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Ana Pi, "The divine cypher". Foto © Pietro Bertora

Santarcangelo Festival #5. Il corpo in offerta della tradizione

di Alessandra Sabbatini

Questo diario dal festival di Santarcangelo è prodotto dal “Laboratorio itinerante di giornalismo culturale in Romagna“, organizzato da Altre Velocità, che segue cinque festival estivi del territorio romagnolo.

The divine cypher inizia ancora prima di cominciare. All’ingresso del Lavatoio di Santarcangelo, Ana Pi si presenta allo spettatore che sta entrando. È in piedi, immobile al centro, mentre regge i lembi della sua gonna e rivolge uno sguardo a ogni persona nuova che varca il portone. Solo quando anche l’ultimo spettatore è seduto, la performer entra in scena scendendo le scale lentamente, dedicando un passo di danza a ogni gradino, stabilendo in questo modo da subito una vicinanza con il pubblico. Vicinanza che si disperde però rapidamente non appena appoggia il primo piede sul palco. Da quel momento sembra danzare come se fosse sola, al punto che noi spettatori arriviamo a sentirsi degli intrusi, in silenzio e immersi nel buio pesto.

In mezzo al palco un tappeto bianco con un cerchio al centro, attorno a cui balla la performer, senza mai toccarlo. Davanti un telo bianco, su cui all’improvviso viene proiettata l’immagine distorta di una donna, intenta a eseguire un canto ritualistico. Sul lato destro è posizionato un piccolo altare celebrativo su cui poggiano un giradischi, alcuni libri, vasi e mazzi di fiori. Gli oggetti in scena e la voce fuori campo che si manifesta in seguito sono volti a ricordare e consacrare la regista Maya Deren, studiosa della cultura haitiana, in particolare del suo lavoro Divine horsemen, libro poi divenuto film sul credo voudoun haitiano.

La figura di Ana Pi appare inizialmente sacra, complici i vestiti ampi e bianchi indossati e i misteriosi oggetti che la circondano, richiamando un’atmosfera ritualistica. Ma non appena le luci si alzano e la performer si spoglia dei vestiti immacolati, ecco che la figura appare nuovamente umana e il tappeto altro non si rivela che una distesa di zucchero bianco. L’artista lo calpesta dapprima timidamente e poi con più convinzione, fino ad arrivare a ballarci sopra con veemenza, rompendo gli schemi, distruggendo l’iniziale forma perfetta.

Il corpo di Ana Pi segue i ritmi sacri e ancestrali dei balli tradizionali haitiani, accompagnati da odori e suoni intensi, viscerali. Sono movimenti delicati, non casuali ma ripetuti in sequenza, secondo un ordine che richiama l’esecuzione di un rito. È un corpo che si pone in offerta della tradizione che sta raccontando. Un corpo attraverso il quale si manifestano altri corpi, quello di Maya Deren ma anche quello della ballerina e attivista Katherine Dunham, pioniera a partire dagli anni ’30 nell’interpretazione e fusione di danze caraibiche, sudamericane e africane.

The divine cypher è uno spettacolo immersivo: non basta guardare, bensì è necessario sentire, odorare, lasciarsi coinvolgere senza porsi troppe domande. Tutto si fa protagonista, dalla bottiglia d’acqua che la performer sostiene sopra la testa, alle mura del teatro ricoperte da teli bianchi. Una performance che si colloca in una dimensione da indagare, a partire dalle tre domande rivolte allo spettatore sul finale: “Cos’è realtà? Cos’è sogno? In che cosa ti puoi rispecchiare?”.

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