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Restare a casa. “La famiglia Campione” de Gli Omini

di Altre Velocità

Restiamo qui, nessuno si muova. Non c’è altro posto in cui andare che non sia questa casa, questo luogo imprecisato che pure non fatichiamo a riconoscere. Di fronte a noi una porta, incastonata in una bassa parete bianca, piccola porzione dell’ambiente domestico. È un corridoio qualunque, l’uscio timido di una casa che assomiglia a tante già viste, la nostra o quella dei vicini.
Gli Omini presentano così la soglia del loro ultimo spettacolo, La famiglia Campione, nato mentre i suoi autori visitavano paesi interrogando diverse persone, dialogando con loro per raccogliere storie da intessere in un unico racconto, concentrando la complessità di un panorama in un ritratto famigliare dal quale emergono stralci di una realtà possibile, sempre credibile e mai estranea.
Siamo nella semi oscurità, e un’anziana donna avanza portando un piatto pieno di mele. Le appoggia delicatamente accanto alla porticina di legno e vetro, e mentre procede con la schiena curva e un abito scuro snocciola un rosario rivelando il suo toscano. Da questo gesto non torneremo più indietro. Come un sipario interno, le mele ci accompagneranno tra i pensieri e le parole della famiglia Campione, dieci elementi interpretati dai tre attori della compagnia che assumono sui loro corpi una tripla linea generazionale: nonni – figli/genitori – figli, al maschile per i due Francesco Rotelli e Luca Zacchini, al femminile per Francesca Sarteanesi.

Quella porta nasconde qualcuno, lo impariamo velocemente: una ragazza si è chiusa in bagno, un gesto di ribellione che suona come monito a tutti i famigliari che dall’inizio alla fine dello spettacolo si radunano discutendo il da farsi per farla uscire da lì, in una catena di «Parlaci tu» o «Se le parlasse il nonno…».
Le storie e i ragionamenti si susseguono secondo la bella e lucida scrittura di questi attori-autori, attraverso dialoghi feroci ed essenziali. Sfruttando una certa asciuttezza della parlata toscana, ogni parola è anche un’azione, un dialogo che è sempre un fare relazione anche nei momenti in cui i personaggi giocano a respingersi o a offendersi quando non sollecitano l’uno all’altra ricordi, sensazioni condivise. La scena è animata da un formicolio costante, un andirivieni posato eppure ostentato. «Sono qui» sembra dirci ogni personaggio, come se questa presenza fosse di per sé segno di una dichiarazione d’amore nei confronti degli altri con cui divide la scena.
Fanno tutti parte dello stesso mondo, e a questo mondo ogni personaggio reagisce secondo la propria sensibilità: un figlio dice di essere sul punto di partire per l’estero, all’opposto del fratellastro che non vuole uscire di casa ma – poiché tutti glielo chiedono – si ripromette di farlo, un giorno; la madre guarda con aria disperata e malinconica il suo ex-marito, un uomo dichiaratamente “scemo”, in stallo tra l’essere in ascolto e il desiderio di nascondersi, mentre vorrebbe che il marito attuale avesse la risposta un po’ meno pronta, e si imbarazza per entrambi mentre il più forte (che risolve da solo il Bartezzaghi) annichilisce il più debole (che si fa suggerire al bar le soluzioni dei rebus). In questi scambi spietati, Gli Omini ci fanno anche ridere, non attraverso una comicità che si rivale della goffaggine dei deboli, ma con battute veloci, nate dal saper guardare, dalla conoscenza dei talloni d’Achille di chi ci vive accanto. Un ridere che è al contempo l’aprire gli occhi su chi o cosa ci sta davanti.

In questo piccolo mondo, ognuno lotta per il miglioramento dell’altro, ma senza darlo troppo a vedere. Dicono i nonni: «Noi s’era ignoranti, s’era ciuchi. Ora voi siete ignoranti di essere ciuchi», mentre tra fratelli ci si avverte: «Ci sono persone che sognano di fare cose impossibili, altre che stanno sveglie e le fanno», mettendosi in guardia a vicenda dalla propria staticità, dal proprio fare nido, ma con un’asprezza che non rivela in nessun modo la cura reciproca. Non c’è generosità, non c’è affetto palese, ci si accontenta di sapere come sta l’altro e che cosa sta facendo, rinunciando a una comprensione profonda. Da una generazione all’altra, o tra appartenenti alla stessa fascia di età, il confronto è serrato e diretto, senza responsabilismi da paterfamilias o solidarietà fraterna. I vecchi guardano gli adulti che guardano i giovani, e si osservano tra loro come animali di uno stesso branco che però devono imparare a sopravvivere individualmente, lottando, quando necessario, anche tra simili.
È questa una famiglia che fa da campione ad altre famiglie italiane? È possibile, ed è vero nella misura in cui ciascun personaggio non è altro che se stesso, fin nel dettaglio della postura, nell’aggressività dello sguardo o nella debolezza delle braccia che reggono buste della spesa sgonfie, riempite a malapena da scatolette di medicinali. Una sensazione di povertà ci attraversa sin dall’inizio: l’universo borghese è altrove, qui siamo fuori, in un angolo, in un piccolo luogo dove sopravvive l’essenziale e non c’è modo di comprare cose nuove per fare un regalo ma solo riciclare dal proprio armadio vecchi maglioni «tenuti come nuovi», seppure con qualche trascurabile buco nella lana.

Ma qualcuno si è chiuso in bagno. Nell’angolo di un angolo, dunque. Con quel silenzio, la sorella invisibile dà adito ai suoi famigliari di riflettere un po’ di più, di guardare un po’ più nel profondo per vedere se lì dentro ci sia o meno dell’affetto da spartire. Con la sua sottrazione la sorella fa spazio al confronto, facendo in modo che non venga più rimandato ulteriormente.
Scena dopo scena, gli attori prendono dal piatto le mele rosse e gialle che erano state appoggiate accanto alla porta all’inizio dello spettacolo. C’è chi dà un morso e basta, chi guarda con sospetto il colore della buccia, chi ne mangia metà e poi la ributta tra le altre. Le masticano e le inghiottono durante le battute, le sottraggono con noncuranza alla sorella o nell’appoggiarvi i segni dei propri denti le lasciano forse un messaggio: «Sono stato qui». Il massimo che avremo da lei in presenza della sua famiglia saranno un paio di colpi alla parete e Summer on a solitary beach di Battiato mandata a tutto volume.
Quando tutti si sono dileguati, abbandonando la base di controllo della ribellione in corso, è un attimo di silenzio, e in quella tregua la sorella (Giulia Zacchini) apre la porta per ritrovarsi finalmente sola. Guarda le mele e ne butta a terra qualcuna, scegliendo le migliori, le meno martoriate.

Nella replica vista a Modena al festival Trasparenze la prossimità tra pubblico e attori ci aiutava a stare dentro quell’intimo, a osservare la spudoratezza dei personaggi di Zacchini, il combattimento interiore delle donne della Sarteanesi o ancora il timore degli uomini di Rotelli (aspetti, questi, solo in parte prevalenti su altri, come caratteri ereditari dominanti). In questa replica noi eravamo sempre percepiti, parte di un gioco del teatro che non solo ci chiedeva di testimoniare o ridere, ma anche di capire che cosa stesse accadendo, a noi e a loro allo stesso tempo. Zacchini guarda in faccia noi spettatori per due volte, come a controllare se siamo ancora lì e se siamo vigili. E noi siamo lì tuttora, incapaci, come la famiglia Campione, di andare altrove.

di Serena Terranova

foto di Matteo Bertelli

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