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Ricucire pezzi di storia. Intervista ad Archivio Zeta e Rossella Menna su maratona Pilade / Pasolini

di Altre Velocità

A partire da Pilade, testo teatrale di Pier Paolo Pasolini, la compagnia Archivio Zeta di Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti ha dato vita un percorso di spettacoli di diversa dimensione e durata, messi in scena in più location tra Toscana ed Emilia-Romagna. Archivio Zeta punta a far emergere i temi focali che Pasolini affronta nel suo testo andando alla ricerca di luoghi che sappiano creare coincidenze di senso tra il testo e l’oggi, tra la parola e il contesto in cui si materializza.
Il 1° novembre 2015 a Bologna, nell’ambito del progetto speciale del Comune di Bologna 
Più moderno di ogni moderno – Pasolini a Bologna, Archivio Zeta presenta l’intero percorso attraverso una maratona in tre tappe, preceduta da un ciclo di incontri pensati dalla curatrice teatrale Rossella Menna.

Come siete arrivati a Pilade di Pier Paolo Pasolini? In che modo questo autore si inserisce nel vostro repertorio e nella vostra visione teatrale?

Gianluca Guidotti: siamo arrivati a portare in scena Pasolini dopo tanti anni di lavoro, ma fin dall’inizio il suo Manifesto per un nuovo teatro è stato un nostro punto di riferimento. Pasolini in quel testo dà delle indicazioni che abbiamo preso e applicato cercando di attualizzarle, pensando alle sue parole sull’illuminotecnica, sui costumi, su come e perché lavorare con i non-attori cittadini, sulla necessità di affrontare un classico all’anno… Oltre a Pasolini, due riferimenti importanti da sempre sono Luca Ronconi e Jean-Marie Straub, maestri e guide nella nostra formazione. Sono figure diverse anche per le discipline di cui si sono occupati, uno di teatro l’altro di cinema. Secondo noi hanno preso di petto il problema della parola e ne hanno fatto motivo centrale della loro riflessione filosofica e politica, teatrale e cinematografica. Per certi versi, ancora oggi la parola sembra rimasta appannaggio di una visione più ottocentesca del teatro. Il tentativo che affrontiamo nei nostri lavori ci avvicina a Pasolini, nel senso che stiamo provando ad assumerci una nuova responsabilità nei confronti della parola, un atteggiamento che decliniamo anche nei rapporti con le altre discipline, con la musica, con l’arte. Il nostro teatro si pone il problema della drammaturgia, del dialogo… è sempre un tentativo dialettico.

Enrica Sangiovanni: inoltre l’atteggiamento di Ronconi e Straub era anche quello di mettersi a disposizione dell’autore. Non si tratta di lavorare su una parola qualunque, ma di pensarla in relazione a chi l’ha concepita. Veniamo dal cosiddetto “teatro tradizionale”, nel quale Ronconi era a sua volta ricerca. Lui stesso, negli anni, ci ha seguito e una volta ci disse che avevamo trovato la nostra “lingua”. Ci rendiamo conto di rappresentare qualcosa di “strano” per i festival e per le stagioni: non abbiamo abbandonato la parola, anzi, ma allo stesso tempo non abbiamo un approccio classico.

G.G.: nel 2010 abbiamo cominciato a lavorare sull’Orestea: avevamo bisogno di un progetto più ampio e quel percorso infatti ci ha occupato per quattro anni. Alla Futa abbiamo messo in scena una tragedia all’anno, e infine tutta la trilogia insieme. Pur non avendo usato la sua traduzione, perché avevamo scelto di avvalerci della collaborazione di diversi filologi contemporanei, in particolare di Federico Condello, posso dire che ci siamo molto rivolti a Pasolini, pensando soprattutto al film Appunti per un’Orestiade africana, dedicato a un’idea di nascita della democrazia. La riflessione è partita proprio da questo, ed è avvenuta in un luogo in cui tale problema è lampante: al cimitero della Futa sono sepolti i nemici, e quindi dovevamo confrontarci con la nascita della democrazia in relazione al tema della colpa, pensando a un tribunale che dovesse giudicare per la prima volta un essere umano di fronte alle sue responsabilità. La coda di questa riflessione era inevitabilmente Pilade di Pasolini. Rileggendo il testo ci siamo resi conto che non era possibile metterlo in scena in un’unica soluzione, ma che andava letteralmente fatto a pezzi. Abbiamo quindi deciso di rappresentarlo cinematograficamente. Leggendolo si ha l’impressione che vi siano più episodi, legati ciascuno a un suo tempo e un suo luogo, così siamo andati a cercare dei veri e propri set che potessero ospitare le scene dello spettacolo.

In che modo, dunque, avete operato una frammentazione drammaturgica?

G.G.: è stato un lavoro di messa a punto, di montaggio e dissezionamento. Pilade è un testo che non ha una sua unità. Il teatro di Pasolini è particolarmente forte proprio per la lingua che l’autore vi affina all’interno. Per capire questo testo bisogna comprendere il suo cinema e tutta la sua opera poetica, che qui è particolarmente presente. Abbiamo cercato di trarre con delle reti quello che ci sembrava oggi più utile far emergere. Per esempio, Enrica in Campo dei rivoluzionari a un certo punto dice: «Diceva che le città non sono più mercati costruiti con gentilezza da mani di muratori, il buonsenso, la previdenza, l’onore, il pudore, la religione, la vecchia religione non sono più la realtà. Il mondo umano per la seconda volta è mutato». Pasolini qui parla dell’argomento che più gli sta a cuore: il mondo rurale dell’Italia del primo dopoguerra che sta morendo, e nel nostro allestimento quella «gentilezza delle mani dei muratori» sarà sotto gli occhi degli spettatori, perché durante la maratona del 1° novembre verrà ripetuta alla Pensilina Nervi, utilizzata fino a pochi anni fa come mercato. Sta proprio accanto alla nuova piazza Liber Paradisus, che ospita i palazzi comunali: è un luogo abbandonato accanto a un luogo del potere.
Queste riflessioni ci hanno portato, nella prima versione di Campo dei rivoluzionari, a coinvolgere gli operai della Smith Bits alle Saline di Volterra, dove una situazione simile era tragicamente in atto. Gli operai sono entrati ad ascoltare le prove mentre i ragazzi del laboratorio recitavano «tutto sta franando intorno a noi, il nostro lavoro, le nostre speranze sono intorno a noi come occhi vuoti, mai come ora abbiamo avuto il dovere di capire e discutere ciò che succede. Tu non hai nulla da dire?». Gli operai ci hanno chiesto se avessimo scritto quel testo apposta per loro.

E.S.: In Pilade c’è una questione dominante che noi abbiamo cercato di far emergere, ovvero il confronto fra progresso e sviluppo. Si tratta di due facce della stessa medaglia, una positiva e una immancabilmente negativa. Sono due aspetti rappresentati da Atena, che però nella nostra interpretazione scenica è anche Oreste: il primo personaggio è l’accezione divina, il secondo quella terrestre, e racchiudono in qualche misura  la stessa entità. Possiamo dire che si tratti dello stesso personaggio, una figura a tutto tondo che contiene sia il bene che il male. Pilade si confronta dunque con questo essere dalla doppia faccia, e in tale relazione sta la tragedia. Dietro ad Atena avremo il corteo della cittadinanza, i migranti di Villa Aldini e i bolognesi dei nostri laboratori. Ora il gruppo della Smith Bits è disperso: alcuni sono stati riassunti, altri sono ancora disoccupati, altri in cassa integrazione… il gruppo è stato spaccato. In fondo accade qualcosa di simile proprio alla fine di Campo dei rivoluzionari, quando Atena ha portato tutti via con sé, Pilade rimane solo con una bestemmia, con la rabbia nei confronti di qualcosa di ineluttabile.

In che modo i tre luoghi della maratona – Villa Aldini, il Tiro a Segno Nazionale e la Pensilina Nervi – fanno parlare il vostro Pilade?

E.S.: i tre luoghi si sono ricomposti come per magia. Villa Aldini, una struttura neoclassica con una vista mozzafiato sulla città, oltre a essere stata il set per gli esterni di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini è una struttura adibita a ospitare persone in attesa del diritto d’asilo. Non potevamo non coinvolgerli. Qui viene presentato Pilade/Parlamento, il primo episodio.

G.G.: Il secondo è Pilade/Montagne, episodio con alle spalle una bella storia di luoghi: ha debuttato a Montesole il 25 aprile, nei luoghi dell’eccidio, e poi è stato portato a Monte Battaglia, su quell’Appennino tosco-romagnolo dove sono avvenuti alcuni scontri durante la seconda guerra mondiale, e infine alla Rocca Sillana di Pomarance, in chiusura al festival di Volterra 2015. In tutti questi luoghi c’era la montagna: l’idea di fondo è che Pilade intraprenda la sua resistenza sui monti unendosi ai contadini. In città non ci sono vero montagne, dunque avevamo l’esigenza di pensare a qualcosa di diverso. Volevamo ambientarlo nella Facoltà di Ingegneria, che fu la sede della Wehrmacht, ma non abbiamo ottenuto il permesso. Così abbiamo proseguito la ricerca e siamo arrivati in un luogo ancora più emozionante perché poco frequentato, il Poligono di Tiro Nazionale, spazio nel quale, durante la seconda guerra mondiale, i fascisti e i nazisti conducevano i partigiani e i loro aiutanti per essere fucilati. Abbiamo scoperto che lì sono state uccise trecento persone, un fatto dimenticato o addirittura rimosso. Oggi lì si continua a sparare.
Montagne è un episodio pieno di fantasmi, a partire dalle Eumenidi, figure che a Montesole identificavamo con le vittime civili e che tornavano così a parlare di resistenza. Al Poligono acquisiranno giocoforza un nuovo senso.
Anche ambientare Campo de’ rivoluzionari era difficile, poiché è nato in un luogo straordinario e irripetibile, cioè le Saline di Volterra, scelto con la direzione del festival dopo moltissimi sopralluoghi, una fabbrica che gli stessi abitanti di Volterra non conoscevano, disegnata da Pier Luigi Nervi. La pensilina porta il nome dell’architetto, pur non essendo stata disegnata da lui. Al di là di questa coincidenza individuiamo una relazione profonda con il testo per la presenza del cemento armato. Tutti e tre, infine, sono luoghi enormi, nei quali abbiamo l’agio di costruire i nostri cortei.

Il vostro lavoro sullo spettatore-cittadino è animato da una doppia articolazione. Da una parte alcuni gruppi di persone sono in scena, dall’altra c’è ovviamente il pubblico che assiste. Qual è, in fase di ideazione, lo spazio dello spettatore?

E.S.: il nostro pubblico è sempre in movimento, farlo muovere coincide con una richiesta: mettere in discussione il punto di vista. In questo progetto abbiamo sperimentato l’idea di avere il pubblico tra noi, quindi di mescolarlo allo spazio scenico. Fin dai primi spettacoli abbiamo cercato di abbattere le barriere fra tra spettatore e attore… personalmente, sono rimasta colpita dagli spettcoli di Peter Brook, artista che lascia una soglia molto sottile tra lo spazio magico della scena e il pubblico. Proseguendo nel nostro lavoro, ci sono stati casi in cui abbiamo avvertito l’esigenza di conferire alla visione dello spettatore una particolare prospettiva, e scegliere dunque un’angolatura per farne la nostra “inquadratura principale”; è capitato spesso alla Futa, mentre per esempio a Monte Sole il pubblico è stato libero di scegliere, di spostarsi. Lo spettatore è talmente compreso nel nostro lavoro che è come se fosse il nostro controcampo. Non siamo solo in scena per essere guardati, ma anche per guardare il pubblico.

G.G.: lavoriamo in modo totalmente cinematografico, al punto che fare teatro è per noi quasi un fare cinema. Cerchiamo di collocarci nel mezzo di queste due discipline, dunque è come se lo spettatore fosse l’operatore di ripresa e potesse scegliere quale punto di vista adottare. In realtà, allora, è come se lo spettatore, dopo lo spettacolo, si trovasse nella sala di montaggio: il nostro spettatore ideale ha cominciato a vedere Pilade il 25 aprile e finirà il 1° novembre. Le riprese sono durate dunque a lungo e il montaggio che si è andato costruendo è una ricerca sul punto di vista.
Come attore, io lo spettatore ce l’ho accanto, non ci sono luci a proteggermi e anzi lo guardo negli occhi. Per me lo spettacolo ormai non potrebbe essere che così.

E.S.: venendo ai cittadini in scena, a me non piace distinguere tra attori professionisti e non professionisti. Spesso, abbiamo riscontrato una profonda capacità di mettersi in discussione in persone che di professione non fanno gli attori. Il teatro è fatto da persone. Se una persona contempla e comprende la possibilità di mettersi in discussione attorno ai nodi di un particolare testo, noi sappiamo di poterla condurre in profondità, e in questi casi si tratta sempre di un lavoro da attore.

Precede la maratona il progetto Una bestemmia alta, dolce e ragionata, un percorso di incontri pubblici affidato a Rossella Menna. Che cosa son questi incontri, concepiti attorno all’officina di Archivio Zeta?

Rossella Menna: Il luogo comune che accompagna il teatro contemporaneo è l’idea che se il pubblico non ottiene qualcosa di immediato c’è un problema nello spettacolo. In realtà non è così, lo spettatore deve guadagnarsi gli strumenti per collocarsi di fronte all’opera d’arte.
In questo senso, gli incontri costituiscono un percorso di preparazione e sono focalizzati sui vari aspetti del lavoro di Archivio Zeta: non sono fatti per trasmettere strumenti filologici legati a quel preciso spettacolo, per far capire al pubblico chi è Oreste, chi è Pilade o per informarlo sulla storia prima di entrare a teatro. Credo che nel contemporaneo sia fondamentale crearsi alcuni strumenti per avvicinarsi all’arte, per capire che di fronte a uno spettacolo è necessario rendere più sensibile il nostro sguardo, la nostra capacità di ascolto… per farlo si possono immaginare percorsi che accompagnino le proposte degli artisti. 
Il primo incontro è Perché scrivere Pilade, ed è dedicato alla drammaturgia, alla parola di Pasolini. Qui dialogano il filologo Federico Condello e Claudio Longhi, esperto di discipline teatrali, docente all’Università di Bologna e regista teatrale, e come in tutti gli incontri si innesta anche la testimonianza di Archivio Zeta. Si svolge nell’Aula Zambeccari del Liceo Galvani, dove Pasolini si è diplomato, ci sarà dunque la possibilità di vivere un’atmosfera di per sé particolare. Partire dalla parola era fondamentale, e i due esperti chiamati a intervenire svilupperanno una riflessione credo importante sul  tema, analizzando dettagliatamente che cosa succede quando si verifica il corpo a corpo con un testo.
Al Museo internazionale e biblioteca della musica si svolge il secondo incontro, dedicato alla dimensione sonora della scena, pensando a Pilade ma anche agli altri lavori della compagnia. La musica qui è intesa non come accompagnamento ma come suono, voce, rumore, in generale come ordito di una partitura. Al pubblico sarà permesso di fare dei piccoli esperimenti di percezione e saranno Patrizio Barontini, sound designer di Archivio Zeta, e Massimo Marino, docente  di drammaturgia musicale oltre che critico teatrale, ad accompagnare il pubblico.
Il terzo appuntamento è dedicato alle scenografie. Saremo ospitati al Parri, Istituto per la ricerca storica sulla resistenza e sulla storia del ‘900, diretto da Luca Alessandrini. Accanto a lui ci saranno anche Sofia Nannini, studentessa di Ingeneria edile, e la ricercatrice Elena Pirazzoli, per vedere e commentare tramite videoproiezioni i luoghi della maratona e ripercorrere i set in cui sono state realizzate le precedenti tappe di Pilade.
Il quarto giorno, alla Sala Biagi di via Santo Stefano, ci sarà un incontro più conviviale in cui si riuniscono gli attori di Pilade in arrivo da fuori e dai laboratori di Bologna: verrà mostrato un piccolo montaggio video con immagini dal backstage, dalle prove e dagli spettacoli del progetto Pilade realizzati prima della maratona. Dunque, come accostarsi al lavoro di Archivio Zeta? Mi pare sia questa la domanda fondativa, e in quel “come” ognuno troverà il suo modo.

Da dove ha origine la tua collaborazione con Archivio Zeta?

Io e Archivio Zeta ci siamo incontrati più volte a Volterra, dove lavoro come dramaturg in occasione del festival diretto dalla Compagnia della Fortezza. Sono rimasta molto colpita dal percorso che abbiamo fatto per La ferita / Logos nel 2014, un progetto artistico e di riflessione con il pubblico, con i cittadini. Più in generale mi colpisce il loro modo di approfondire alcuni elementi dell’esperienza teatrale. Ricordo un verso di chiusura che utilizzarono a Dom per il progetto Avvistamenti, un frammento tratto da Cesare Pavese: «Io non sono un viaggiatore, non sono uno sperimentatore, a me piace insistere sempre sulla stessa difficoltà perché mi sembra l’unico modo di stupirmi». Questo è proprio il senso del loro lavoro, per me: approfondire quello sforzo, quella fatica necessaria per far esplodere una struttura come quella teatrale, per conquistare al suo interno un’enorme libertà.

Il progetto Pilade/Pasolini – Maratona e il ciclo di incontri Una bestemmi alta, dolce e ragionata sono realizzati nell’ambito di Più moderno di ogni moderno – Pasolini a Bologna, progetto speciale del Comune di Bologna.

PROGRAMMA

domenica 1 novembre 2015 – Bologna
MARATONA
Pilade / Pasolini
di Archivo Zeta

Pilade/Parlamento, ore 10 Villa Aldini, via dell’Osservanza 35/a
Pilade/Montagne, ore 14 Poligono di Tiro Nazionale, via Agucchi 98
Pilade/Campo dei rivoluzionari, ore 17 Pensilina Nervi, Piazza Liber Paradisus

Una bestemmia alta, dolce e ragionata. Dentro l’officina di Archivio Zeta
Ciclo di incontri a cura di Rossella Menna

mercoledì 28 ottobre ore 18
Perché scrivere Pilade
Liceo Galvani, Aula Zambeccari – Via Castiglione 38
Intervengono:
Federico Condello, docente di filologia classica dell’Università di Bologna
Claudio Longhi, docente di Istituzioni di regia dell’Università di Bologna

giovedì 29 ottobre ore 18
Una musica che dà scandalo e vergogna scorre stupendamente nella mia carne
Museo internazionale e biblioteca della musica – Strada Maggiore 34
Intervengono:
Patrizio Barontini, compositore e docente del Conservatorio Antonio Vivaldi di Alessandria
Massimo Marino, critico teatrale e docente del Conservatorio Arrigo Boito di Parma
con la partecipazione di Francesco Canfailla e Matilde Michelozzi

venerdì 30 ottobre ore 18
Scenografie di senso
Istituto per la storia e le memorie del ‘900 Parri Emilia-Romagna – Via Sant’Isaia 18
Intervengono:
Luca Alessandrini, coordinatore della Direzione Istituto Storico Parri
Sofia Nannini, studentessa di Ingegneria Edile-Architettura
Elena Pirazzoli, ricercatrice indipendente

sabato 31 ottobre ore 21
Angoli tagliati fuori dal mondo
Sala Prof. Marco Biagi – Via Santo Stefano 119
Intervengono:
Loris Lepri, settore cultura del Comune di Bologna e curatore dell’archivio Pasolini per la Cineteca
Elena Monicelli, coordinatrice Scuola di Pace di Monte Sole
Armando Punzo, direttore artistico Festival VolterraTeatro

di Serena Terranova

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