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Questo è un inganno. A proposito dello Zarathustra di Teatro Akropolis

di Altre Velocità

La morte di Zarathustra della compagnia Teatro Akropolis, lo spettatore ha portato a casa sussulti. Claustrofobia, follia, delirio, lussuria … Sussulti. La sera del 10 marzo al piccolo della Soffitta, i quattro attori della compagnia genovese si sono esibiti senza maschere e con abiti comodi per agevolarsi nei movimenti. Alessandro Romi? Presente! Luca Donatiello? Presente! Felice Siciliano? Presente! Francesca Melis? Presente! Il regista David Beronio chiama gli attori all’appello. Il drammaturgo Clemente Tafuri, invece, messosi comodo, incrocia le mani sul ventre e attende l’inizio. Eccolo. L’urlo straziante, a tratti cavernoso, di Alessandro Romi è l’esordio. Un inizio claustrofobico a luci spente. Le lancette dell’orologio, quasi ferme su se stesse, sembrano farsi beffe dello spettatore. Il dolore effonde anidride carbonica, come fosse un tubo di scarico e, poco dopo si fa fatica a respirare. Affanni. In questa sospensione la sala prende contorni e con essa gli attori. La luce inchioda sul pavimento le loro ombre e finalmente la cecità lascia posto ai dettagli. La sagoma di un grande tavolo delimita lo spazio; unica scenografia, al limite dell’essenziale, è quella dei corpi degli attori, corpi che si ribellano alla stasi. Sì, perché senza una logica apparente, le loro braccia, le loro gambe, ma soprattutto il loro sguardo, si cercano prima, desiderandosi e, si allontanano dopo, ripudiandosi, in una lotta seducente. Francesca Melis gioca con la sua sensualità e “la fa annusare” prima a uno e poi a un altro, insaziabile mai sazia. Lei cacciatrice, loro in attesa di essere preda. Seguire gli attori, provare a capire quale sia il motore dei loro slanci, quali siano i loro sentimenti, fa venire il capogiro. Mai in tregua, i loro corpi sempre protagonisti, i quattro comunicano in un modo tutto loro; sembra quasi che le “linguacce” stiano a significare «questo è il mio territorio, ora io sono qui e lei è mia». La corporeità è il linguaggio di questo spettacolo; gli attori ci invitano a leggere attraverso i loro corpi e le loro espressioni. L’invito è sentire. Finalmente, fosse anche per finzione, le parole non giustificano le azioni, in questo caso, le loro. In quest’orgia, in cui tutto si crea e tutto si distrugge, gli attori si slanciano l’uno verso l’altro. Lei che, a testa in giù, lecca il dito di lui; l’altro lui che la guarda ansimando e il terzo attore che in piedi li osserva interdetto. Lei che, a cavalcioni sul dorso di lui, con gli occhi chiama a sé quelli dell’altro lui. Lei che persevera nell’arte dell’illusione. Io inganno te e tu non inganni me, io ti faccio soffrire e tu mi fai gioire, mentre tu desideri me io desidero lui con me. Non è forse un inganno questo? Carmen Zaira Torretta La violenza di una mantica muta. Un eros che non si concede a nessuna forma. Un rettile divora la sua preda. Una nascita. Il disfacimento di un corpo che ancora sta giocando. Una belva sbrana ciò che rimane. Le parole di un sapiente. Sette descrizioni accompagnano i sette momenti di cui la performance di Teatro Akropolis è composta. Attraverso azione e suono queste situazioni si rendono riconoscibili agli occhi degli spettatori, non come storie rappresentate ma come echi di qualcosa di iscritto nella memoria a tal punto da poter affiorare alla mente direttamente tramite l’essenzialità dei corpi degli attori. Come in un concerto in sette movimenti, legati tra loro senza soluzione di continuità, la coralità dei quattro performer si alterna a momenti dove l’azione di un solista è sostenuta dai compagni attraverso l’attenzione dello sguardo. Sono proprio gli sguardi a creare la spazialità dello spettacolo, intrecciando costellazioni tra gli attori e definendo la trama delle azioni. A questo spazio tracciato dalle relazioni si aggiunge quello portato da un massiccio ambiente sonoro costituito di scarne musicalità incastonate dentro a rumore che, nel crescendo, satura l’ambiente di alcune delle scene. Questi elementi mirano direttamente alla pancia dello spettatore, cercando di attivare in lui una connessione con la sua natura preverbale e più vicina alla sua origine. È verso questa direzione che la compagnia genovese indirizza il suo lavoro, dichiarando di assumere come generatore del processo creativo e di studio l’interrogazione di quei momenti pre-tragici che Nietzsche individua nei cori ditirambici praticati durante le feste dionisiache, avvicinandovisi tramite una ricerca che scava nell’interiorità primordiale e bestiale dell’essere umano. Matteo Boriassi]]>

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