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Robot e sociale: quando l'artificio supera l'umano

di Altre Velocità

Nella serie tv Osmosis (disponibile su Netflix) in un futuro non troppo lontano, la ricerca dell’amore eterno è affidata ad un robot che, tramite un impianto neurosensoriale, analizza il cervello dei pazienti per trovare l’anima gemella. Il confine tra realtà e finzione ha sempre affascinato l’umanità: le ricerche robotiche condotte dell’Android Human-Theatre giapponese e dal collettivo svizzero Rimini Protokoll ragionano sul concetto di altro e doppio, sperimentando il cortocircuito percettivo che proviamo quando, guardando un automa, non riusciamo del tutto a definirlo umano. In un futuro non troppo lontano, uomini e macchine vivranno pacificamente insieme?

La costruzione di oggetti altri dalle fattezze umane non è un bisogno recente. Bambole, marionette, manichini sono presenti nella storia del teatro di tutto il mondo sin da tempi antichi – basti pensare al teatro di figura asiatico come il Bunraku giapponese o il Wayang Kulit di Giava, fino alle ricerche di Edward Gordon Craig sulla supermarionetta – concretizzando il desiderio primordiale di manipolare e rappresentare la vita umana. La robotica si inserisce in questo percorso delineando la più avanzata ricerca tecnologica in corso, in cui il ruolo del robot è prima di tutto sociale. È necessario, per comprendere la materia di cui stiamo trattando, delineare la distinzione tra umanoide e androide: «i primi sono oggetti d’appartenenza umana costruiti artificialmente i cui modi di comportamento sono molto vicini a quelli dell’uomo. Tali oggetti, però, esteriormente rivelano la loro meccanicità senza suscitare dubbi, esponendo le loro componenti meccaniche. Gli androidi sono invece macchine che dal punto di vista esteriore replicano in tutto e per tutto l’aspetto degli esseri umani». (tutte le citazioni sono di Cinzia Toscano, Il teatro dei robot. La meccanica delle emozioni nell’Android-Human Theatre di Hirata Oriza, Bologna, CLUEB, 2019).

Hirata Oriza e Ishiguro Hiroshi si incontrano all’inizio degli anni 2000, dalla loro collaborazione nasce il progetto Robot-Human Theatre – insieme alla Seinendan Theatre Company e al laboratorio di robotica dell’università di Osaka – che si compone di cinque spettacoli «l’elemento che li accumuna tutti […] è lo stretto rapporto che li lega alla società contemporanea giapponese e la visione di un futuro in cui i robot vivranno a stretto contatto con l’uomo». I primi quattro spettacoli vedono l’utilizzo di umanoidi, con Sayonara (2010-12) viene introdotto il primo androide e il progetto cambia nome in Android Human-Theatre.

In uno spazio completamente nero, gli unici elementi scenografici presenti sono un tappeto bianco, uno sgabello e una poltrona, anch’essa bianca. In scena un robot e un’attrice – Geminoid F e Bryerly Long – la prima recita delle poesie, la seconda, trentenne malata e solitaria, ascolta. Il dialogo tra le due è continuamente intervallato dai componimenti, da cui la conversazione prende spunto e si sviluppa. La solitudine, la sofferenza esistenziale e la morte sono i temi cardine di Sayonara: mentre i primi due sono esplicitamente nominati nel testo, il sonno eterno rimane un’allusione che non viene mai affrontata direttamente. Reale per l’umana Bryerly, sconosciuta per il robot Geminoid F. Il ruolo assistenziale dell’automa viene dichiaratamente messo in luce attraverso una parte di dialogo, in cui Geminoid riferisce all’attrice che prima di lei aveva letto poesie per un’altra persona: «da quella esperienza […] ha acquisito delle conoscenze e le utilizza adesso adattandole alla nuova situazione in cui si trova». Alla fine dello spettacolo, dopo uno stacco buio, apprendiamo che il personaggio interpretato dall’attrice è morto: questa seconda e ultima parte tratta della tragedia di Fukushima. Geminoid F non funziona più bene, decidono quindi di mandarla a recitare poesie agli spiriti dei defunti, morti nell’esplosione della centrale atomica. Al robot viene consegnato il compito sociale e rituale di trasmettere la natura umana: «Emerge una visione in cui l’uomo si sente in grado di mantenere la propria e più profonda umanità e di trasferirla all’oggetto inanimato con cui entra in relazione».

Uncanny Valley (2018) di Stefen Kaegi (autore del collettivo Rimini Protokoll e regista di Granma, andato in scena all’Arena del Sole questo marzo) riprende le riflessioni affrontate negli studi giapponesi: l’uncanny valley è il termine usato per definire il sentimento perturbante che proviamo a contatto con una macchina perfettamente uguale, nell’aspetto e nel comportamento, all’uomo. Il processo di creazione del robot è la parte più interessante del lavoro: a differenza di Sayonara, è il corpo di una persona reale ad essere replicato, quello del drammaturgo e scrittore Thomas Melle. L’androide prende letteralmente il posto dell’autentico, ponendo al pubblico delle domande: cosa succede all’originale quando la copia prende il sopravvento? Può l’originale conoscersi meglio attraverso il suo doppio elettronico? L’originale e la copia entreranno in competizione oppure si aiuteranno a vicenda?

In entrambi i lavori la prospettiva di un mondo in cui robot e umani convivono viene considerata un fatto possibile e, in qualche misura, auspicabile. L’assistenza sociale diventerebbe controllabile e sicura, garantendo affidabilità e gestione uniforme delle risorse. La tecnologia si svilupperebbe in modo più intimo e famigliare, un medium con cui interagire in maniera reale. Il personal robot potrebbe offrire soluzioni parziali a problemi connessi alla produzione, in particolare per i soggetti sociali più deboli come bambini, disabili e malati. Inserendosi attivamente nel discorso contemporaneo, garantirebbe reali e tangibili risposte sia sul piano economico che su quello lavorativo.

Ma davvero, per aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di un doppio più umano ma meno umano?

I robot non sono però nuovi all’immaginario collettivo: da Metropolis (Fritz Lange, 1927) a Wall-E (Disney pixar, 2008), passando per Star Wars (1977) e Star Trek (1987), le produzioni sul tema sono infinite. Ciò che però ritorna come leitmotiv è il ruolo che questi occupano, in aiuto o comunque in relazione all’umano. Cosa ci affascina dell’intelligenza artificiale da renderla un bisogno urgente su cui lavorare e proiettare aspettative? negli esempi proposti la funzione del robot rimane sociale. Wall-E è stato progettato per aiutare il mondo a smaltire i rifiuti; similmente a Geminoid F, in un futuro distopico si troverà da solo a continuare il suo compito. Ricerchiamo spasmodicamente in qualcosa di altro, simile a noi ma drasticamente diverso, un modo per risolvere quello che da soli non siamo in grado di gestire. La verosimiglianza di questi oggetti con il corpo umano non implica le emozioni: le narrazioni presentate, dipingendo una parabola ascendente da oggetto a soggetto, mostrano aspettative semplici e quasi “ingenue”. Amore, comprensione, emotività parole che ci identificano ma che non riusciamo ad abbracciare completamente.

Forse altro potrà riuscirci (o forse no).

E il teatro? come risente di questa “novità”? la relazione teatrale ha sempre vissuto del rapporto tra corporeità: quella del performer e quella dello spettatore. Nel momento in cui questa relazione viene meno, come ripensare il così detto specifico? i performance studies potrebbero aiutarci a districare questo quesito. Quella in cui siamo immersi non è più la dimensione dell’esperienza dal vivo, ma un permanente ecosistema mediale, attraversato da flussi narrativi e esposizioni di senso che non sono divisi tra esperienza dal vivo e esperienza mediata. Non spettatori ma audience: il pubblico non occupa più un ruolo specifico, continuando però ad esperire qualcosa di altrettanto reale che non comporta necessariamente un luogo fisico.

Che il futuro e lo sviluppo di questo non-luogo comunicativo sia l’intelligenza artificiale?

Francesca Lombardi

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