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Raccontare la danza con la danza: “Fantasmata” di Fabrizio Favale

di Agnese Doria

Fantasmata è uno spettacolo che ripercorre i 15 anni di attività coreografica di Fabrizio Favale. L’opera pone alcune domande aperte sulle modalità di visione di un percorso creativo, sulla relazione tra artista e pubblico, rimanendo centrato sulle questioni sceniche della danza. Abbiamo incontrato il coreografo, che ci racconta i nutrimenti e le suggestioni da cui Fantasmata è attraversato.

Ci puoi raccontare da dove nasce l’idea di uno spettacolo dal formato scenico vicino alla conferenza didattica?

Nel dicembre 2013 la coreografa Raffaella Giordano mi ha invitato a incontrare il pubblico qualche giorno prima della presentazione del mio lavoro Isolario nella rassegna “Invito di Sosta” ad Arezzo. Raffaella mi ha dato carta bianca sul formato della conferenza, ma il tema era parlare del mio percorso creativo.
Immaginandomi seduto a una cattedra, davanti a un pubblico attento, e con un argomento così vasto e sfuggente, la mia mente ha fin da subito iniziato a saltare avanti e indietro nel tempo, individuando dei lampi di ricordi, in un pulviscolo di memorie senza contorni precisi, di cui ho finito anche per dubitare della loro veridicità.
Di fatto mi rendevo conto che queste memorie non erano solo legate al mio lavoro effettivamente realizzato, ma anche a quello non realizzato, cioè a oggetti fatti di desiderio, d’intuizione, di domande, di travestimenti d’infanzia, di vampe ardenti, di fantasmi, di assenze.
Non potevo dunque più comporre una conferenza parlata e sensata, seduto a una cattedra, ma dovevo spegnere tutte le luci (il lavoro si svolge perlopiù nella semioscurità), e dovevo passare in quel buio della scena come a uno sgranare una collana variegata, fatta dell’accostamento di materie concrete e di materie impalpabili.
Così è nato Fantasmata, un lavoro composto da nove scene, dove, mediato dalla voce di Filippo Pagotto, percorro in maniera fulminea e pulviscolare i miei 15 anni di ricerche nell’ambito della coreografia.

Conferenza didattica e immaginario fiabesco si fondono, sentivi la necessità di “spiegare” il tuo lavoro?

No, mi è completamente estranea la modalità di spiegare. Di fatto ho costruito un ulteriore lavoro coreografico per parlare dei miei lavori precedenti: quasi a sommare e ribadire che il linguaggio di cui facciamo correntemente uso e la dimensione in cui si muove la danza non sono traducibili l’uno nell’altra. So che è difficile da accettare, ma la danza non è leggibile in termini concettuali. Come un’ondata di calore nel deserto, ci fa sudare e potrebbe farci ricordare improvvisamente un nostro amante; come il becco del tucano arcobaleno potrebbe ricordarci che è là semplicemente per essere ammirato e, in un certo qual modo, intimorirci. Si tratta dunque forse di arrendersi… Considero davvero un po’ antiquata l’idea che l’intelligenza sia solo in ciò che diciamo, e non nelle mani, nei piedi, nelle zampe del fenicottero e nella foglia che si gira verso il sole.

Puoi darci delle coordinate maggiori sugli elementi autobiografici, legati soprattutto all’infanzia?

Durante il lavoro di registrazione del testo assieme a Filippo, ho sentito una specie di calore avvolgente, un’emozione trattenuta nella sua voce, quando nel testo incontrava fraseggi in prima persona. Ero abbastanza repulsivo all’idea di dover parlare dei miei ricordi d’infanzia, ma ho assecondato questa via suggerita in modo “corporeo” da Filippo, e sentivo anche che il lavoro poteva trascinare dentro un’intimità di chi ascoltava. Penso che se qualcuno ci racconta un ricordo della sua infanzia, l’intimità di cui va in cerca è forse soprattutto quella nostra non la sua; dunque si spersonalizza, per così dire. E la biografia non conta più.

Nel testo registrato si fa accenno ad alcuni coreografi (Pina Bausch, Trisha Brown) ma anche pensatori (Agamben, Galimberti…) che con il loro lavoro hanno segnato delle tappe fondamentali per la danza contemporanea. Nel citarli la conferenza acquista toni didattici non solo perché spiega il tuo percorso ma anche il contesto del novecento, al punto da poter essere uno strumento da dare agli spettatori giovani di danza autoriale. Qual è stato il tuo motore? Hai mai pensato di presentarlo come strumento di formazione del pubblico?

Sì, penso che Fantasmata sia un lavoro adatto a un pubblico curioso; forse perché è un lavoro che vuole quasi esclusivamente porre interrogativi, ma che al contempo fa attraversare alcuni tragitti che da uno stato puramente immaginativo travasano nelle opere coreografiche che vediamo in scena – e viceversa.
Ho però delle perplessità su concetti d’origine recente, come quello di “formazione del pubblico” (in questo caso rispetto alla danza contemporanea), che lasciano dietro di sé sempre una certa scia d’antipatia… Ora non vorrei essere frainteso sul tema della formazione, o risultare io stesso antipatico, ma penso che bisognerebbe essere meno generici e forse smettere di considerare il pubblico sempre ignorante. Voglio dire, siamo davvero così sicuri che in quello sguardo fresco e disinteressato non si nasconda invece una verità che possa addirittura mettere in crisi le attuali modalità del fare arte dal vivo e dei metodi di diffusione che gli enti promotori spettacolari attuano? Esagero? Forse. Ma sicuramente penso ci sia qualcosa di malposto nell’intenzione di voler formare un pubblico che non ha nemmeno la possibilità di vedere un adeguato numero di spettacoli durante l’anno. Forse quando si lavora, come qui in Italia, sul poco e sul pochissimo, nelle arti dal vivo come altrove, tutto un po’ si distorce. E allora talvolta la diffusione degli spettacoli diventano gare d’intelligenza e strategia fra direttori artistici, e le recensioni agli spettacoli gare di criptica cattiveria… Così finisce che facciamo fatica a “vedere” lo spettacolo, ma vediamo fin troppo bene “perché” quello spettacolo è lì e non un altro: una noia davvero estenuante. E allora tutti dovremmo studiare di più, a partire da chi, con anche una certa eleganza, fa intendere di sapere di più.
L’altro giorno ero con un amico a dare poche briciole a una coppia di eleganti colombi. Ebbene in un attimo tutta l’eleganza è andata perduta fra spintoni d’ali e beccate malvagie!

Come si inscrive Fantasmata nel tuo percorso autoriale?

Come ho detto all’inizio di questa conversazione, Fantasmata arriva un po’ per caso da un invito di Raffaella Giordano. O forse un caso non è. Senz’altro 15 anni di lavoro sono una buona occasione per vedere ciò che s’è fatto. Magari per metterci, come direbbe Calvino, “una pietra sopra” e guardare altrove.

L'autore

  • Agnese Doria

    Classe 78, veneta di nascita e bolognese d’adozione, si laurea in lettere e filosofia al Dams Teatro e per alcuni anni insegna nelle scuole d'infanzia di Bologna e provincia e lavora a Milano nella redazione di Ubulibri diretta da Franco Quadri. Dal 2007 è giornalista iscritta all’ordine dell’Emilia-Romagna. Ha collaborato con La Repubblica Bologna e l’Unità Emilia-Romagna scrivendo di teatro e con radio Città del Capo.

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