano i più svariati generi, restituendo un affresco in cui l’immaginazione del narratore si confonde e sovrappone con quella dello spettatore in ascolto, impegnato a scorrere l’archivio digitale dei critters. A intervallare i racconti emergono estratti letterari – su tutti Donna Haraway e la teoria del chthulucene – che generano una preziosa cornice di senso, in cui ragionare intorno alle derive ambientali del prossimo futuro. 

Whatever Happens in a Screen Stays in a Screen

Un’indagine dell’interazione tra individuo e immagine multimediale, ma anche un’esplorazione delle possibilità del teatro nella bidimensionalità dell’ambiente digitale: questi gli intenti di Whatever Happens in a Screen Stays in a Screeen, un medio-metraggio in sette episodi ideato dalla performer e coreografa Chiara Taviani. Mediante riprese artigianali e l’uso del blue screen, in ogni episodio un performer abita immagini fisse di sfondo che scorrono in successione e lo contestualizzano in diversi luoghi: una cucina, un bosco, una casa con piscina, una roulotte e così via. I movimenti dei performer sono al limite dello statico e l’azione è muta, se non per brevi sottotitoli che svelano allo spettatore una chiave d’accesso all’interpretazione di quanto sta osservando. Solo una colonna sonora accompagna le puntate – quasi parodia delle vecchie pellicole anni ‘20- ‘30 – e talvolta qualche artificiale suono ambientale. «But you, which reality you prefer me into?», chiede silenziosa la performer del primo episodio, Ambra Chiarello, guardando in camera e quindi negli occhi dello spettatore. Pare essere questa la domanda sottesa all’intero progetto, un invito a porsi interrogativi attorno alla realtà del digitale e nel digitale, su quanto esso abbia una concreta incidenza nonostante il suo essere falso ed effimero. Il risultato di questo sguardo oltre lo schermo (che ritorna in altri episodi) è per certi versi perturbante, in quanto ci si ritrova catapultati dentro un’immagine sterile e non – come in teatro – su un palco in cui accadono cose e tutto vive. A rivolgerci la parola, inoltre, è una sorta di ologramma dai contorno sfumati, la riproduzione virtuale di un corpo che in quel momento è lì e allo spesso altrove. Sebbene incidente e coerente nei risultati, il lavoro scivola un po’ nella monotonia, mentre il calcare su staticità, artificio e falsatura del multimediale restituisce allo spettatore l’impressione che, alla base, vi sia del pregiudizio nei confronti del mondo digitale, rischiando così di intaccare l’interessante esplorazione tra corpo e spazio virtuale.

Sál/ Rite

Sál (“anima” in islandese) /Rite è un’esperienza di meditazione collettiva pensata da fuse*, in collaborazione con Roberto Ferrari, Nicola Berselli, Sergio Bertolucci, volta a far raggiungere uno stato di coscienza alterato, ai limiti della percezione. Ai partecipanti, che accedono da remoto, viene richiesto di rispondere ad alcune domande personali sulla vita e sulla morte. In seguito vengono accolti all’interno di una stanza in cui sono presenti due performer, la guida del percorso meditativo, un musicista e infine una persona che si occupa della misurazione scientifica. Durante la meditazione, sullo schermo, vengono riportati in contemporanea alcuni dati biometrici delle performer, quali l’intensità del respiro, la velocità del battito cardiaco. Al termine dell’esperienza, potente e immersiva anche grazie all’accompagnamento vocale e sonoro, vengono poste ulteriori domande ai partecipanti sulle sensazioni provate e sulle parti del corpo maggiormente coinvolte. Che cosa rimane? Una diversa postura interiore, l’acquisizione del concetto di impermanenza – che ci ricorda che non è scontato essere vivi – e un forte ronzio nelle orecchie.

WOE – Wastage of Events

Cosa c’è ai bordi della transmedialità? Dove si accumulano i residui digitali del nostro inconscio collettivo? WOE – Wastage of Events vuole apparire come una panoramica del dopo disastro, coagulo di linguaggi come il videogioco, il graphic novel, lo spoken word, l’animazione, la realtà virtuale, che come detriti nostalgici affiorano tra le dune di un deserto low poly. Questo lavoro digitale ci viene presentato in streaming, la regia è prodotta attraverso un programma di pittura 3D, “Tilt Brush”. Ci ritroviamo circondati da un paesaggio desertico dal quale emergono monoliti rossi che formano il titolo del lavoro; ben presto però veniamo trascinati dentro l’unico edificio visibile all’orizzonte, la rappresentazione di una scuola, un modello generico che sembra provenire dall’immaginario televisivo anni ‘90 americano. Al suo interno oggetti elettronici prendono varie forme, mentre il commento recitato ci accompagna per tutta la durata della performance stratificando riflessioni sulla caducità materiale/psichica della tecnologia, sul nostro affidarci alla sua imprecisa memoria e ai suoi mezzi nuovamente obsolescenti. Questa discarica del subcosciente è talmente densa che purtroppo spesso si perde in se stessa, alternando un registro catastrofico-filosofico derivativo da autori come Bifo, Donna Haraway e Simon Sellars, ad uno più intimo e riflessivo che, all’atto pratico, finisce per essere un cataclisma ballardiano recitato con uno spoken word martellante, che non aggiunge nulla alle premesse stipulate nei primi minuti della pièce. WOE è un progetto molto ambizioso, ma che rischia di diventare un manifesto accelerazionista, saturando l’ambiente di retorica e impronte ideologiche, lasciando così poco spazio allo spettatore per la  riflessione.

Immagine tratta da Dealing with Absence di Margherita Landi e Agnese Lanza, Residenze Digitali ed. 2021

Dimenticare le domande

Se vogliamo che questi lavori non restino degli embrioni o casi isolati, ma diventino prove consolidate nell’ambito della ricerca sulle arti e il digitale alle quali guardare, è importante costruire fin da subito un dialogo costante tra artisti, operatori e studiosi di questo ambito. Tenere acceso il dibattito crediamo possa essere proficuo non tanto per rafforzare la relazione tra sperimentazione e nuove tecnologie, soggette a una corsa sempre frenetica verso nuove scoperte, ma per comprendere come queste opere possano attecchire e farsi spazio tra il pubblico e quali spazi di visibilità possano ricoprire.

È soltanto la rete lo spazio di fruizione di queste opere? I teatri possono farsene carico allo stato attuale, in termini di distribuzione, ragionando anche su percorsi di accompagnamento allo sguardo? Oppure dobbiamo trasformarci in visitatori e contemplare in spazi museali questi lavori, più vicini a opere di videoarte? O ancora, gli ambienti ideali per questi lavori rimangono i festival pensati per la rete e le piattaforme apposite che raccolgono e ordinano questi lavori?

Volendo rimanere all’interno del perimetro teatrale, pensiamo che una strada percorribile possa essere quella di mantenere una forma ibrida di esperienza, tra presenza e digitale, due dimensioni che, nella vita quotidiana, hanno da tempo reso permeabili i loro confini. 

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